Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makro–mikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbogreco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.
Willy Brandt
Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.
Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.
Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.
In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.
Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.
Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).
Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.
Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.
Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.
E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.
6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.
Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.
Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.
Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.
I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?
Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.
amenità in tv
Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.
Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.
Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.
Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.
E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.
Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.
Cesare Battisti (1875-1916)
Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.
Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.
Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.
Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.
Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).
Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.
Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).
Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza + ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).
Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?
François-Marie Arouet – Voltaire
Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).
Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismorivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.
Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.
Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.
Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.
L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.
Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.
A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.
Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).
La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.
Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.
La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.
E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.
Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.
Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.
Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.
Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.
Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.
In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.
A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.
Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.
Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…
Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.
Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!
Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.
E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.
L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.
Mi chiedo, gentile lettore, la ragione (se vi è una ragione) per cui in questi giorni i cronisti radiotelevisivi, quando raccontano degli attentati anarchici alle auto delle Ambasciate e ai Consolati italiani di Berlino e Barcellona, citando il prodromo dell’attentato all’auto della Consigliera d’ambasciata italiana ad Atene dottoressa Susanna Schlein, debbano sempre aggiungere “la sorella di Elly Schlein“.
il prof. Emanuele Severino
Provo a immaginarne il (o i) perché: a) la signora Elly è già famosa, mentre sua sorella no, e quindi per focalizzare la seconda si cita la prima. Obiezione: per quale ragione c’è bisogno di citare la prima se il fatto riguarda la seconda? b) forse che, se si cita la politica, il fatto che riguarda la funzionaria assume una valenza più grave? Obiezione: mi sembrerebbe, sia strano, sia inopportuno, perché ogni fatto ha una sua consistenza oggettiva sotto il profilo giuridico-penale. c) forse che, in vista, di una sempre maggiore esposizione mediatica della politica Elly, ove fosse eletta Segretario (a?) del PD (Dio non lo voglia!), il fatto di averla abbondantemente citata nel periodo precedente al Congresso fa “prendere punti” verso una figura potenzialmente importante, a futura memoria per la carriera del cronista? Obiezione: che squallido arrivismo, e oltremodo miope, da parte degli addetti ai media. d) forse che qualche suggeritore un pochino occulto consiglia a una parte degli addetti alla comunicazione di citare citare citare (repetita juvant, come insegnavano i saggi latini)la Schlein politica, per qualche ragione non del tutto trasparente? Auto-obiezione: dietrologie mie… forse.
Certo è che mi infastidisce parecchio sentire la cantilena “(omissis) come successo ad Atene alla sorella di bla bla...” Come se la sorella, peraltro la maggiore tra le due, vivesse di luce riflessa, una luce, peraltro, tutta ancora da mostrare, se c’è.
La buona metafisica insegna, da Aristotele ad Emanuele Severino, che vi sono due modi di apparire-all’essere: vi è a) un apparire dell’apparire senza essere, e vi è b) un apparire dell’essere. Non è vero che il contrasto logico-metafisico è tra “apparire” ed “essere”, ma tra i due modi prima esposti.
Per ogni ente-che-è (il soggetto) vi deve essere-un-apparire. Ma bisogna che vi sia l’ente, peraltro provvisto di un’essenza, in questo caso “politica”. Che nel caso, a mio avviso, è ancora tutta da mostrare, oltre le banali amenità che ho finora sentito dire dalla candidata alla Segreteria del PD. Con buona pace della su citata politica, poiché – secondo Severino – nella realtà gli enti sub forma essentium (cioè, gli enti sotto forma di essenti) che una volta appaiono alla realtà sono… eterni, e quindi vi è nientemeno che l’eternità davanti alla aspirante segretaria.
Per il grande filosofo, docente storico a Ca’ Foscari, il participio presente del verbo essere – ente/ essente – rappresenta la forma dell’eternità di ciò che anche solo una volta si manifesta (phàinetai) alla realtà.
Tornando ai media, potrei citare innumerevoli casi nei quali si evidenzia una piaggeria insopportabile nei confronti dei potenti di turno, che tornano immediatamente nell’oblio non appena il loro potere cala o svanisce, oppure qualcosa d’altro, che non capisco bene che cosa sia. Ho memoria dell’appartenenza di persone come il giornalista intrattenitore tv Maurizio Costanzo (poi pentitosi) alla P2, e di altre persone della comunicazione stampata o radiotelevisiva.
