Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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INAUDITE STUPIDAGGINI A BOLOGNA! …e bravo “compagno” sindaco! Il termine “patriota” tolto dalle vie di Bologna che, secondo Lei, sarebbe la città più progressista d’Italia. Sono allibito ma non meravigliato, perché la idiotissima “cancel culture” alligna proprio (con mio sommo dispiacere) anche nel partito oramai ulteriormente orientato alla ZTL (cioè votato prevalentemente da (o “a”, tanto è quasi la stessa cosa) chi abita nelle Zone a Traffico Limitato, che non è detto condividano l’operato del signor Sindaco, anzi ho notizie di prima mano proprio dalla ZTL di quella nobile Città a me carissima, ed ecco che proprio non è la stessa cosa il “da” o l'”a”!, che così non è; si preoccupi, Sindaco, si preoccupi…)

Per non sbagliarmi citerò – virgolettando – l’articoletto pubblicato oggi, 11 Marzo 2023, sul Currierun de Milan.

“(omissis) …prova a riscrivere la toponomastica: il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini “partigiano” o “partigiana” e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine “patriota”.

Bologna, via la parola “patriota” dalle strade dei personaggi della Resistenza: “Saranno definiti partigiani”

La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità (chissà perché? ndr), ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. E’ lo spirito (idiota, ndr) del tempo: sui social ci sono parlamentari di FdI che postano la foto di Meloni augurando una “buona giornata ai patrioti”, ma la risposta non sta nel cancellare la parola sotto ai nomi di chi ha combattuto il nazifascismo.

Per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Nievo…, ndr), e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: “Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi“. Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia, non serve pasticciare con la storia.”

Condivido e sottoscrivo ogni parola e ogni riga dell’articolo qui riportato, aggiungendo solo che, veramente, ogni giorno che viene pare avere la sua sorpresa inadeguata, quand’anche ridicola, e a volte, come in questo caso, storicamente e moralmente offensiva. Chissà se vi sarà qualche buona persona, e intelligente, della sinistra bolognese, che si voglia opporre a questa autentica imbecillità. Dico subito che c’è, io so che c’è!

Lo so, in buona compagnia, non solo del Professor Luca Alessandrini, ma anche del Professor Giovanni Orsina, e di chissà quanti altri saggi cittadini bolognesi di quella sinistra democratica e gradualista di cui Bologna va giustamente fiera, come chi mi ha scritto in tema.

Mi chiedo anche se il saggio compagno Bonaccini abbia condiviso la scelta. Ne dubito fortemente. Forse lo condivide chi lo ha “battuto” alle primarie del PD, ma non ne sono del tutto convinto, perché attribuisco alla neo Segretaria qualche discreta facoltà di riflessione, se non altro perché giovane e senza zavorre mentali di sorta.

Con questa decisione, non so se il Signor Sindaco se ne rende conto, la destra, e Fratelli d’Italia in particolare, si possono fregare le mani, perché a questo punto possono annettersi completamente il concetto, il lemma, il termine, la parola, in definitiva la semantica storica di “Patrioti” italiani, comprendendo anche quelli tipo Mazzini, Garibaldi e Nievo, tentativo già fatto da sor Benito, non a caso sozialista romagnolo, prima del suo fascistismo fascista.

Se il Signor Sindaco sapesse chi mi ha scritto condividendo – in toto – la mia opinione, forse si farebbe qualche domandina.

L’Italia è una grande Nazione. La prima del mondo, senza arroganza, per arte e bellezze paesaggistiche, tra le più importanti per storia, letteratura, musica. Tra le prime sei o sette per potenza economica, la seconda d’Europa per manifattura industriale, la prima per la meccanica. E poi ci sono diversi “moscerini” che i miei occhi colgono, in Italia, soprattutto promossi dal mezzo televisivo. Sono gli “inutili”, i “sopravvalutati”, gli “arroganti”, i “dannosi”, gli “irritanti”, gli “inadeguati”, “radical chic” e i “pericolosi” (anche al femminile)

Non farò nomi da allocare in ciascuna delle categorie “antropologiche” del titolo. Mi limiterò a descriverli, e ad attribuirli a ciascuna delle categorie stesse, lasciando al lettore il compito (se vuole) di “indovinare” di chi si tratta.

Ubique praesentes viventesque

I panegirici televisivi e giornalistici per la dipartita dell’uomo che (si dice) ha (abbia?) inventato i talk show , o addirittura la televisione di intrattenimento italiana, mi nauseano. Ora è-tutto-un-dire “che bravo“, “che innovatore“, “il linguaggio televisivo con lui è cambiato“, e via lodando sperticatamente. Non una critica, mai un dubbio. Pare si faccia sempre così con i morti. E’ un vizio italiano, e forse non solo italiano. Temporis personarumque actorum laudatores.

