Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Per scrivere questo pezzo traggo ispirazione da “Mellog”, programma di Radio 24, egregiamente moderato da Gianluca Nicoletti (“Mellog” è – si può dire – l’alter ego qualitativo, a mio avviso – di quella schifezza morale de “La zanzara”, quest’ultima trasmissione evidentemente pensata e programmata per l’80% della “gaussiana” d’Italia, che io sostengo essere quella adatta agli “intellettivamente indifesi”, condotta e “moderata” (per dire) da due signori che fanno penosamente finta di litigare (ma questi due professionisti pensano veramente che, e sia pure quello-che-è il tipo di pubblico che li ascolta e che telefona facendosi spesso sbeffeggiare e insultare dai due conduttori, almeno qualcuno di tra quel pubblico non si accorga della loro quotidiana pantomima?), Parenzo per la sinistra e Cruciani per la destra, la trasmissione per la “pancia dell’Italia”, come spiega Cruciani, nel silenzio assoluto dell’editore Confindustriale, al cui attuale Presidente ebbi perfino a scrivere una “Riservata-Personale”), che ogni dì (parlo di “Mellog”) propone un civile dibattito su temi di societas fatti di ethos, di politica, di cultura e di economia. Un tema tra altri, attualissimo, sulla microcriminalità metropolitana; la domanda: come ci si deve comportare con le scippatrici seriali delle stazioni, organizzate in bande di minorenni? Le tre ipotesi proposte da Nicoletti alla discussione e alla scelta dei radioascoltatori: a) reagire ai tentativi di furto con destrezza, anche rudemente (come peraltro è già capitato), che è risultata “la più votata”, b) denunziare i fatti alle autorità di polizia, già sapendo che nulla accade alle protagoniste organizzate per piccole bande, dopo una prima identificazione, c) suggerire al legislatore nazionale e al governo cittadino di mettere a punto degli apparati telematici atti ad impedire che le furfantelle entrino nelle stazioni di treni e metrò per dar vita alle loro “imprese”…

Un bel trilemma.

Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.

Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.

Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.

Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.

“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».

Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».

Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».

Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”

Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?

Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.

Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?

Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.

E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.

L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).

La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

INAUDITE STUPIDAGGINI A BOLOGNA! …e bravo “compagno” sindaco! Il termine “patriota” tolto dalle vie di Bologna che, secondo Lei, sarebbe la città più progressista d’Italia. Sono allibito ma non meravigliato, perché la idiotissima “cancel culture” alligna proprio (con mio sommo dispiacere) anche nel partito oramai ulteriormente orientato alla ZTL (cioè votato prevalentemente da (o “a”, tanto è quasi la stessa cosa) chi abita nelle Zone a Traffico Limitato, che non è detto condividano l’operato del signor Sindaco, anzi ho notizie di prima mano proprio dalla ZTL di quella nobile Città a me carissima, ed ecco che proprio non è la stessa cosa il “da” o l'”a”!, che così non è; si preoccupi, Sindaco, si preoccupi…)

Per non sbagliarmi citerò – virgolettando – l’articoletto pubblicato oggi, 11 Marzo 2023, sul Currierun de Milan.

“(omissis) …prova a riscrivere la toponomastica: il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini “partigiano” o “partigiana” e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine “patriota”.

Bologna, via la parola “patriota” dalle strade dei personaggi della Resistenza: “Saranno definiti partigiani”

La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità (chissà perché? ndr), ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. E’ lo spirito (idiota, ndr) del tempo: sui social ci sono parlamentari di FdI che postano la foto di Meloni augurando una “buona giornata ai patrioti”, ma la risposta non sta nel cancellare la parola sotto ai nomi di chi ha combattuto il nazifascismo.

Per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Nievo…, ndr), e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: “Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi“. Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia, non serve pasticciare con la storia.”