Io stesso ho sperimentato la piaggeria di molti quando mi sono trovato in evidenti posizioni di potere, come la responsabilità di un soggetto socio-politico o un’elevata posizione aziendale. Il meccanismo è sempre stato questo: a) non sei nessuno, perché non appari in tv, e nessuno ti bada; b) cominci a essere-qualcuno perché la tua figura comincia ad apparire (ecco il solito apparire!) in tv, e parecchi cominciano a salutarti con sempre maggiore deferenza, man mano che la tua presenza mediatica cresce; c) sei sempre più presente sui media, e allora in molti ti cercano per un favore o anche solo per farsi vedere con te in qualche locale centrale della città a bere un bicchiere di vino; d) le tue presenze mediatiche calano fino a scomparire e quelli che ti cercavano e ti salutavano per primi, fanno a volte finta di non averti visto per strada, perché non sei più utile.
Eppure tu sei sempre lo stesso. A me è capitato almeno tre volte di salire e scendere la “scala” della notorietà (e di un potere dato) in ambienti differenti (politica, economia, cultura) osservando i fenomeni sopra descritti. Ora sono stabile in una buona posizione.
Provo una gran pena per chi ti giudica dal tuo apparire, senza curarsi che il tuo apparire sia un apparire dell’essere quello che sei.
Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.
Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)
I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.
l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.
La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta.
Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?
Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.
Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.
Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?
Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.
Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.
Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.
Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).
Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.
Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.
I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?
Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.
Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.
Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.
Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!
Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.
MMD è sotto chiave. E adesso? Chi gli ha consentito di stare trent’anni in latitanza, visto che, se si vuole vivere un po’, si deve essere visibili, in qualche modo, almeno per qualcuno, a meno che non si trascorra il tempo in una grotta in mezzo ai boschi o in un luogo remotissimo di caccia pesca e raccolta, come i primi sapiens?
Non mi è piaciuta Meloni che è schizzata a Palermo come una furia per congratularsi con il comandante dell’Arma. Avrebbe potuto farlo il giorno dopo con il Presidente Mattarella alla riunione del Supremo Consiglio per la sicurezza. Mal consigliata o ansia da prestazione da insicurezza? Lei ripete sempre che ha paura di deludere chi si è fidato di lei. Cara Presidente, nessuno le garantirà mai di non deludere qualcuno: operando si sbaglia, è una regola aurea, conosciuta, forse, anche dai citati sapiens primitivi.
Le domande dei giornalisti, cronisti e da studio, come al solito, in generale, fanno pena. Il colonnello comandante dei ROS, alla domanda inopportuna (e stupida) su quanti militari fossero impegnati nell’operazione, ha risposto con garbo e precisione, evitando con eleganza di dare numeri. Ma come si fa, benedetto Iddio, a fare una domanda del genere? Ecché, forse vi può essere una risposta? Me lo chiedo e mi confermo nell’idea e nel giudizio circa la povertà culturale e professionale di questa categoria, aumentata negli ultimi decenni. Altra domanda inopportuna quella fatta all’oncologo che ha in cura quell’uomo nel carcere de L’Aquila: “Si dice (chi lo dice? ndr) che è curato in un modo privilegiato rispetto ad altri detenuti con patologie…”. Risposta: “No, si applica il protocollo per questo tipo di malattie“.
Come si fa a dire, a scrivere, o anche solo a pensare, che la mafia Cosa Nostra sia finita con questo arresto? sarebbe quasi come dire che finisce il genere umano. La mafia, così come la n’drangheta, la camorra e ogni altra organizzazione criminale è una delle manifestazioni del male nell’uomo. perché il Male è nell’Uomo. Insito, incistato, connaturale. Materialisti come Peter Berger, e altri, potrebbero dire che il male fa parte della struttura biologica elettrochimica del cervello umano, sulle orme estreme di Spinoza. Se ciò fosse del tutto vero verrebbe annullata la plausibilità del Diritto penale fin dai tempi del Codice di Hammurabi e del Decalogo biblico di Esodo e Deuteronomio.