Spero che non sarà altrettanto per me, quando verrà il mio tempo, con tutti i difetti che ho! Se faccio mente locale sul soggetto in questione, vedo un ometto ingrassato, in ultimo spesso farfugliante, ben capace di rivolgere domande assai banali – a mio giudizio – al suo interlocutore; di lui ricordo anche insinuazioni e motteggi vari, e un sorriso talora subdolo o corrivo. Lo tratto in questa sede come penso si meriti, anche per l’indecoroso processo di squallida beatificazione, e blasfema (ipallage retorica) che si vede in tv. Dimenticavo: un uomo sempre uso ad un linguaggio romanesco capace di semplificar banalizzando perfino il dramma. E a toni scanzonati e acri. Il “tutto” oggi così ammirato dal sentir comune pubblicizzato da media. Appunto, dai media: sembra che l’opinion (non è inglese, ma un troncamento) prevalente sia quella descritta, perché la mia opinione, ad esempio, così come qui rappresentata, non ha spazio. Anzi sì, perché anche il mio blog è un medium! (pronunzia medium), peraltro visto da qualche migliaio di persone al mese. Un sopravvalutato… il “nostro”, a mio avviso.

Un altro, che si vanta di essere allievo del sopra citato. Guitto siculo che pensa di far ridere con il nulla, perché sale e teatri colmi di persone lo attestano. E’ l’audience, la prepotente audience. Onnipresente, capace di battute che paiono esilaranti, ma a me fanno solo pena. Sarà perché io ho uno scarsissimo sense of humor, essendo difficile smuovere in me l’ilarità con motti di spirito, o perché le sue battute sono trite, ritrite e inefficaci? Che sia io insensibile o lui banalotto?Ubi ilaritatis praesentia vere stat? Aggiungo: costui invecchia tagliandosi i capelli e mollando i baffi. Emerso dai villaggi turistici dove potrebbe utilmente tornare. Colà non mi incontrerebbe mai. Inutile… sempre a mio parere.

La moglie del primo citato, dalla voce infelice, raduna palestrati giovinotti e inclite giovinette per false riflessioni televisive sull’esistenza e sui valori, ma da intendere come virtù, accezione che lì non è chiara, anche se certamente non come li intendevano i “bravi ragazzi” della banda della Magliana. Perché anche i criminali hanno i loro “valori”: li chiamano in questo modo. Ma non basta non assomigliare a quei criminali, perdio! Pedagogicamente, secondo me, pericolosa.

Eccone un’altra: intrattenitrice, comica, ex insegnante di lingua italiana. Non sono un bieco moralista che si scandolizza (“o” in luogo di “a” aulico) per una parolaccia. Però, est modus in rebus, e questa donna mi sembra ecceda un po’ nel dirle, le parolacce, in orari di visibilità infantile. Non capisco se il suo agire sia tale per vendere qualche cosa… Militante volgare. Inadeguata, parmi.

Furbetti e muςiςins (pron. – imprecisamente, perché non conosco i segni fonetici – muchichins, subdolo, in friulano della Bassa) un uomo di tv e uno che dell’essere contro-la-mafia ha fatto un mestiere ottimamente retribuito. Furbetti, sine ullo dubio, opinione mea.

C’è un Ministro della Repubblica che, a fronte di un’aggressione a giovani studenti davanti a un liceo fiorentino da parte di un gruppo di picchiatori neofascisti, e di una lettera di riflessione filosofica e pedagogica sul grave fatto rivolta agli studenti scritta dalla preside di quella scuola, si premura di bacchettare quest’ultima, mentre non spende una parola o un rigo per segnalare il fatto dell’aggressione, in sé gravissimo, che deve certamente provocare sdegno, indignazione e pensiero critico per il sostrato cultural-politico preoccupante dell’aggressione. Inadeguato, a mio avviso. Meritevole di sostituzione, sia lui o meno d’accordo.

Arrogante: un conduttore televisivo che, quando parla, gli si arriccia la faccia in un ghigno terrificante. Invecchiato male, molto male. Questi ha lavorato, sia per la Rai, sia per Mediaset, sempre ottimamente retribuito, come usa in quei mestieri quando fai audience, non importa se informi o dis-informi. L’arroganza di questo signore ha anche caratteristiche – per me evidenti – di immoralità.