Condivido e sottoscrivo ogni parola e ogni riga dell’articolo qui riportato, aggiungendo solo che, veramente, ogni giorno che viene pare avere la sua sorpresa inadeguata, quand’anche ridicola, e a volte, come in questo caso, storicamente e moralmente offensiva. Chissà se vi sarà qualche buona persona, e intelligente, della sinistra bolognese, che si voglia opporre a questa autentica imbecillità. Dico subito che c’è, io so che c’è!

Lo so, in buona compagnia, non solo del Professor Luca Alessandrini, ma anche del Professor Giovanni Orsina, e di chissà quanti altri saggi cittadini bolognesi di quella sinistra democratica e gradualista di cui Bologna va giustamente fiera, come chi mi ha scritto in tema.

Mi chiedo anche se il saggio compagno Bonaccini abbia condiviso la scelta. Ne dubito fortemente. Forse lo condivide chi lo ha “battuto” alle primarie del PD, ma non ne sono del tutto convinto, perché attribuisco alla neo Segretaria qualche discreta facoltà di riflessione, se non altro perché giovane e senza zavorre mentali di sorta.

Con questa decisione, non so se il Signor Sindaco se ne rende conto, la destra, e Fratelli d’Italia in particolare, si possono fregare le mani, perché a questo punto possono annettersi completamente il concetto, il lemma, il termine, la parola, in definitiva la semantica storica di “Patrioti” italiani, comprendendo anche quelli tipo Mazzini, Garibaldi e Nievo, tentativo già fatto da sor Benito, non a caso sozialista romagnolo, prima del suo fascistismo fascista.

Se il Signor Sindaco sapesse chi mi ha scritto condividendo – in toto – la mia opinione, forse si farebbe qualche domandina.

Le quattro anatre

Guccini cantava “cinque anatre volano a Sud…”, io invece, in una mattinata marzolina ero nella grande piazza della città. Una della più grandi d’Italia, la seconda del Nordest dopo il Prato della Valle di Padova, a Udine: Piazza I Maggio, sovrastata dal leggendario Castello, che è una collina (residuo della morena glaciale di migliaia di anni fa) da cui si tramanda che il re unno Attila ammirò l’incendio di Aquileia. Leggende. Tutt’intorno ampie strade e palazzi, luoghi di convivio e per manifestazioni e passeggio di signore, di uomini e cani.

cinque anatre stanno…

Sullo sfondo stanno il nobile Liceo ginnasio della mia gioventù, la Basilica dedicata alla Madonna delle Grazie, che fece un’antica grazia e poi tante altre, custodita dai Servi di Maria, tra i quali qualche anno fa meditava e insegnava il Padre David da Coderno di Sedegliano. Poeta, predicatore. Così mistico ma a volte scostante, e perfino un po’ antipatico. Furlano, a tre e sessanta, come c’a si dîs.

A un tratto lo starnazzare improvviso di un uccello mi fa girare lo sguardo. Un’anatra selvatica marroncina, una femmina, svolazza per sfuggire all’assalto di tre coloratissimi maschi che, si vede, la “desiderano”. Commento con un passante: “Sono germani reali, i tre maschi sono fatti come noi umani maschi“. Ci si sorride.

Lo starnazzamento continua perché i tre maschi inseguono decisi la femmina che li distanzia con piccoli svolazzi. Lo straordinario accade subito dopo… Prima uno degli “anatri” comincia a staccarsi da gruppo e si ferma, poi un secondo, si ferma. Nel frattempo la femmina, volata avanti per una quarantina di metri, sta ferma. Allora, il terzo maschio, camminando lentamente ma con decisione si avvicina alla femmina, che lo sta aspettando! Raggiuntala, si mettono a camminare l’uno al fianco dell’altra, come un signore e una signora, verso di me che intanto li avevo preceduti.

Alle mie spalle nel frattempo stavano arrivando dei bimbi; si vedeva che erano un paio di classi delle elementari con le rispettive maestre. Mi rivolgo alle due signore dicendo: “Buongiorno maestre, posso spiegare ai bambini che cosa ho appena visto“. Il loro sorriso mi dà la parola. I bimbi mi guardano, mi ascoltano attenti e nel contempo si accorgono dei due volatili che si stanno avvicinando.

