Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

Fuzzy Leadership

Leadership richiede nella traduzione italiana quasi un giro di parole: “capacità di condurre persone, motivandole, e mantenendo la responsabilità dei risultati“. Più o meno.

Il discorso sulla leadership è scontato in ogni convegno politico, organizzativo, economico …

I manuali di organizzazione da qualche anno stanno proponendo anche un’evoluzione del concetto con l’aggiunta di due aggettivi: “diffusa” e “situazionale”.

La leadership diffusa sarebbe una specie di capacità-competenza condivisa da un gruppo di lavoro, dove tutti sono in grado, alternandosi, di guidare le altre persone, o di proporre soluzioni eccellenti; quella situazionale sarebbe una specie di leadership correlata in modo puntuale ai momenti e ai luoghi, sempre diversi e sorprendenti per l’agire umano, attivabile da chiunque, lì, sia in grado di pensare la cosa giusta da fare.

Osservo che forse sta emergendo la consapevolezza di un nuovo, ulteriore tipo di leadership: come può esistere in matematica una logica fuzzy, cioè indefinita e confusa, anche nell’ontologia della leadership si può dare una sua modalità fuzzy.

Non nego che mi capita di sperimentarla sempre di più, e sempre più spesso. E’ senz’altro legata alle competenze trasversali e antropologiche dell’agire organizzativo.

Sempre di più oggi i gruppi dirigenti hanno bisogno di consigli e orientamenti che siano originati da posizioni “disinteressate”, fuori schema e fuori gerarchia, cosicché si possano ipotizzare percorsi e decisioni insolite, discontinuità organizzative e apparenti paradossi logici.

Chi governa, il decisore, sempre più spesso ha bisogno di cercare orientamenti nel pensiero libero e creativo di chi riesce a stare fuori  (dei) e dentro i processi decisionali, contemporaneamente.

La Fuzzy Leadership è anche un buon antidoto contro la prepotenza, la presupponenza dei decisori solitari, solipsisti e autoreferenziali. E’ un antidoto contro la superbia intellettuale, il peggior vizio morale dell’anima.

Ratio operandi

Ratio operandi  è il titolo di un ciclo di conferenze sulla cultura della persona e dell’impresa che la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna, cui afferisco, organizza da alcuni anni. Un prossimo tema che contribuirò a trattare a febbraio è quello del potere direzionale in azienda (cfr. art. 2086 del libro V del codice civile).

Sappiamo che l’imprenditore può delegare il potere anche a suoi collaboratori primari,  dirigenti e responsabili di aree o funzioni specifiche. L’esercizio del potere pone immediatamente questioni di carattere antropologico, etico e psicologico. Il potere si esercita mediante l’autorità ad esso connessa in due modi, che sono l’autoritarismo e l’autorevolezza.

La tentazione dell’autoritarismo è sempre forte, specie in personalità caratterizzate da autostima espansa, che è controproducente per chi la vive e per gli altri, esattamente come l’autostima bassa, e provoca non lievi danni. Si tratta di una modalità espressiva che conculca le personalità e le potenzialità altrui, e quindi fa del male all’azienda, poiché frena la creatività delle persone che collaborano con la persona autoritaria.

L’autoritarismo è una scorciatoia cognitiva e morale. Chi vive e pratica questo stile è di solito una persona solo apparentemente sicura di sé, ma in realtà debole e incapace di farsi valere mediante il convincimento razionale degli altri. Preferisce, se contraddetto, la minaccia, a volte esplicita e a volte velata, alla fatica del discorso logico-argomentativo, tipico di una mente razionale e di uno spirito ragionevole.

Di solito si attornia di yesmen, collaboratori dal carattere fragile e dalla personalità sbiadita, i quali tendono ad assecondarlo facendo anche finta di volergli bene. In realtà, nel momento in cui l’autoritario cadesse in disgrazia sarebbero i primi a mostrare il pollice verso. Un autorevole saggio di Hugh Freeman ci conferma in questa nostra tesi. Nel libro Le malattie del potere, Garzanti, egli racconta come molti leader politici, militari e dell’economia (Hitler, Stalin, Roosevelt, Thatcher, Hailè Selassiè, etc.), in realtà, fondassero la loro attitudine al comando su sentimenti e relazioni umane spesso negative, causando alla fine, soprattutto in alcuni casi, anche disastri immani.