E dunque è impossibile sconfiggerla? Finirla? Certamente, con le sole forze di polizia e della magistratura, sì. Ne sono convinto. Non basta scoprire e reprimere i reati e i loro autori, perché i reati sono peccati morali che nascono nel cuore dell’uomo. Nella mente, nell’intelletto agente, direbbe Tommaso d’Aquino. Il diritto classico prevede, in un brocardo o latinismo giuridico il principio di innocenza (o di colpevolezza) oltre ogni ragionevole dubbio, con la dizione in dubio pro reo: nel dubbio, piuttosto di condannare un innocente, è preferibile non contenere in carcere un colpevole.
MMD, con ironia, pare abbia detto qualche ora dopo l’arresto: “Fino a stamattina ero un incensurato”, poiché, a differenza dei due stranominati (e stramaledetti) predecessori Riina e Provenzano, non era mai stato ristretto nelle patrie galere, pur avendo già subito l’irrogazione di numerose condanne all’ergastolo (ostativo per definizione e da art. 41 bis). L’uomo, che si è vantato di tanti omicidi a da riempire di morti un cimitero, un serial killer razionale e perfettamente in sé, è un uomo comune. Intelligente, forse (anzi senza “forse”) anche garbato, gentile con i suoi carcerieri, capace di stare al mondo, amante delle cose di valore, che si è potuto permettere con i suoi crimini. Questo pare essere MMD.
La mafia, come altre strutture criminali analoghe, vive dentro un dato contesto sociale e culturale. La mafia vive e prospera per scelte di persone concrete, di giri solidali, di famiglie di esseri umani. Si tratta di persone che ritengono di essere speciali dentro un ambiente dove alcuni possono permettersi di esserlo, a differenza della maggioranza degli altri esseri umani, che “non capiscono”, oppure “non meritano”, oppure… niente: l’importante è che non si oppongano, che ubbidiscano, che stiano da parte. Altrimenti… sono morti. Perché il mafioso si sente speciale, diverso, addirittura virtuoso di una sorta di virilità particolare.
Anche in questo caso funziona un meccanismo psicologico e spirituale siffatto: superbia, presunzione, vanagloria, prepotenza, protervia, crudeltà. Costoro non hanno alba di morale comune, o meglio hanno una morale fondata sulla convinzione che vi siano persone con i loro diritti e quasi non-persone, inferiori, che devono limitarsi a no-opporsi. Queste seconde possono essere eliminate senza grandi preoccupazioni, come ostacoli sulla strada dei veri uomini. Omuncoli, ominiccoli, omarelli. Personalmente conosco non poche persone che, se messe-in-situazione, si comporterebbero come i sodali dei mafiosi, come l’autista di MMD, nel senso che di fronte a una leadership carismatica sono per sempre proni. L’uomo è fatto anche così.
Per i mafiosi ciò che è vizio diventa virtù e ciò che è virtuoso è indegno della loro grandezza. Si ricordino gli occhi protervi di Riina durante il processo: le parole negavano ogni responsabilità, ma il suo sguardo uccideva. Il male è nell’uomo. Nell’uomo comune di quella cultura e, purtroppo, anche di altre.
Non conoscono NIetzsche, ma se lo conoscessero ne volgarizzerebbero il concetto di volontà di potenza, e di Schopenhauer l’esigenza di esaltare la volontà erga omnes.
Oggi magistrati, media ed esperti parlano di borghesia mafiosa, opportunamente, sulla linea di una tradizione assai lunga, storica. La mafia e la camorra sono nate nei secoli passati, e sono cambiate nel tempo, ma il sostrato culturale e sociale è rimasto quasi sempre quello che era. E anche il sostrato valoriale (si fa per dire), pure nelle modificazioni sociologiche e territoriali registrate.
Su quest’ultimo aspetto certamente negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, in positivo, soprattutto tra i giovani, mentre nelle generazioni più attempate resta ancora un velo di omertosi silenzi. Basti osservare come rispondono i castelvetranesi più in età, dopo la cattura di MMD.