Irritanti: sono, nel mio immaginario, almeno due (tra molti altri): il primo è un giornalista padre padrone del suo quotidiano. Questo signore, spesso autore assai ineducato e perfin violento nel linguaggio, è irritante ancor di più per i toni irridenti e falsamente tranquilli. Per valutarlo non si devono dimenticare, oltre a giudizi largamente condizionati da pre-giudizi (che sono giudizi incompleti e non correttamente documentati, nonostante la boria dei toni e le continue assicurazioni sulla validità delle fonti), anche la sua ondivaghezza sempre rafforzata da una assertività proterva che può ingannare il lettore meno attento. Facile intravederne il nome e cognome. Sta a sinistra, ma con cattiveria (mia convinzione dove l’avversativa “ma” potrebbe anche essere omessa). Il secondo idealtipo rappresentante della trista categoria, sempre giornalista è, ma non responsabile di una linea politico-mediatica. Le sue “colpe” sono di carattere meramente “tecnico”, nel senso che, essendo un “lettore di telegiornali”, si espone ogni giorno per almeno mezz’ora al giudizio di chi ascolta la sua pronunzia affannata e affannosa, un respirar sbagliato, e un continuo errare (nel senso di sbagliare, non di girovagare) nell’accentazione dei termini, del tipo “àmministratore” in luogo di “amministratòre”, oppure “vìcepresidente” invece di “vicepresidènte” e via elencando: almeno un fastidioso errore ogni tre o quattro parole. Noto questo fenomeno ed est mihi non sopportabile. Irritanti, ripeto, per me.

Fasulla mèntore del politically correct è una scrittrice, come suolsi dire, engagé. Dovrebbe bastare per considerarla militante (a volte il/ la “militante” assomiglia a un/ a militonto/ a) di una corrente di pensiero quantomeno dannosa, in buona compagnia di una ex funzionaria dell’Onu, assurta poi ad altri compiti istituzionali e ora parlamentare. Dannose, a mio tranquillo avviso.

Tra i noiosi annovero due “campioni”: uno è un politico “nato” tre o quattro anni fa, con la sfiga di un timbro vocale fastidioso e comportamenti da fuoriclasse dei voltagabbana, mentre l’altro fa un mestiere diverso, l’allenatore di calcio in serie A, da un paio d’anni di una squadra gloriosissima e a me non antipatica. Siccome del primo ho scritto e riscritto in questi anni talmente tanto da annoiarmi anche al solo ricordarlo, mi soffermo un momento sul secondo tipo, raccontandola così: “Stamane sono in viaggio in auto e ascolto Radio Sportiva, che lo intervista. Prima che inizi a parlare prevedo, conoscendo i tratti e il dizionario lessicale del suo modo di esprimersi che, entro le prime cinque parole che pronunzierà, dirà un fatidico aggettivo con copula, costituente il predicato nominale: “E’ normale“… e lui inizia addirittura proprio con il sintagma “E’ normale“, prima e seconda parola, e poi, dopo una decina di termini detti, lo ripete. Chiudo la radio.”

Tre milioni e mezzo di stipendio annuo (nessuna gelosia da parte mia, in rima), come, più o meno, l’Amministratore delegato di Stellantis (Fiat). Proprio noiosii due, a mio avviso (ed è dir poco).

Come posso, infine, dimenticare almeno due conduttrici televisive, una gratificata in modo decisivo dalla sua filogenesi, l’altra “campione” di spocchiosa arroganza, nei tratti e nella postura. Se sopporto (senza supportare) la prima, non digerisco in alcun modo la seconda. E, proprio da ultimo, una o due campionesse delle vacanze a Capalbio, “quella che nella cuccia del cane si trovarono ventimila euro”, e quella che dirige giornali e scrive, ma soprattutto l’importante è apparire. Si fa sempre più difficile indovinarne i profili. O no?

Dispiace constatare che diversi di questi idealtipi weberiani stiano da una parte politica che mi sta a cuore. Fors’etiam è per queste ragioni che, da tempo oramai, questa parte politica… perde.

Il rischio che pavento, infine, per me e per tutt’Italia, è che a questo elenco io debba ben presto aggiungere un’altra persona appena ieri assurta a un ruolo politico rilevante, che ha appena annunziato con solenne puntiglio “Saremo un bel problema per il governo Meloni“. Bene, faccia opposizione, ma non contro l’Italia.

Così come da mio intendimento osservato in questo scritto, ne taccio il nome, Patriae caritate.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

Male e Bene in TV: a) mega stupidaggini e stupidità televisive fino al nihil universale della influencer regina, da un lato; b) il nobile giovane volto del dottor, tenente e compagno Cesare Battisti, dall’altro

Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.

Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.

I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?

Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.

amenità in tv

Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.

Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.

Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.

Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.

E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.

Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.

Cesare Battisti (1875-1916)

Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.

Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.

Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.

Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.

Gli imbrattatori (illi illaeque qui virtuose docendi populo credunt)

Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.

Babbei e babbee

Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.

Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.

Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.

Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.

Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.

Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.

Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.

Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?

Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.

Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.

Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.

Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.

Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.

Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.

Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.

I “partigiani della pace”, brutta e scadente categoria antropologica

Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.

Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)

I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.

l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.

La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta. 

Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?

Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.

Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.

Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?

Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.

“Attentato alla laicità dello Stato”: con meraviglia leggo che questa affermazione di alcuni esponenti politici è legata alla presenza di un’immagine della Sacra Famiglia, Gesù, Giuseppe e Maria, nelle corsie un un ospedale veneto

Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.

Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.

Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).

Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.

Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.

I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?

Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.

Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.

Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.

Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!

Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.

“Dante è di destra”: la enorme stupidaggine detta dal Ministro “della cultura” Gennaro Sangiuliano

Sinceramente non mi aspettavo da questo abile giornalista una defaillance così grave e altrettanto ridicola.

Giovanni Verga

Apprendiamo che il Ministro, a una convenzione del suo partito, Fratelli d’Italia, ha affermato che Dante Alighieri è il “padre” della lingua italiana e anche della Patria. Fin qui nulla di che. Siamo più o meno d’accordo tutti, uomini e donne pensanti e variamente studiosi.

Subito dopo, però, citando un libro che gli è stato regalato, il cui titolo e autore non abbiamo sentito specificare, afferma che “tutti” gli scrittori (non si capisce se si riferisca solo agli italiani o anche a tutti gli scrittori del mondo) “sono (non dice “sarebbero”: eventualmente, con il modo condizionale, avrebbe potuto smorzare un’affermazione così perentoria) di destra“.

L’affermazione ministeriale, oltre ad essere temeraria, è facilmente e altrettanto radicalmente criticabile sotto tre profili almeno: quello storico-politico, quello filosofico-teologico e quello letterario.

IL PROFILO STORICO-POLITICO

Circa il profilo storico, definire Dante come “uomo di destra” è innanzitutto un anacronismo che può comprendere, forse, anche uno studente di terza media di trent’anni fa, e oggi (forse) un liceale. Infatti, la dizione destra/ sinistra si deve far risalire alla Rivoluzione Francese (1789 – anni seguenti e conseguenze più generali): nell’emiciclo della Convenzione repubblicana le varie posizioni politiche si erano collocate in modo chiaramente distinguibile tra chi era più moderato, magari ancora monarchico, e chi invece si riteneva chiaramente repubblicano, democratico e anche proto-socialista. I Vandeani a destra e poi, gradatamente spostandoci, trovavamo le varie fazioni Giacobine, da quelle più moderate di Danton, a quelle più estreme di Robespierre e di Saint-Just. All’estrema sinistra stavano i cosiddetti Montagnardi, paragonabili alla Nuova Sinistra italiana degli anni ’70 del ‘900. Una sorta di Spartachisti o di Zeloti della Rivoluzione.

Negli anni, nei decenni e nei due secoli successivi, la dizione destra/ sinistra prese piede praticamente in tutti i Parlamenti del mondo, da quello più antico, che è la Camera dei Comuni inglese, a quello tunisino della Rivoluzione dei ciclamini del 2011.

Venendo a Dante, se anche volessimo fare una comparazione gadameriana (cioè ispirati dal filosofo Hans Georg Gadamer, che significa metterci nei panni dei suoi contemporanei con la mentalità e le nozioni nostre attuali), non potremmo – onestamente – definirlo “di destra”. Dante Alighieri è stato un uomo politico fiorentino in pieno Medioevo, ai tempi delle aspre lotte fra Papato e Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche un buon cattolico, rispettoso della Chiesa, della Tradizione cattolica e del papato romano. Non dimentichiamo che svolse severi studi teologico-filosofici, sia presso i Padri Domenicani di Santa Maria Novella, sia presso i Padri Francescani di Santa Croce.

Epperò, in tutta la sua vita, fino ad essere condannato a morte in contumacia dagli avversari politici di Firenze, lottò, sia con la scrittura (si legga il De Monarchia), sia con l’attività politica, affinché il potere religioso-papale fosse distinto e distante dal potere politico. Pur essendo un “Guelfo” (vale a dire un cattolico militante), Dante sostenne con chiarezza che il Papa avrebbe dovuto occuparsi delle “cose spirituali”, non di quelle “terrene”. E pagò duramente, fino alla sua morte in esilio a Ravenna.

Continuiamo pure sulla dizione sangiulianesca: se volessimo oggi dare una patente politica al Poeta, dovremmo cercare piuttosto una comparazione verso il “centro politico cristiano/ laico”. Dante avrebbe potuto essere un democristiano moroteo, o un repubblicano lamalfiano, e perfino un socialdemocratico saragattiano, che è la stessa appartenenza che attribuirei a Tommaso d’Aquino.