L’autorevolezza è invece figlia di competenze vere, caratteristica di una personalità integrata tra la dimensione razionale e la dimensione emotiva, e conseguenza di principi morali solidi. Di solito non ha bisogno di manifestazioni esteriori di tipo narcisistico o vanaglorioso (si legga in proposito il Miles gloriosus di Plauto dove il personaggio di Pirgopolinice, cioè il “vittorioso di torri e città”, è lo spaccone o fanfarone, che alla fine…).

Questo peraltro accade anche in politica, dove i capi preferiscono personalità gregarie piuttosto che valorosi competitors, i quali, se accettati, farebbero crescere i capi stessi e la forza politica.

L’azienda, a differenza della politica, però, oggi meno che mai può permettersi una situazione di stress  generato dall’autoritarismo.

Anche un certo tipo di linguaggio favorisce l’acquiescenza all’autoritarismo. Preferire l’espressione “il mio capo”, invece che “il mio responsabile” non va nella giusta direzione, perché alimenta a livello sia conscio sia inconscio un processo mentale di irrigidimento nella condizione riconosciuta e molto spesso anche troppo lodata. A volte si usa per brevità questa espressione, ma  così facendo si avallano le tendenze meno nobili ed evolute, che sono spesso insite nel cuore umano, nascoste alle persone stesse.

Dei Diritti, uno scivolamento semantico

La constatazione di una “crisi culturale[1] strutturale”, la quale è costituita da più elementi: crisi di identità individuale e sociale, incertezza sul futuro, declino demografico, etc., dà conto di una prima, attuale “circolarità negativa” visibilissima, che si può ritenere -nel contempo e reciprocamente- causa/effetto di assoluta evidenza.

Questa “circolarità negativa” si manifesta nel modo di essere delle persone, nelle loro incertezze, nel disorientamento diffuso, nella difficoltà di comprendere i macrofenomeni della mondializzazione e del rimescolamento etnico-religioso-culturale in atto, e, infine, nella messa in questione di principi (o valori o, per meglio dire, virtù) che fino a pochi decenni fa apparivano fondamentali (umiltà, disponibilità all’ascolto, obbedienza, prudenza, e così via).

Probabilmente la “matrice essenziale[2] di tale crisi è individuabile innanzitutto nella prospettiva pseudo-razionalista di uno scientismo che -con la sua arroganza[3] ha finito per mettere in questione le stesse condizioni di possibilità di una epistemologia cognitiva aperta, cioè di un processo di conoscenza del reale “certa ed evidente”, e nel contempo disponibile ad ammettere condizioni di impossibilità di mostrazione empirica di tutto ciò che si osserva. Infatti, la prospettiva pseudo-razionalista pone come unicamente plausibile una conoscenza derivante solo dalla sperimentazione scientifica tout court.

Questa impostazione, negando ogni valenza di dignità razionale a ciò che sfugge all’analisi scientifica così com’è oggi, impoverisce in maniera decisiva la possibilità di approcci umanistici integrati, che comprendano anche la realtà della ricerca spirituale delle filosofie e delle religioni, bellamente ignorando che il “senso del sacro”, come insegnano anche gli antropologi atei, appartiene all’uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del mondo.

Ciò ha inficiato -conseguentemente- anche la possibilità di declinare un “sapere etico” fondato su “principi di certezza”, come scienza del giudizio sull’agire libero dell’uomo, dove l’uomo stesso è soggetto e oggetto del suo agire, e fine prossimo dell’agire stesso.[4]

L’impossibilità di una “conoscenza certa ed evidente” dei principi pone in questione l’insieme del processo cognitivo dell’essere umano.

I dibattiti infiniti (e ferocemente ideologici) sui temi di “etica della persona”, cioè sulla vita umana, di questi ultimi anni, lo testimoniano.

