Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Per scrivere questo pezzo traggo ispirazione da “Mellog”, programma di Radio 24, egregiamente moderato da Gianluca Nicoletti (“Mellog” è – si può dire – l’alter ego qualitativo, a mio avviso – di quella schifezza morale de “La zanzara”, quest’ultima trasmissione evidentemente pensata e programmata per l’80% della “gaussiana” d’Italia, che io sostengo essere quella adatta agli “intellettivamente indifesi”, condotta e “moderata” (per dire) da due signori che fanno penosamente finta di litigare (ma questi due professionisti pensano veramente che, e sia pure quello-che-è il tipo di pubblico che li ascolta e che telefona facendosi spesso sbeffeggiare e insultare dai due conduttori, almeno qualcuno di tra quel pubblico non si accorga della loro quotidiana pantomima?), Parenzo per la sinistra e Cruciani per la destra, la trasmissione per la “pancia dell’Italia”, come spiega Cruciani, nel silenzio assoluto dell’editore Confindustriale, al cui attuale Presidente ebbi perfino a scrivere una “Riservata-Personale”), che ogni dì (parlo di “Mellog”) propone un civile dibattito su temi di societas fatti di ethos, di politica, di cultura e di economia. Un tema tra altri, attualissimo, sulla microcriminalità metropolitana; la domanda: come ci si deve comportare con le scippatrici seriali delle stazioni, organizzate in bande di minorenni? Le tre ipotesi proposte da Nicoletti alla discussione e alla scelta dei radioascoltatori: a) reagire ai tentativi di furto con destrezza, anche rudemente (come peraltro è già capitato), che è risultata “la più votata”, b) denunziare i fatti alle autorità di polizia, già sapendo che nulla accade alle protagoniste organizzate per piccole bande, dopo una prima identificazione, c) suggerire al legislatore nazionale e al governo cittadino di mettere a punto degli apparati telematici atti ad impedire che le furfantelle entrino nelle stazioni di treni e metrò per dar vita alle loro “imprese”…

Un bel trilemma.

Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.

Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.

Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.

Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.

“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».

Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».

Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».

Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”

Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?

Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.

Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?

Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.

E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.

L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).

La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

“Feedback” e “Feedforward”, come meccanismi complementari nella complessità gestionale dei gruppi, e il processo di delega

Il feedback, cioè la retroazione, o la risposta a una sollecitazione verbale/ fattuale, è un elemento centrale delle nuove scienze organizzative e gestionali, anche se come tale è conosciuto fin dai tempi antichi, ad esempio, nelle scienze e nelle prassi politico-militari greco-romane, ma anche egizie, hittite, assiro-babilonesi, persiane, etc..

Sinossi con feedback e feedforward

Chissà perché nessuno, o quasi nessuno (fanno eccezione i fisici teorici, cioè quelli interessati ai quanta/ qualia e alla relatività generale), fa il benché minimo cenno al feedforward, che è altrettanto importante del feedback.

I gestori/ organizzatori/ capi/ responsabili/ formatori – o, che dire si voglia – facilitatori, in ambito di risorse umane, non stanno ancora apprezzando questa metodologia che si pone di fronte al feedback come contraltare e come complemento razionale. Con qualche significativa eccezione. Vediamo: infatti…

Il feedforwarding, termine coniato da Marshall Goldsmith e Jon Katzenbach (autore di “The Wisdom of Teams“, Harvard Business School Press, 1993), è una particolare tecnica di comunicazione orientata sulle azioni future da realizzare per obiettivi pre-stabiliti.

Si può utilizzare nei percorsi di coaching come itinerario complementare al feedback, che resta uno strumento essenziale per lo sviluppo del personale e dei gruppi di lavoro.

Un esempio di feedwarding si può trovare nelle modalità proposte da Marshall Goldsmith, Executive Coach, NYT Bestselling Author e Dartmouth Tuck Professor in Management Practice.

L’idea centrale di questo metodo di coaching si incentra su una pre-visione razionale del processo di sviluppo professionale e manageriale di un lavoratore su cui l’azienda punta per la propria crescita. Il destino dell’azienda e quello del lavoratore, allora, si incontrano positivamente nel percorso di feedwarding, nel quale il budget generale richiama tra le sue componenti essenziali il / piano/ i di carriera/ e del proprio dipendente o di più dipendenti.

Accanto a ciò si colloca anche la gestione degli “errori di crescita”, che sono ineliminabili e perfino indispensabili per un’evoluzione positiva della struttura e delle persone coinvolte. Gli errori “in buona fede” non devono essere sanzionati, ma corretti con la disposizione al dialogo costante.