IL PROFILO FILOSOFICO-TEOLOGICO

Sotto questo profilo, è assurdo dare del “destro” a Dante, poiché la sua visione etico politica era improntata in maniera fortissima all’Etica aristotelico-tommasiana, che sosteneva con chiarezza come i sovrani, o comunque i detentori del potere, non potessero fare-cio-che-volevano senza controlli di leggi o di assemblee, certamente non come quelle democratiche attuali, ma sempre in grado di contemperare i vari diritti e doveri, coniugando i poteri con le esigenze del popolo. Dante, come amministratore fiorentino, ebbe molto a cuore le esigenze del popolo, degli artigiani e delle varie categorie sociali, senza mai mettersi prono davanti al potere del tempo.

Anche sotto il profilo dell’etica della vita umana, Dante sosteneva l’esigenza di leggi rispettose della persona, a qualsiasi classe appartenesse, nel rispetto delle leggi e dei costumi del tempo, senza mostrarsi mai bigotto o estremista.

Come si fa, pertanto, a dire che Dante fu l’alfiere della “destra”, quando la destra, storicamente, in Italia e altrove, è non solo costituita da persone maturate come Meloni, ma anche da Hitler, da Mussolini, da Franco, da Salazar, e oggi da Putin e dai governanti di certe nazioni islamiche, che ai tempi del nazismo ad esso erano addirittura alleati?

IL PROFILO POETICO-LETTERARIO

Chiedo, digrazia, al signor Ministro: dove sta il destrismo di Dante? Nell’etica che traspare dal sistema di premi e punizioni presente nel gigantesco affresco della Commedia? E’ forse di destra giudicare “politicamente” le scelte dantesche sulla collocazione all’Inferno, nel Purgatorio e in Paradiso degli innumerevoli personaggi da lui citati e ivi collocati?

Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno, presente nel Canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. Dove sta la cultura di destra in un episodio che contiene, invece, oltre all’altissima poeticità del canto d’amore, la forza tremenda della tragedia umana che si consuma nell’ambito dei costumi del tempo… e infine, è di destra l’immensa pietas che il Poeta fa trasparire nel racconto? Cosa c’entrano la destra e la sinistra con gli umani sentimenti?

Pertanto, “dare del destro” a Dante è, non solo anacronistico, falso e inappropriato, ma perfin ridicolo. Stupido.

Un solo cenno sull’affermazione ministeriale che riguarda gli scrittori che, secondo Sangiuliano, sarebbero tutti di destra. Ferma restando l’analisi storico-politica, che spiega l’anacronismo generale di tale affermazione, potrei fare un elenco sconfinato di scrittori e letterati che di destra non sono, restando, ovviamente nell’ambito degli ultimi due secoli. Vogliamo provare? Sono forse di destra Alessandro Manzoni (che era un possidente cattolico democratico-liberale), Giacomo Leopardi (che era un nobile apertissimo alle novità scientifiche e politiche), Charles Baudelaire, Victor Hugo, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Honorè de Balzac, Charles Dickens, Emile Zola, Gustave Flaubert, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Boris Parternak, Osip Mandel’stam (che erano antistalinisti, ma non di destra), Leone Tolstoj, Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Gunther Grass, per tacere di centinaia di altri. E anche se volessimo individuare “scrittori (ritenuti) di destra”, potremmo citare Dostoevskij, che però non era di destra, ma era un cristiano russo dell’Ottocento, Giovanni Verga, che però scrisse degli “ultimi”, con efficacia ineguagliata, o Gabriele D’Annunzio, il cui “essere-di-destra” era di un tipo radicalmente diverso dal mussolinismo che lo sopportò, temendolo non poco. E magari anche Solgentsin, la cui “destra” non è mai stata fascista, ma teologico-nazionalista.

Mi auguro che Sangiuliano “si spieghi” e, se lo ritiene opportuno, “si corregga”, perché – da Ministro della Repubblica (e docente universitario) – ha fatto una figura pessima.

Di un “ego” (io) debordante fin nella vanagloria… cosicché, alla fine, chi è il più ricco di quel “cimitero” di tanti ego?

Una specie di “seminario” del lunedì mattina, oramai da anni mi impegna piacevolmente con l’Amministratore delegato di una grande azienda, l’amico dottor G. (non è Giorgio Gaberschek!). Si parla certamente dell’Azienda stessa e delle consociate, ma anche di millanta altri temi, soprattutto di etica e di politica, siccome in quel posto di lavoro presiedo l’Organismo di vigilanza previsto da una legge dello Stato.