La scuola deve inserire momenti, modi e moduli formativi, prima ancora che a una cittadinanza sensibile ai valori etici umanistici à la don Ciotti, che non sono in grado di smuovere la pavida rassegnazione dei più (finora, almeno), di carattere filosofico, che diano gli strumenti intellettuali e conoscitivi agli allievi/e per approfondire il tema dell’uomo, della convivenza, della giustizia sociale, dell’equità nella distribuzione del lavoro e delle risorse, dell’equilibrio tra diritti e doveri (sono nauseato nell’ascoltare, dal Meridione, sempre i soliti lai quando accadono disgrazie, un “siamo stati lasciati soli” oramai per me inascoltabile, e datevi una mossa, perdio! come i Friulani dopo le alluvioni e i terremoti!).
Nel contesto temporale di questo arresto esplodono le polemiche sulle intercettazioni telefoniche, su cui la voce e le parole equilibrate del Ministro Nordio vengono travisate e mal riportate.
La lotta alla criminalità organizzata e alle mafie non si fa solo con le polizie e la magistratura, ma con la cultura che pazientemente va fatta crescere con l’impegno dello Stato e di insegnanti motivati e pagati il giusto.
Piccoli MMD non nasceranno e non cresceranno più solo se si opererà di concerto con la cultura, l’educazione civica, e certamente anche con la repressione e le sanzioni, unite a una corretta informazione sociale e mediatica.
Se chiedessi a qualche mio lettore se si ricorda dei bambini rimasti mutilati in scoppi di bombe rimaste inesplose, o se il nome di don Carlo Gnocchi gli dice qualcosa, penso che forse solo qualcuno di una certa età potrebbe averne un’idea.
Possiedo, per ragioni familiari, una documentazione concernente uno degli istituti nei quali molti bimbi mutilati dallo scoppio di bombe e granate esplose durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e anche una testimonianza diretta di chi operò in quell’istituto come operatrice assistenziale dei piccoli ospiti. Anni fa ho anche avuto modo di partecipare personalmente al ricordo annuale che si tiene nella sede storica di quell’istituto, a Buttrio, in Friuli, e li ho visti, quei bambini e bambine, diventati grandi, con i segni immodificabili della loro disgrazia, sui volti e negli arti.
Riporto di seguito un testo biografico commovente, come se fosse stato scritto (ed è stato scritto) dal “mutilatino” Ovidio Morgagni da Forlì:
“Sono Ovidio, ho tre anni e abito a Forlì con il mio babbo Giacomo e la mia giovanissima mamma Rosina, che ha compito da poco 22 anni. Sono un bimbo vispo e molto curioso. Qui a Forlì in questi giorni c’è il passaggio del fronte. Sulla riva del fiume Ronco i soldati tedeschi cercano di contrastare l’avanzata delle forze di liberazione che sono allineate dalla parte opposta. E’ da più di una settimana che dura il duello fra le opposte artiglierie; continue e ripetute sono le incursioni degli aerei sulla città. Il mio babbo ha deciso di trasferire la nostra famiglia in un posto più sicuro, nella frazione di S. Tomè, nel nostro podere di campagna dove ospitiamo altri 20 sfollati.
In mezzo a due case coloniche è stato ricavato un piccolo rifugio. Oggi 7 novembre 1944 è una bella giornata di sole. Sono le ore 13 inizia a suonare la sirena che avvisa dell’arrivo degli aerei, un suono cui ormai siamo abituati. Il babbo e la mamma mi chiamano a gran voce per portarci al riparo nel rifugio poco distante.
Improvvisamente all’orizzonte vediamo avanzare una formazione di 22 bombardieri che iniziano a sganciare bombe per snidare la batteria contraerea tedesca poco distante. La mamma mi prende in braccio, mi tiene la testa stretta al suo collo e con le mani cerca di proteggermi. Siamo a pochi metri dal rifugio, sento il cuore che batte forte ma non c’è più tempo. Il rumore assordante dei proiettili che lasciano una scia come code di cometa nel cielo, l’odore acre della polvere da sparo e poi torna un silenzio irreale. Intravvedo, in mezzo al fumo che si alza, il mio babbo con il volto rivolto verso terra vicino ad altri sei caduti. Io sono ancora abbracciato alla mia mamma che con il suo corpo mi ha protetto. Lei colpita alla schiena, esanime in mezzo alla polvere della strada non respira più. Una scheggia ha colto la mia mano che tenevo sulla sua schiena. Ho dolore e vedo uscire il sangue e piango. Gli aerei si sono allontanati. Accorrono persone e le sento esclamare il nostro nome.