La vicenda di Eluana, la fecondazione assistita, l’aborto, il tema delle droghe sono stati e sono temi raramente declinati con il criterio dei saperi interdisciplinari (filosofia, diritto, biologia, medicina, etc.), e più spesso sono stati oggetto di furibonde polemiche, grida scomposte e liti politiche.

Ciò sta anche a significare come lo stesso, tuttora immenso e in molte parti del mondo negletto, tema dei “diritti fondamentali della persona” (a sessantadue anni dalla Dichiarazione dell’ONU) stia semanticamente scivolando verso una accezione tesa a sottolineare prioritariamente i “diritti civili individuali” (testamento biologico, matrimonio gay, etc.), perdendo progressivamente di vista ciò che costituisce il fondamento dei diritti stessi, l’aggancio alla politica e al sociale, la sua natura comunitaria e collettiva (diritti politici e sociali).

Un altro aspetto della “deriva culturale attuale” è costituito dalla pervasività della comunicazione [5], resa possibile dalla Rete globale e dagli strumenti connessi, oramai alla portata di tutti. Sta perfino crescendo la generazione dei “digitali nati”, dodici/quindicenni che preferiscono la comunicazione informatica al dialogo diretto con l’altro.

Il rischio di questo scenario è duplice:

–         innanzitutto, a) proponendo una massa smisurata di informazioni rende molto difficile l’individuazione di criteri di scelta e discernimento tra le notizie e i dati disponibili,

–         e b) sposta il focus della comunicazione dal suo stesso fine che è la relazione dialogica -che prevede un adeguato “investimento emotivo”- allo strumento, con una confusione perniciosa di mezzi e fini: il telefonino con il quale si producono sms diventa il canale privilegiato della relazione intersoggettiva, non solo della comunicazione operativo-formale.

Da ultimo, si può dire, che anche la politica ci mette del suo: da un lato con la tendenza alla personalizzazione delle opzioni partitiche (abbiamo sempre più “cognomi/simbolo di partito”, o loghi che cambiano al variare della loro “vendibilità” politico-elettorale) e al rischio di creazione di nuove oligarchie, dall’altro con l’incapacità di declinare un riformismo reale, che esca dalle dichiarazioni per incarnarsi in fatti e decisioni coraggiose (si veda il conservatorismo di certi “sindacati e partiti progressisti”, e l’ossimoro ci sta tutto!).


[1] In questo caso l’aggettivo “culturale” va inteso tenendo conto del campo semantico di maggiore ampiezza (come nel termine tedesco di “Kultur”), che comprende l’insieme degli elementi che costituiscono il “modo d’essere di un popolo”, non solo nel senso più ristretto di “insieme di saperi”. Va inoltre considerata principalmente come una “specifica” del nostro mondo occidentale, pur non essendone esenti gli “altri mondi”, come l’Islam o l’Oriente, che è destinato nei prossimi decenni ad una primazia planetaria, e non solo sul piano economico.

[2] Nel senso proprio di “datrice di sostanza, di effettività”.

[3] Cfr. certe affermazioni e scritti recenti di U. Veronesi, R. Dawkins, M. Hack, P. Singer, e, per certi aspetti, anche P. Odifreddi, P. Angela e altri. Con ciò non si vuole certamente dire che la ricerca scientifica non debba procedere, così come si muove l’intelligenza umana, ma agendo su uno sfondo di umiltà, sola virtù che fa accettare il limite connesso con l’intelligenza stessa dell’uomo.

[4] Andrebbe indagato con cura anche un certo “lascito sessantottino”, soprattutto per la perdita di vista di una corretta antropologia delle relazioni: la confusione padre/amico nasce da lì con conseguenze perniciose.

[5] Un altro elemento da approfondire è il ruolo della televisione, che in questi ultimi trent’anni ha contribuito a sedimentare un humus culturale -peraltro in tutto l’Occidente e non solo- che ha favorito la perdita di vista di una autonomia di giudizio e di scelta personale. Parliamo del condizionamento psicologico e morale individuale e collettivo provocato dal sistema mediatico.