Non finisco di spiegare che già i piccoli e le piccole hanno in mano i telefonini e con gridolini di meraviglia si mettono a fotografare i due animali, che paiono mettersi in posa.

Il gruppo si ferma, commenti, parole, qualche starnazzo, ma quasi “gentile”, da parte dei due uccelli che sembrano molto interessati all’incontro. I bimbi osservano con interesse il dimorfismo sessuale tra i due animai e chiedono alle maestre: “Perché il maschio è più bello della femmina?” Infatti il “germano” è multicolore e di un verde cangiante sul collo, mentre la “germana” è (solo) di un marroncino diffuso. Le maestre esitano a rispondere, poi lo fanno con qualche imbarazzo: “Perché i maschi devono interessare le femmine, farsi scegliere, e allora madre natura li ha resi più appariscenti…, così possono avere più possibilità di trovare una compagna e di far nascere i paperini…” Silenzio. Chissà cosa passava per ognuna di quelle testoline. Forse un paragone con gli esseri umani, forse.

Quando ero bambino come loro, sette/ ottenne, non sapevo bene come nascessero i paperini, e neppure come venissero al mondo i bambini.

Me ne vado pensando che io sono nato e vissuto tra gli animali da cortile, non nel pollaio, ma contiguo al pollaio, e per me vedere galline, anatre, oche, tacchini e conigli, e anche il maiale, era il quotidiano, e per quei bambini no.

Un mondo cambiato, in qualche modo non in meglio.

Dalla Liquentia (la Livenza) al Soça (l’Isonzo), passando per il Cellina-Meduna, il Noncello, il Sile e il Fiume, il Tagliamento e lo Stella, il Torre e il Natisone, i verdi fiumi del Friuli, fanno da “basso continuo” agli idiomi del Friuli che, dall’Italiano nazionale, accolgono nel novero anche parlate Slave e Germaniche, mentre il Friulano, da una base neo-latina si avvale di prestiti preziosi che vengono dal Nord germanico e dall’Est slavo, in un dia-logo straordinario fra diversi

Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.

Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.

il fiume Stella

Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.

L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.

Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.

A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.

Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.

Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.

Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.

I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…

Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.

“La Ragione e il Sapere parlano, il Torto e l’Ignoranza urlano”

Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.

È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.

La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?

Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.

C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.

Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.

Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.

Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?

Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).

Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.

Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.

Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.

A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.

Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.

Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.

Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

Incomprensibili piaggerie o forme di sostegno para-simil-“massonico”? O altro che non capisco?

Mi chiedo, gentile lettore, la ragione (se vi è una ragione) per cui in questi giorni i cronisti radiotelevisivi, quando raccontano degli attentati anarchici alle auto delle Ambasciate e ai Consolati italiani di Berlino e Barcellona, citando il prodromo dell’attentato all’auto della Consigliera d’ambasciata italiana ad Atene dottoressa Susanna Schlein, debbano sempre aggiungere “la sorella di Elly Schlein“.

il prof. Emanuele Severino

Provo a immaginarne il (o i) perché: a) la signora Elly è già famosa, mentre sua sorella no, e quindi per focalizzare la seconda si cita la prima. Obiezione: per quale ragione c’è bisogno di citare la prima se il fatto riguarda la seconda? b) forse che, se si cita la politica, il fatto che riguarda la funzionaria assume una valenza più grave? Obiezione: mi sembrerebbe, sia strano, sia inopportuno, perché ogni fatto ha una sua consistenza oggettiva sotto il profilo giuridico-penale. c) forse che, in vista, di una sempre maggiore esposizione mediatica della politica Elly, ove fosse eletta Segretario (a?) del PD (Dio non lo voglia!), il fatto di averla abbondantemente citata nel periodo precedente al Congresso fa “prendere punti” verso una figura potenzialmente importante, a futura memoria per la carriera del cronista? Obiezione: che squallido arrivismo, e oltremodo miope, da parte degli addetti ai media. d) forse che qualche suggeritore un pochino occulto consiglia a una parte degli addetti alla comunicazione di citare citare citare (repetita juvant, come insegnavano i saggi latini) la Schlein politica, per qualche ragione non del tutto trasparente? Auto-obiezione: dietrologie mie… forse.