Mi portano all’ospedale di Forlì, con la mano avvolta in un panno bianco. Arrivano altri feriti e poi altri ancora. Gli infermieri si affrettano a portarli al sicuro nei lunghi corridoi sotterranei dell’Ospedale dove sono anch’io, seduto su una sedia, in attesa che qualcuno si accorga della mia presenza. Arriva sera, ho dei brividi di freddo per la febbre che sale, una suora vestita di bianco mi avvolge in una coperta di lana color marrone e mi porta una tazza di latte caldo.
Ci sono feriti più gravi di me da curare, io ho solo una mano dilaniata da quella maledetta scheggia arrivata dal cielo.
Sono trascorsi due giorni finalmente arriva il mio turno. Il dottore che mi visita si accorge che la ferita è degenerata in cancrena. Mi portano in sala operatoria, non c’è tempo da perdere, occorre procedere all’amputazione del braccio per salvarmi almeno la vita.
Camillo, un vicino di casa, mi riconosce qui in ospedale e si incarica di avvisare i miei parenti che abitano nella campagna ravennate. Gli zii e i cugini partono immediatamente per prendersi cura di me, unico rimasto vivo della mia famiglia.
Sono le due del pomeriggio, la strada che da Ravenna porta a Forlì in questo momento è quasi deserta, il calesse corre veloce. Manca poco all’arrivo quando il cavallo calpesta una delle tante mine disseminate sulle strade dai tedeschi in ritirata. L’onda d’urto, l’assordante rumore della deflagrazione e i frammenti metallici investono i miei zii e cugini. Vengono tutti colpiti a morte, non si salva nessuno, neppure il cavallo con il calesse rovesciato nel fosso.
Ora sono rimasto proprio solo, abbandonato in una corsia di ospedale che, ironia della sorte, porta il mio stesso cognome: “Ospedale Morgagni”.
Mia zia con tre figli e il marito disoccupato non può occuparsi a lungo anche di me. Vengono interpellati diversi enti che si occupano di assistenza ai bimbi orfani e mutilati. Qualche anno dopo l’ONIG e l’ANVCG si prendono cura di me e mi trovano un posto dove posso crescere e studiare: il Collegio Friulano per i fanciulli mutilati di Buttrio di Udine. Qui sono il più piccolo e spesso una dipendente del collegio che si chiama Maria, quando mi vede piangere, viene a consolarmi. La domenica è un giorno di gran festa perché a pranzo c’è anche il dolce e al pomeriggio scendiamo dal colle di Buttrio per recarci al cinema parrocchiale giù in paese. Rimango nel collegio per 8 anni fino al 1956.
Ora, dopo tanti anni di lavoro negli Uffici della Provincia, sono qui nel mio appartamento, ho in mano l’album fotografico, lo sfoglio adagio, rivivo tutta la mia vita in quelle foto sbiadite dal tempo mentre la radio trasmette le notizie di guerra in Ucraina. Questa mattina i soldati russi hanno aperto il fuoco e crivellato di colpi un’auto civile con bandiere bianche e la scritta “bambini” uccidendo tutti i componenti di una famiglia in fuga dal loro villaggio.
In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.
Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.
Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…
semiotica e semiologia
…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;
…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?
…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;
…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;
…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;
…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).
Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.
Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.
Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.
La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie – Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.
Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.
Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.
Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a Signs, Language and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.
Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.
In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).
Sinceramente non mi aspettavo da questo abile giornalista una defaillance così grave e altrettanto ridicola.