Un elemento costitutivo e caratterizzante di questo metodo è la delega, che si configura come tutt’altro rispetto a un “incarico”, perché è costituita da un processo scientifico ben preciso. Prima di presentarne i termini, conviene riprendere l’idea dell’autore sopra citato, Goldsmith, che propone, in via previa, quattro principi:

  • Focus sul futuro, cioè non rivangare il passato,
  • Essere sinceri tra e con il collaboratore,
  • Essere collaborativi e non negativi o critici,
  • Selezionare un comportamento da migliorare anche quando si fornisce un feedforward, in modo da incentrare la tecnica sul miglioramento piuttosto che sul giudizio.

A questo punto, si può aprire il discorso sulla delega, che presuppone un utilizzo concertato di feedback e di feedforward.

La delega è forse il principale strumento che – tramite i due sistemi citati – può aiutare nella crescita, sia il singolo lavoratore, sia l’azienda o l’organizzazione cui appartiene. Si è detto che la delega non è un mero incarico di lavoro, ma un processo razionale, logico, scientifico.

Per attuarla in modo efficace occorre che:

  • sia chiaro l’obiettivo,
  • si scelga un delegato di cui il delegante ha un’idea circa il potenziale di crescita,
  • sia spiegato bene al delegato,
  • siano predisposti i mezzi per la sua attuazione,
  • siano definiti e concordati i tempi di realizzazione del lavoro delegato,
  • si mantenga, da parte del delegante, un monitoraggio costante degli stati di avanzamento, senza opprimere psicologicamente il delegato,
  • si mantenga, in capo al delegante, la responsabilità del risultato in ordine agli obiettivi dati.

Un altro aspetto indispensabile per far funzionare la delega nell’ambito di un processo di feedback/ feedforward è l’assunzione di consapevolezza che occorre evitare o sconfiggere ogni sentimento di gelosia professionale tra delegante e delegato, come conditio sine qua non, per una crescita condivisa.

Il sentimento (o vizio) della gelosia, e di quella professionale in particolare, è molto diffuso, specialmente in alcune declinazioni antropologiche, e va considerato senza alcuna sottovalutazione.

E’ chiaro (e quasi ovvio) che ogni modificazione profonda nell’animo umano, nei sentimenti e nei comportamenti concreti e quotidiani, può avvenire solo se si riesce a far crescere nell’animo stesso la consapevolezza della necessità della modifica. Ogni riforma, anche del modo di lavorare, nasce “da dentro”, poiché se è solo imposta “da fuori” non dura, non essendo stata introiettata anche emotivamente.

Come in ogni ambito dell’agire umano la mera razionalità non basta mai, essendo l’uomo una entità complessa, fisica, psichica e spirituale (su cui si considerino gli studi più recenti sulla complessità, sulla fisica delle particelle e delle onde, recuperando anche le nozioni principali della metafisica classica che, non per me stranamente, possono dialogare), nella quale le ragioni del cuore devono essere considerate altrettanto delle ragioni della… ragione (Blaise Pascal).

Domenica 26 Febbraio 2023 sceglierò BONACCINI, per impedire un’altra deriva “a sinistra”. Caro Stefano, occorre una nuova “antropologia” per un rilancio della partecipazione nella politica!

Scegliere questo candidato a mio avviso significa dare al PD ancora qualche speranza di muovere qualcosa a sinistra di ragionevole, di razionale e di socialista democratico, magari anche (perché no?) di qualcosa che sia memore della parte migliore del Partito d’Azione.

Filippo Turati

Il mio amico Claudio, insegnante di filosofia e di storia, conoscitore finissimo delle vicende del mondo slavo e caucasico, dell’ex Unione Sovietica e della Rus storica, e mio antico compagno di liceo, la vede in questo modo, offrendomi una sintesi di ragioni a me completamente consentanee:

La Schlein, se dovesse vincere, trasformerebbe il PD in un’arca di nostalgici ideologici e di minoranze Lgbtq+: non approderebbe da nessuna parte. Il diluvio continuerebbe, potendo eventualmente incontrare altri relitti 5 Stelle , e imbarcarli per aumentare la confusione.