La Lezione di Pomigliano

Alcune migliaia in corteo, quelli che volevano mostrare di voler lavorare, altri (non molti) su un ponte con cartelli dove era scritto “servi del padrone”. La vicenda Fiat di Pomigliano d’Arco è emblematica anche in queste immagini.

La Fiom non ha firmato, perché ha ritenuto che il documento della Fiat contenesse violazioni patenti del contratto di lavoro e di alcuni princìpi costituzionali e legali, che questo sindacato definisce indisponibili.

Gli altri sindacati hanno firmato e i lavoratori hanno abbastanza largamente approvato (con il 62,4%) il documento che (forse) sbloccherà gli investimenti e un progetto di reindustrializzazione.

Il tema è molto complesso. Proviamo a riflettere. La Fiat ha proposto un documento che cerca di garantire per vie regolamentari comportamenti e doveri abbastanza rigidi, per combattere l’assenteismo cronico.

La Fiom contesta che vengono lesi diritti fondamentali, come il pagamento della malattia nei primi tre giorni, il non rispetto dell’equivalenza delle mansioni nel caso di mobilità interna, il ricorso alla cassa integrazione straordinaria senza rotazione, e così via. E chiama il testo aziendale “ricatto”.

Il referendum del 22 giugno ha poi sancito che la maggioranza “qualificata” dei lavoratori è stata disponibile a condizioni di lavoro giuridicamente un po’ più restrittive.

Siamo sempre al vecchio tema dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Vi è chi li ritiene intangibili, come fossero “diritti fondamentali della persona” (così definiva l’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori Sergio Cofferati nel 2003, facendo confusione logica e semantica). Manca spesso un po’ di formazione linguistica e filosofica a qualche responsabile. E vi è chi li ritiene – come chi scrive –  diritti storicamente dati, ma da collocare nel reale processo della storia e della storia economica. Riassumiamo, solo per memoria e onestà intellettuale: si danno diritti inviolabili e indisponibili, come il diritto alla intangibilità della persona, ad una vita dignitosa, all’istruzione, alla salute, etc., che sono diritti, si può dire, di ordine “naturale”, riconosciuti dalle legislazioni delle grandi democrazie moderne. Essi costituiscono la base dei diritti civili, i quali innervano la convivenza democratica, così come i diritti sociali, dei quali fanno parte gli ordinamenti del welfare e la contrattualistica legale e sindacale.

Confondere questi ultimi con i primi definendoli inviolabili – in quanto comunque acquisiti – è un errore logico e un non senso etico-giuridico. Per definizione, ciò che diventa diritto positivo, se non viola i diritti fondamentali della persona, può essere emendato e modificato, in una prospettiva congiunturale eticamente accettabile. In questo caso Fiat non ha avuto torto a proporre il suo documento, anche se costituisce un certo arretramento nelle garanzie soggettive dei lavoratori, e la Fiom ha comunque diritto di protestare. Sorge a  questo punto un quesito: se si pongono delle scelte fra beni di livello e natura diversa, là dove si individua una gerarchia di valore, come nel caso di Pomigliano d’Arco, se ne deve tenere conto o no? Logica vuole che se ne debba tenere conto: infatti, si deve porre sui piatti della bilancia due ordini di beni, in questo caso l’“occupazione”, che si può qui definire “bene maggiore”, e i “diritti acquisiti” considerabili, dunque, come “bene minore”, tra i quali è razionalmente doveroso discernere. Sceglierò allora – secondo prudenza e coscienza – il “bene maggiore”, riservando a tempi migliori la possibilità di ricontrattare i livelli del “bene minore”.