Osservando la fine di alcuni esimi personaggi, come il grande calciatore Pelé e Joseph Ratzinger, a fronte di personalità così rilevanti ci si è chiesti se l’ego di quelle persone sia stato importante per la loro affermazione personale. Abbiamo condiviso il sì, ma in un certo senso, perché non risulta che, né il grande campione brasiliano, né il teologo tedesco diventato papa fossero mai stati caratterizzati da notori comportamenti egocentrici o superbi, nonostante avessero raggiunto i massimi livelli nei loro rispettivi “campi”. Pelé è stato quasi l’opposto civile e morale di un Maradona, sempre esagerato e retorico-populista; Ratzinger è stato sempre mite e quasi dimesso, nei tratti del suo modo di essere e di porsi con gli altri. Di Messi non parlo, perché assai mediocre come tipo umano, mentre Cristiano da Madeira mi sarà utile per esemplificare un’ipertrofia dell’ego.

Si tratta del tema dell’ego, dunque, secondo Sigismondo Freud, che lo colloca in una triade che comprende il superego, ovvero la coscienza morale, e lid o es, vale a dire l’inconscio; dell’io secondo René Descartes che ritiene di-essere-cosciente-di-essere-al-mondo e del mondo solamente-in-quanto-lo-pensa, e non in-quanto-esiste anche quando dorme o quando è privo di coscienza, quindi indipendentemente dalla sua (di Descartes) stessa esistenza; dell’io secondo Immanuel Kant, che caratterizza la conoscenza e la limita; dell’io secondo Friedrich Schelling etc., e dell’io secondo la filosofia classica di Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico, Gregorio Magno, Agostino di Ippona.

Al fine di non scrivere un saggio tremendo e faticoso trattando di ciascuno dei pensatori sopra citati, prendo solo Schelling, il più romantico e soggettivista filosofo dell’Idealismo tedesco ottocentesco, che a me piace molto. Agli altri dedicherò qualche cenno.

Schelling ragiona in questo modo, andando oltre il suo contemporaneo Fichte: l’Io pone il non-Io, ovvero il soggetto (lo spirito) pone l’oggetto (la natura), attraverso un processo, di remota ascendenza neoplatonica, tutto interno all’Io, dal momento che fuori di esso non vi è ancora nulla.

Tuttavia, precisa Schelling, se la natura nasce dallo spirito, significa che la natura ha la stessa essenza dello spirito, ovvero essa è lo spirito stesso che si manifesta in modo diverso.

Per Schelling la natura è spirituale, esattamente come l’io-umano, di cui è prodotto. sottolineando che la natura è un prodotto dell’Io (la cui prerogativa è la spiritualità). Egli afferma che la natura altro non è che spirito pietrificato. La natura, è come una semiretta, il cui punto di partenza è l’Io che pone il non-Io, da cui parte con slancio infinito. La filosofia di Schelling è una Filosofia dello Spirito e della Natura: come in Fichte, vi è l’Io (spirito) che pone il non-Io (natura), verso cui infinitamente tende, fino alle tecno-scienze (mio arbitrario aggiornamento di Schelling, abbiate pazienza, e soprattutto tu, Giorgio, che sei di Schelling uno dei maggiori studiosi italiani). Il professor Giacometti è il mio successore alla Presidenza di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza FIlosofica.

Con l’Idealismo tedesco siamo alla manifestazione massima dell’Io filosofico, dopo di che inizia un periodo di riflessione su questo “io”, fino alla constatazione che la sua centralità può generare pericoli non da poco.

La sua esaltazione porta poi, nei cent’anni successivi alle esagerazioni di tutte le forme di egocentrismo, dal culto del capo, nei fascismi e nello stalinismo, nel dannunzianesimo, nel futurismo e in tutte le teorie e le prassi vitalistiche che hanno posto al centro di tutte le cose del mondo e delle vite individuali l’io umano, etc..

Per quanto riguarda gli autori classici sopra citati si può dire che si riferiscono alle antropologie platoniche e aristoteliche, che prevedono l’apprezzamento dell’io individuale come soggetto agente moralmente responsabile delle azioni libere. Tale visione è però “irrorata” del personalismo evangelico, assente nella filosofia greca, così come sviluppato dagli stessi Padri, e soprattutto da sant’Agostino.

…e dunque l’egoismo, l’egotismo, l’egocentrismo, e perfino l’egolatria, che è una sorta di adorazione dell’io, dell’ego.

Prima di parlare di questo ego, è bene ricordare i vizi connessi a queste modalità di sua “debordanza”: la vanagloria, l’orgoglio spirituale e la superbia, che in modi differenti generano le deformazioni dell’io.

La vanaglòria s. f. [dalla locuzione latina vana gloria «vanteria vuota»]. – Sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui si ambisce la lode per meriti inesistenti o inadeguati; nella teologia morale cattolica è definita come l’immoderato desiderio di manifestare la propria superiorità e di ottenere le lodi degli uomini: peccare di vanagloria.