Oggigiorno gli aiuti all’Ucraina sono necessari e la Schlein mi sembra molto ambigua. Alcuni anni fa ho letto il libro di Huntigton sullo scontro di civiltà. Allora molti lo hanno deriso e criticato. La guerra in corso mi sembra invece rientrare nella categoria dello scontro di civiltà: o la democrazia o le dittature più o meno mascherate. In Italia molti non lo hanno capito e piagnucolano perché sono stanchi della guerra (standosene ben pasciuti e al caldo), e pensano che Zelensky sia colpevole di tutti i guai che ci affliggono. Costoro vanno alle marce della pace, ma non hanno visione politica, anzi, aggiungo, hanno un atteggiamento immorale, nonostante i buoni propositi.”

Con il massimo rispetto per chi partecipa alle marce per la pace, condivido sostanzialmente la posizione di Claudio, che ha una lunga esperienza di insegnamento e anche di militanza politica in aree “insospettabili” per chi volesse insinuare che è un filo-bellicista.

Ai nostri tempi giovanili lui molto più “a sinistra” di me, ci siamo trovati, da uomini maturi, sul versante socialista democratico cui io appartengo fin dall’uso di ragione, come figlio della classe operaia, che, come sanno bene coloro che conoscono la Storia, è sempre stata gradualista e moderata.

…e riflessiva, perché naturaliter consapevole che le cose cambiano solo a partire dall’autoconsapevolezza dei limiti antropologici dell’essere umano, e da una paziente ricerca di sempre nuovi equilibri di democrazia e di giustizia nella libertà.

Sento dire in tv che Bonaccini sta chiedendo a Schlein di essere sostenuto nel caso lei non vinca, ottenendone, pare, prima una risposta positiva, risposta però, in seguito, recisamente smentita. Infatti, mi chiedo prima di tutto per quale ragione una candidata che spera di vincere, dovrebbe dare ex ante la disponibilità a collaborare con il suo “fiero vincitor” avallando in questo modo, implicitamente, la propria sconfitta e, in secundis, come si possa attuare una convivenza politico-gestionale positiva per un partito finalmente riformista (come avrebbero voluto in tempi e modi diversi Bettino C. e Walter V.), se i due progetti paiono essere così differenti.

Del resto, sono dell’idea che ogni organizzazione umana, partiti compresi, per quanto possano oggi – sociologicamente – essere chiamati “organizzazione”, necessiti di una leadership chiara e condivisa, non perché io sia un laudator dell’idealtipo “uomo solo al comando”, ma perché il leader, con la sua tipica personalità, deve incarnare con chiarezza e senza ambiguità una linea politica visibile per tutti. Così funziona tra gli uomini di questo mondo, non solo in base alla letteratura filosofica e psicologica fin dai tempi di Aristotele e fino a Freud e a Max Weber e oltre, ma anche nelle prassi che conosco direttamente, come nelle imprese economiche e nelle strutture della cultura, per tacere del sistema militare e di quello ecclesiastico.

In ogni caso, chiunque dei due vinca, a mio parere, dovrà iniziare da una revisione radicale dell’antropologia vetero-marxista che ancora permea quelle zone politiche, pena una nuova impasse, che sarebbe forse definitiva. Per fare ciò, per la verità, non vedo (purtroppo) preparato/ a né l’uno né l’altra. Chiarisco subito che un cambiamento di indirizzo antropologico presuppone immediatamente una revisione dell’ideologia politica storica sottostante e corrente.

Che cosa intendo per “revisione antropologica”? In questa sede ne ho parlato spesso e ora la riprendo, poiché mai come su questi temi e di questi tempi repetita juvant.

Con questo sintagma filosofico intendo che bisogna rinunziare solennemente all’utopia dell’homo novus, così come si legge ancora qua e là in articoli e pamphlettini nostalgici, in questo caso soprattutto dalle parti di Schlein o di ex militanti delusi dall’andazzo impoverito di idee e di entusiasmi di questi tempi post-rivoluzionari.

La “sinistra nuova” dovrebbe (necessariamente), studiare (studiare molto, perché ogni tanto mi capita di leggere che lo studio approfondito, scientifico, anche accademico, di un argomento, non serve o non servirebbe a molto), approfondire, prendere in mano e far propria un’antropologia che si fondi su una sorta di Realismo aristotelico-tomista declinato con il personalismo Novecentesco di un Mounier e di un Marc Bloch (socialista cristiano), che utilizza, assieme alla visione classica, intuizioni ed afflati che appartengono, solo apparentemente in modo strano e sorprendente, anche alla ricerca della fisica teorica più recente, che sta superando ogni riduzionismo deterministico nei suoi ultimissimi studi sulla coscienza-come-atto-in-divenire, non come stato-in-luogo determinato e immutabile (Giacometti 2022). L’uomo, nella sua struttura, non è emendabile per una via meramente socio-politica. Rassegnamoci (rassegnatevi Bonaccini e Schlein). L’uomo può solo essere trattato per come è, ed è in due modi.