Certo è che mi infastidisce parecchio sentire la cantilena “(omissis) come successo ad Atene alla sorella di bla bla...” Come se la sorella, peraltro la maggiore tra le due, vivesse di luce riflessa, una luce, peraltro, tutta ancora da mostrare, se c’è.

La buona metafisica insegna, da Aristotele ad Emanuele Severino, che vi sono due modi di apparire-all’essere: vi è a) un apparire dell’apparire senza essere, e vi è b) un apparire dell’essere. Non è vero che il contrasto logico-metafisico è tra “apparire” ed “essere”, ma tra i due modi prima esposti.

Per ogni ente-che-è (il soggetto) vi deve essere-un-apparire. Ma bisogna che vi sia l’ente, peraltro provvisto di un’essenza, in questo caso “politica”. Che nel caso, a mio avviso, è ancora tutta da mostrare, oltre le banali amenità che ho finora sentito dire dalla candidata alla Segreteria del PD. Con buona pace della su citata politica, poiché – secondo Severino – nella realtà gli enti sub forma essentium (cioè, gli enti sotto forma di essenti) che una volta appaiono alla realtà sono… eterni, e quindi vi è nientemeno che l’eternità davanti alla aspirante segretaria.

Per il grande filosofo, docente storico a Ca’ Foscari, il participio presente del verbo essere – ente/ essente – rappresenta la forma dell’eternità di ciò che anche solo una volta si manifesta (phàinetai) alla realtà.

Tornando ai media, potrei citare innumerevoli casi nei quali si evidenzia una piaggeria insopportabile nei confronti dei potenti di turno, che tornano immediatamente nell’oblio non appena il loro potere cala o svanisce, oppure qualcosa d’altro, che non capisco bene che cosa sia. Ho memoria dell’appartenenza di persone come il giornalista intrattenitore tv Maurizio Costanzo (poi pentitosi) alla P2, e di altre persone della comunicazione stampata o radiotelevisiva.

Io stesso ho sperimentato la piaggeria di molti quando mi sono trovato in evidenti posizioni di potere, come la responsabilità di un soggetto socio-politico o un’elevata posizione aziendale. Il meccanismo è sempre stato questo: a) non sei nessuno, perché non appari in tv, e nessuno ti bada; b) cominci a essere-qualcuno perché la tua figura comincia ad apparire (ecco il solito apparire!) in tv, e parecchi cominciano a salutarti con sempre maggiore deferenza, man mano che la tua presenza mediatica cresce; c) sei sempre più presente sui media, e allora in molti ti cercano per un favore o anche solo per farsi vedere con te in qualche locale centrale della città a bere un bicchiere di vino; d) le tue presenze mediatiche calano fino a scomparire e quelli che ti cercavano e ti salutavano per primi, fanno a volte finta di non averti visto per strada, perché non sei più utile.

Eppure tu sei sempre lo stesso. A me è capitato almeno tre volte di salire e scendere la “scala” della notorietà (e di un potere dato) in ambienti differenti (politica, economia, cultura) osservando i fenomeni sopra descritti. Ora sono stabile in una buona posizione.

Provo una gran pena per chi ti giudica dal tuo apparire, senza curarsi che il tuo apparire sia un apparire dell’essere quello che sei.

Gli imbrattatori (illi illaeque qui virtuose docendi populo credunt)

Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.

Babbei e babbee

Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.

Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.

Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.

Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.

Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.

Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.

Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.

Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?

Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.

Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.

Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.

Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.

Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.

Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.

Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.

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