L’orgoglio è la stima, l’amore disordinato di se stesso, che porta la persona a disprezzare gli altri e attribuire a se stesso quello che è di Dio. 

Nell’Antico Testamento, la prima manifestazione dell’orgoglio umano appare nel tentativo dell’uomo di essere come Dio, presente nella Genesi, nel racconto del peccato originale (cf. Genesi 3,1-13) (cf. Dizionario biblico universale. Pg. 572)

La superbia è la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo.

E’ Caput vitiorum, inizio e fomite di tutti i vizi, poiché il superbo ritiene che, solamente a lui stesso, sia consentita ogni azione, indipendentemente dai riflessi che essa può avere sugli altri. Il superbo è anche presuntuoso e arrogante, e talvolta prepotente fino alla protervia e alla crudeltà. Non mancano una miriade di esempi nella storia umana.

Proviamo a chiederci se conosciamo qualcuno che mostri un ego debordante fino alla vanagloria, in qualsiasi settore della vita umana. Pensando al gioco del calcio, mi/ ci è venuto in mente, tra non pochi altri, Cristiano Ronaldo, che ora va a insegnare calcio in Arabia Saudita pagato cifre inaudite (per noi e la gente comune), ma da lui ritenute forse appena sufficienti per premiare il suo valore auto-percepito.

Il pensiero successivo venutoci è quello relativo al tempo che passa, che quel calciatore sembra non accettare… e subito dopo abbiamo pensato al

cimitèro (antico e poetico cimitèrio, anticamente ceme-tèr[i]o) sostantivo maschile [dal latino tardo coemeterium, greco κοιμητήριον (coimetèrion)«dormitorio, cimitero», derivato di κοιμάω (coimào) «mettere a giacere»]. – Luogo destinato alla […] sepoltura dei morti sia per inumazione sia per tumulazione (detto anche, quando indica i cimiteri dei cristiani, camposanto): i viali, le tombe, la cappella del cimitero; cimitero monumentale, con sepolture costituite in genere da cappelle e monumenti…

Mi pare che a questo punto sia utile un po’ di sano realismo aristotelico-tomista contro la vanagloria dell’io, che non crea il mondo, che esiste senza e nonostante l’io, come insegnano Martin Buber (ebreo austriaco) ed Emmanuel Lévinas (ebreo lituano di formazione francese), con le loro rispettive teorie dell’io e del tu, e del vòlto dell’Altro. L’io e il tu, e il volto dell’Altro sono state le immagini scelte dai due pensatori per sottolineare la fondamentale importanza della Relazione inter-soggettiva per la vita nell’umano consorzio in tutte le sue dimensioni.

Io esisto e sono certamente di-per-me, ma anche in-relazione, caro Cristiano da Madeira.

Altrimenti, se non realizzi questo, tu sarai solo il più ricco del cimitero dove un giorno (questo è sicuro) riposerai.

Avere un figlio è soprattutto un “dono”, non un mero “diritto”, a mio avviso

Prima ancora che si registri lo scontro espressivo e semantico, presente nel dibattito politico e sui media, fra le espressioni genitore 1 e genitore 2 e madre e padre, faccio notare che la differenza radicale tra le due impostazioni giuridiche e burocratiche è eminentemente filosofica, mentre la divisione tra gli schieramenti politici di destra e sinistra è meramente di convenienza politica. E trovo che tutto ciò sia abbastanza assurdo, oltre che culturalmente di poco momento e molto sciatto.

La sinistra ritiene che avere un figlio sia un diritto, mentre la destra su questo non si esprime chiaramente, perché nell’area convivono delle impostazioni, si può dire, ancora quasi clerical-fasciste, assieme a pezzi di buona cultura liberale, talora mischiate in un bailamme non facilmente dipanabile. Gli obblighi delle alleanze mettono spesso vicine persone e gruppi politici tra loro non “intonati”, non componibili e di fatto impossibilitati ad avere una linea politica chiara, coerente e ben distinguibile, tra le altre politiche. Un esempio: si pensi a quanto poco “tenga vicino” la cultura politica di un ministro Nordio, coerentemente liberale nell’anima e nella sua biografia, e quella di un Salvini (se per quest’uomo si può parlare di una qualche “cultura politica”).

Dopo varie vicende normative, ora tornano in vigore nei documenti pubblici le dizioni “naturali” di padre e madre, mentre nel contempo, non v’è dubbio – a mio avviso – si deve confermare pacificamente la legittimità morale e giuridica di famiglie variamente “declinate”, e in sovrappiù sono note e ineludibili le difficoltà burocratiche per coloro che costituiscono famiglie cosiddette “arcobaleno”.