E anche questi due modi ho spiegato più volte in questa sede, così: a) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di un corpo, di una mente e di una sensibilità spirituale, che tutti gli umani accomuna in dignitas e, b) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di genetica, ambiente e educazione, tali da rendere ognuno un unicum, irripetibile, irriducibilmente. Le due strutture, cari Candidati, convivono! e vanno considerate assieme, non in contrasto, per cui l’emendazione, la resipiscenza, il pentimento, il cambiamento interpellano singolarmente la struttura b) su cui bisogna lavorare ad personam, con il dia-logo e lo studio dei principi etici, mediante il modello filosofico maieutico di Platone e dei maggiori saggi d’ogni tempo e luogo, che vanno studiati in modo approfondito e non solo orecchiato negli attivi di partito o di circolo, come si usa dire oggi.

Ancora una volta, dobbiamo ammettere che l’unica “rivoluzione” possibile è quella del cuore, che, se avviene, può mettere in moto anche il cambiamento sociale. Il primo nemico della sinistra, e di tutto il genere umano, non è primariamente la classe-che-sta-di-fronte-come-avversario-o-addirittura-nemico, non è la “Democrazia cristiana” odierna, né il “Sistema delle multinazionali” guidato dagli Usa, ma sono l’egoismo, l’invidia, la superbia, la vanagloria, l’egocentrismo, il narcisismo, cioè i vizi morali che possono caratterizzare qualsiasi anima umana, e non solo come nevrosi bio-psicologiche da Manuale Medico diagnostico psichiatrico. Vizi morali presenti ovunque, in ogni territorio, in ogni tempo luogo, nazione, ambiente, famiglia, gruppo organizzato e partito. Ovunque.

Un altro nemico che il nuovo gruppo dirigente deve sconfiggere, rendendosi prma di tutto conto della sua pericolosità, è la chiacchiera vana e le discussioni poco o punto documentate su temi decisivi come l’Etica, che il più delle volte si sente citare a sproposito. L’etica non è una serie di prescrizioni morali legate al qui e ora, ma è la scienza del discernimento nel giudizio valutativo sull’agire umano, condividendo la nozione di ciò che sia bene e di ciò che sia male, che non è mai banale (cara Hannah Arendt!).

Infine, se quanto vengo dicendo è plausibile e condivisibile, solamente da una nuova Antropologia filosofico-morale può discendere una proposta politica di sinistra, capace di coniugare armonicamente libertà e giustizia sociale, proposta che riesca a parlare a vecchi e giovani, a militanti storici e di mezza età, a possibili simpatizzanti e – soprattutto – a chi non va più a votare e non partecipa alla politica, perché vinto da un formidabile scetticismo esistenziale e morale.

Un ultimo consiglio non richiesto a chi diventerà Segretario: rinnovi tutto il gruppo dirigente, senza astio, ringraziando con simpatia, e nel contempo invitando chi ha vissuto una stagione dirigenziale ad essere disponibile a viverne un’altra senza incarichi particolari, e soprattutto senza potere.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

Emmanuel Macron-micron (un tempo al suo posto ci sono stati il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou, François Mitterrand), Olaf Scholz (un tempo al suo posto ci sono stati Konrad Adenauer, Willy Brandt, Helmuth Schmidt, Helmuth Köhl), Giorgia Meloni (un tempo al suo posto ci sono stati Alcide De Gasperi, Aldo Moro, Bettino Craxi, Mario Draghi) etc., di un’Europa piccolina

Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makromikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbo greco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.

Willy Brandt

Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.

Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.

Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.

In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.

Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.

Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).

Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.

Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.

Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.

E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.

6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.

Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.

Carisma e leadership. Lo sviluppo del “potenziale” di una persona dalla “latenza” all’evidenza e all’efficienza/ efficacia dell’agire

Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”;
dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.

(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)

Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.

“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)

Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,

Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.

Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.

Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instant book, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.

Vilfredo Pareto

Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).

Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.

C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.

La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.

L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.

Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.

Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…

I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.

Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.

Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”

Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.

E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.

Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).

Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)

Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.

Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.

Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.

La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.

Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.

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