Retribuzioni ed Equità

Qualche settimana fa in un articoletto pubblicato su un settimanale tra i più diffusi si spiegava che recentemente il Parlamento aveva votato all’unanimità  e senza astenuti un aumento di stipendio per i parlamentari  pari a circa 1.135,00  Euro al mese. Inoltre pare che la mozione sia stata trattata in modo tale da non risultare nei verbali ufficiali. La loro situazione stipendiale attuale è questa: Euro 19.150 complessivi al mese, di cui circa Euro 9.980 di stipendio; per “portaborse“ circa Euro 4.030 al mese (a volte si tratta di un parente o familiare); per spese di affitto a Roma rimborso di circa Euro 2.900 al mese; per indennità di carica da Euro 335 a circa 645 mensili (questi esentasse); telefono cellulare, tessera del cinema, tessera dell’autobus – metropolitana, francobolli, viaggi aerei nazionali, pedaggio autostrade, piscine e palestre, ferrovie dello Stato gratis, e altre agevolazioni per cliniche, assicurazioni. Con un lauto stipendio corrente hanno diritto alla pensione dopo 35 mesi in parlamento, mentre i cittadini-lavoratori la maturano dopo 35/40 anni di contributi. Poi vi sono i privilegi degli ex presidenti di Camera e Senato i quali hanno a disposizione a Roma un ufficio, una segretaria, l’auto blu e una scorta. Quando gli si chiede conto di ciò, sempre all’unanimità, destra – sinistra – centro, i parlamentari si “giustificano” dicendo che per legge  i loro emolumenti sono agganciati a quelli dei magistrati di primo livello (anche lì dunque…). Si può far notare che in Germania e Francia i parlamentari percepiscono una somma che è circa la metà del compenso italiano, paragoni ragionevoli, perché la Francia ha più o meno la stessa popolazione e lo stesso Pil italiano, e con la Germania, che è il più popoloso e produttivo paese dell’Unione Europea, condividiamo dei sistemi di welfare abbastanza simili. Trattati in modo abbastanza analogo come stipendio base sono i consiglieri regionali, e in modo ancora più dovizioso i parlamentari europei (!). Lì le cifre sono da scandalo, pietra di inciampo logico e morale. Sull’altro lato della vita italiana, invece troviamo trattamenti economici per persone che comunque devono far sbarcare il lunario alla famiglia: 900/1000 Euro al mese un impiegato diplomato neo-assunto, altrettanto un operaio generico, 1200/1300 un ingegnere iunior, 1400/1600 un operaio specializzato, circa 1800/2000 un capoufficio amministrativo, sui 2000/2500 un quadro con responsabilità gestionali, tecniche e commerciali non banali, dai 3600/3800 ai 4500/5000 Euro netti al mese un dirigente con responsabilità di business, amministrative, tecniche, commerciali: una figura professionale che è ordinariamente licenziabile . Oltre queste cifre vi sono pochissime figure apicali nei settori privati di questa nostra regione e in Italia. Anche nel pubblico impiego la situazione retributiva è più o meno la stessa, tra cui gli insegnanti sono tra i peggio pagati d’Europa, e questo è un altro scandalo, mentre non poche figure dell’accademia, ottimamente trattate, non splendono per efficienza e resa. Il rischio implicito nell’affrontare questi argomenti è sempre quello di polemizzare in modo demagogico e populistico, la qual cosa non giova ad argomentare con la dovuta pacatezza e lucidità. Scontando ciò, e raccomandando a me stesso e al lettore di moderare la scontata incavolatura, si tratta di chiedersi come si può fare per modificare una situazione così evidentemente abnorme, proprio nello spirito del rispetto di un’etica dell’equità sociale (non dell’eguaglianza, che è un altro principio demagogico e populista, o altrimenti si deve considerare sul piano della dignità, che ci fa tutti eguali).

Le nuove frontiere del marketing

http://www.ant2work.it/writable/news/attachments/P_64_A.pdf

Innovazione e Ricerca ecco il caso Keymec

E’ possibile visualizzare il mio articolo sul caso Keymec

http://rassegna.uniud.it/rassegnastampa.2007-02-14.2882267158/MESVENUDINEX_Innovazione_e_ricerca.pdf/allegato1

Redditi e benessere in tempi di crisi

Estratto dalla rubrica che curo sul Messaggero Veneto

Redditi e benessere in tempi di crisi

Redditi e benessere in tempi di crisi

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