Di fronte a questo “ritorno al passato” nei modelli documentali il mainstream radical chic pare essere desolato, come mostra la sociologa Chiara Saraceno, la quale, o non capisce, o non è interessata alla filosoficità del tema, oltre alla sua dimensione politica e sociologica.

Anche giornalisti in gamba come (e qui mi delude) il bravo Vicaretti di Tg24, quando commenta ironicamente la tesi filosofica di Stefano Zecchi, che è analoga alla mia, e poi propone le riflessioni di Saraceno, condividendole, stanno nel mainstream. Trovo che la deontologia di un commentatore stampa di un canale pubblico dovrebbe astenersi dallo sposare così chiaramente una tesi invece di un’altra. Anche questo signore, che è giovane e bravo, avrebbe forse bisogno di ampliare il suo sguardo giudicante a una visione filosofica del tema “diritto & dono” di un figlio.

Per sostenere che avere un figlio non sia meramente un diritto, bisogna, come sempre, utilizzare la logica filosofica, assieme con le scienze linguistiche della filologia e della semantica, prima ancora di interpellare un’etica generale della vita umana solida.

Che cosa significa la parola “diritto”? Innanzitutto un qualcosa che deve appartenere all’uomo(-donna) per il fatto stesso di essere al mondo. Sto parlando dei diritti fondamentali alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro etc. Immediatamente si coglie la storicità ineliminabile di questi diritti, che sono stati variamente intesi, riconosciuti e praticati nella storia dei popoli del mondo. Ad esempio, anche il diritto alla vita, che per noi occidentali contemporanei sembra (ed è, da noi, fattualmente) fuori discussione, al netto dei crimini e delle guerre, non è sempre stato incontestabile e assoluto, Perfino nella civilissima antica Roma tardo repubblicana o imperiale, ad esempio, gli schiavi erano semplici “oggetti”, la cui morte violenta causata da un cittadino libero, non era nemmeno punibile, se non con una ammenda.

Se allarghiamo lo sguardo ai tempi e ad altri territori, anche mantenendoci nella contemporaneità, questo diritto inalienabile è pienamente in discussione in molti stati e nazioni. Anche qui un esempio: come è garantito il diritto alla vita in un contesto civile di libertà nell’Iran di questi anni? E in Sudan? E in Eritrea? Propongo solo alcuni esempi tra decine di casi e situazioni dove i diritti fondamentali sono, non solo non riconosciuti, ma vilipesi e calpestati.

Bene, se i diritti fondamentali sono un qualcosa di essenziale e di non “contrattabile” o negoziabile, almeno in teoria, tutto ciò che non attiene alla salvaguardia della vita umana, come la venuta o meno al mondo di un figlio, non può configurarsi logicamente come un “diritto” fondamentale, ma come un desiderio, un auspicio, un dono, appunto. Vogliamo chiamarlo un diritto-dono?

In questo caso un’etica della vita umana sana segue la logica.

Inoltre, non è accettabile che la dizioni madre e padre siano considerate “di destra”, perché sono semplicemente dizioni “di natura”.

Burocraticamente, la soluzione è semplice: basta prevedere che sui moduli vi siano le dizioni madre, padre e genitore (1 e/o 2, che possono essere coppie omosessuali, e anche nonni e zii adottanti), e uno barra quello che è (o che si sente, come amano dire i fautori della cultura Lgbt etc., verbalità che non condivido, sia concettualmente, sia per le sue estremizzazioni legislative presenti in molti paesi). Mi dà fastidio anche che su questi temi troviamo fanatismi collocati sulle estreme: da una parte, ad esempio, la legislazione australiana e neozelandese che riconosce circa una ventina di gender, e, dall’altra parte la coppia Putin-Kirill!

Circa l’amore per i figli, quanti bambini abbandonati, poveri, indifesi che si trovano in giro per il mondo chiedono di essere adottati? E qui si può tornare al discorso dell’adozione da parte di coppie omosessuali: per ragioni pedagogiche e socio-culturali non mi piacciono, ma questa mia opinione è anche per me superabile, se si riesce a rendere equilibrata l’educazione di un bimbo/ a adottato in una famiglia di diversa naturalità, se così si può dire senza offendere nessuno.

Infatti, vero è che moltissimi sono cresciuti, e bene, con un solo genitori, con i nonni o con gli zii. Ciò mostra che differenza la fa sempre la qualità della socializzazione e dell’affettività presenti in famiglia, di qualsiasi tipo sia.

Decliniamo allora il concetto di “diritto”, nel caso dei figli, proprio come “dono”, che richiede soprattutto disponibilità di apertura all’altro e di abbandono di ogni forma di egoismo.

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