Giovanni Verga
Apprendiamo che il Ministro, a una convenzione del suo partito, Fratelli d’Italia, ha affermato che Dante Alighieri è il “padre” della lingua italiana e anche della Patria. Fin qui nulla di che. Siamo più o meno d’accordo tutti, uomini e donne pensanti e variamente studiosi.
Subito dopo, però, citando un libro che gli è stato regalato, il cui titolo e autore non abbiamo sentito specificare, afferma che “tutti” gli scrittori (non si capisce se si riferisca solo agli italiani o anche a tutti gli scrittori del mondo) “sono (non dice “sarebbero”: eventualmente, con il modo condizionale, avrebbe potuto smorzare un’affermazione così perentoria) di destra“.
L’affermazione ministeriale, oltre ad essere temeraria, è facilmente e altrettanto radicalmente criticabile sotto tre profili almeno: quello storico-politico, quello filosofico-teologico e quello letterario.
IL PROFILO STORICO-POLITICO
Circa il profilo storico, definire Dante come “uomo di destra” è innanzitutto un anacronismo che può comprendere, forse, anche uno studente di terza media di trent’anni fa, e oggi (forse) un liceale. Infatti, la dizione destra/ sinistra si deve far risalire alla Rivoluzione Francese (1789 – anni seguenti e conseguenze più generali): nell’emiciclo della Convenzione repubblicana le varie posizioni politiche si erano collocate in modo chiaramente distinguibile tra chi era più moderato, magari ancora monarchico, e chi invece si riteneva chiaramente repubblicano, democratico e anche proto-socialista. I Vandeani a destra e poi, gradatamente spostandoci, trovavamo le varie fazioni Giacobine, da quelle più moderate di Danton, a quelle più estreme di Robespierre e di Saint-Just. All’estrema sinistra stavano i cosiddetti Montagnardi, paragonabili alla Nuova Sinistra italiana degli anni ’70 del ‘900. Una sorta di Spartachisti o di Zeloti della Rivoluzione.
Negli anni, nei decenni e nei due secoli successivi, la dizione destra/ sinistra prese piede praticamente in tutti i Parlamenti del mondo, da quello più antico, che è la Camera dei Comuni inglese, a quello tunisino della Rivoluzione dei ciclamini del 2011.
Venendo a Dante, se anche volessimo fare una comparazione gadameriana (cioè ispirati dal filosofo Hans Georg Gadamer, che significa metterci nei panni dei suoi contemporanei con la mentalità e le nozioni nostre attuali), non potremmo – onestamente – definirlo “di destra”. Dante Alighieri è stato un uomo politico fiorentino in pieno Medioevo, ai tempi delle aspre lotte fra Papato e Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche un buon cattolico, rispettoso della Chiesa, della Tradizione cattolica e del papato romano. Non dimentichiamo che svolse severi studi teologico-filosofici, sia presso i Padri Domenicani di Santa Maria Novella, sia presso i Padri Francescani di Santa Croce.
Epperò, in tutta la sua vita, fino ad essere condannato a morte in contumacia dagli avversari politici di Firenze, lottò, sia con la scrittura (si legga il De Monarchia), sia con l’attività politica, affinché il potere religioso-papale fosse distinto e distante dal potere politico. Pur essendo un “Guelfo” (vale a dire un cattolico militante), Dante sostenne con chiarezza che il Papa avrebbe dovuto occuparsi delle “cose spirituali”, non di quelle “terrene”. E pagò duramente, fino alla sua morte in esilio a Ravenna.
Continuiamo pure sulla dizione sangiulianesca: se volessimo oggi dare una patente politica al Poeta, dovremmo cercare piuttosto una comparazione verso il “centro politico cristiano/ laico”. Dante avrebbe potuto essere un democristiano moroteo, o un repubblicano lamalfiano, e perfino un socialdemocratico saragattiano, che è la stessa appartenenza che attribuirei a Tommaso d’Aquino.
IL PROFILO FILOSOFICO-TEOLOGICO
Sotto questo profilo, è assurdo dare del “destro” a Dante, poiché la sua visione etico politica era improntata in maniera fortissima all’Etica aristotelico-tommasiana, che sosteneva con chiarezza come i sovrani, o comunque i detentori del potere, non potessero fare-cio-che-volevano senza controlli di leggi o di assemblee, certamente non come quelle democratiche attuali, ma sempre in grado di contemperare i vari diritti e doveri, coniugando i poteri con le esigenze del popolo. Dante, come amministratore fiorentino, ebbe molto a cuore le esigenze del popolo, degli artigiani e delle varie categorie sociali, senza mai mettersi prono davanti al potere del tempo.
Anche sotto il profilo dell’etica della vita umana, Dante sosteneva l’esigenza di leggi rispettose della persona, a qualsiasi classe appartenesse, nel rispetto delle leggi e dei costumi del tempo, senza mostrarsi mai bigotto o estremista.
Come si fa, pertanto, a dire che Dante fu l’alfiere della “destra”, quando la destra, storicamente, in Italia e altrove, è non solo costituita da persone maturate come Meloni, ma anche da Hitler, da Mussolini, da Franco, da Salazar, e oggi da Putin e dai governanti di certe nazioni islamiche, che ai tempi del nazismo ad esso erano addirittura alleati?
IL PROFILO POETICO-LETTERARIO
Chiedo, digrazia, al signor Ministro: dove sta il destrismo di Dante? Nell’etica che traspare dal sistema di premi e punizioni presente nel gigantesco affresco della Commedia? E’ forse di destra giudicare “politicamente” le scelte dantesche sulla collocazione all’Inferno, nel Purgatorio e in Paradiso degli innumerevoli personaggi da lui citati e ivi collocati?
Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno, presente nel Canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. Dove sta la cultura di destra in un episodio che contiene, invece, oltre all’altissima poeticità del canto d’amore, la forza tremenda della tragedia umana che si consuma nell’ambito dei costumi del tempo… e infine, è di destra l’immensa pietas che il Poeta fa trasparire nel racconto? Cosa c’entrano la destra e la sinistra con gli umani sentimenti?
Pertanto, “dare del destro” a Dante è, non solo anacronistico, falso e inappropriato, ma perfin ridicolo. Stupido.
Un solo cenno sull’affermazione ministeriale che riguarda gli scrittori che, secondo Sangiuliano, sarebbero tutti di destra. Ferma restando l’analisi storico-politica, che spiega l’anacronismo generale di tale affermazione, potrei fare un elenco sconfinato di scrittori e letterati che di destra non sono, restando, ovviamente nell’ambito degli ultimi due secoli. Vogliamo provare? Sono forse di destra Alessandro Manzoni (che era un possidente cattolico democratico-liberale), Giacomo Leopardi (che era un nobile apertissimo alle novità scientifiche e politiche), Charles Baudelaire, Victor Hugo, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Honorè de Balzac, Charles Dickens, Emile Zola, Gustave Flaubert, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Boris Parternak, Osip Mandel’stam (che erano antistalinisti, ma non di destra), Leone Tolstoj, Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Gunther Grass, per tacere di centinaia di altri. E anche se volessimo individuare “scrittori (ritenuti) di destra”, potremmo citare Dostoevskij, che però non era di destra, ma era un cristiano russo dell’Ottocento, Giovanni Verga, che però scrisse degli “ultimi”, con efficacia ineguagliata, o Gabriele D’Annunzio, il cui “essere-di-destra” era di un tipo radicalmente diverso dal mussolinismo che lo sopportò, temendolo non poco. E magari anche Solgentsin, la cui “destra” non è mai stata fascista, ma teologico-nazionalista.
Mi auguro che Sangiuliano “si spieghi” e, se lo ritiene opportuno, “si corregga”, perché – da Ministro della Repubblica (e docente universitario) – ha fatto una figura pessima.
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SERVE QUANDO SI STA BENE E, ANCHE DI PIU', QUANDO SI STA MALE;
SERVE A TUTTE LE ETA';
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Se vuoi, se ne senti il bisogno puoi scrivermi (eagle@qnetmail.it) o telefonarmi (339.7450745), anche per fissare un incontro"
PhD - Prof. Dott. Renato PILUTTI, Filosofo pratico (ex L. 4/2013, Associazione nazionale per la Consulenza filosofica Phronesis) e Teologo
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