Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate

Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.

Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.

Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.

C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.

Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei MykoianMig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.

Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?

Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).

Et de hoc argumento, satis.

Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?

In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.

E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.

Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.

Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.

Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!

E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.

Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?

Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.

Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.

Continuo con le domande…

E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).

Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?

Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?

Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.

Il radicalismo “sbagliato” e quello “giusto”

Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.

Giulio Alessio


Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.

In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.

Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.

Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.

Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.

Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).

Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.

Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.

I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:

  • la completa separazione tra Stato e Chiesa;
  • il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
  • la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
  • l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
  • l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
  • l’abolizione della pena di morte;
  • la tassazione progressiva;
  • l’istruzione gratuita e obbligatoria;
  • l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
  • il suffragio universale per uomini e donne;
  • un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
  • sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
  • la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!

Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).

Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.

I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.

Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.

Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.

Francesco Saverio Nitti

Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.

Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.

Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.

Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.

Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).

Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.

Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.

Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).

Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.

L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.

Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.

Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!

Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.

Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.

Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.

Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.

NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.

Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate alla struttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.

Nessuno escluso, caro lettor mio.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

Qualche idea sul Partito Democratico dopo il Congresso. Espongo le ragioni per cui ritengo la segretaria neo eletta inadeguata, impreparata, inutilmente aggressiva, e forse un po’ “pericolosa” per un PD riformista e socialista democratico. Lei sembra piuttosto – per il momento – la mèntore di una specie strana di “Partito radicale di massa” (chissà quanto grande possa essere questa “massa”), però senza il carisma di Marco Pannella. In sintesi, e ad esempio, non mi pare sia in grado di spiegare “come” proporre un nuovo “patto sociale” (neanche si ritenesse un novello Jean-Jacques Rousseau), e dove si possano trovare le risorse per sostenerlo, perché, delle due ipotesi obbligate l’una: o 1) si aumenta la spesa pubblica o 2) le tasse, e ambedue le soluzioni sono improponibili, antipopolari e poco attraenti per l’elettorato, se non quello vicino ai 5S, i quali ritengono, con le loro proposte, che il denaro si possa fabbricare con la macchinetta. Un altro “progetto” si sente aleggiare dalle sue parti: portare la settimana lavorativa da 40 a 32 ore, pagate 40: se lei vuole (non sa, probabilmente, neanche quello che vuole) distruggere la seconda industria europea, che produce la gran parte del PIL italiano, questo fatto nefasto accadrà. Ma non accadrà, perché le forze sociali e chi, anche nel PD, ha uso di ragione, glielo impedirà. Che disgrazia: da uomo di sinistra mi tocca sentirmi – in qualche modo – garantito da un governo di destra. Che malinconia! Infine, propongo due opinioni filosofico politiche diverse tra loro, e infine la mia

La beatificazione in vita della giovane donna (ricordo ai miei cari lettori che la Chiesa, prima di procedere a una beatificazione istruisce un lungo e complicato procedimento per esaminare la biografia del “candidato” alla beatitudine pubblica, e poi agli onori degli altari, la santificazione, che inizia ben dopo la morte dello stesso/a, nonché testimonianze plurime di persone che lo/a abbiano conosciuto/a bene, e infine un avvenimento che si possa definire plausibilmente “miracoloso”, in capo al/la beatificando/a) è già in corso (si vede che l’attuale mondo PD si ritiene più competente – sul tema – della bimillenaria Santa Madre Chiesa), ma…

vedere dalle parti della segretaria neoeletta vecchi arnesi immarcescibili come Franceschini, di quarantennale anzianità parlamentare, ministro più volte, suo predecessore come segretario nazionale (tra i dieci succedutisi dell’ultimo quindicennio), o il greve Bettini de rroma, già illustra in qualche modo alcuni aspetti della “grande novità” schleiniana.

Hovvìa! (per dirla alla fiorentina), siamo al nuovo!

…peccato che non ci sia più Walter nei dintorni

Se ho capito bene, sintetizzando le sue priorità paiono già essere le seguenti: a) attenzione primaria al mondo Lgbtq+ dove i temi generali delle famiglie comunque declinate, anche “arcobaleno”, non sono focalizzati se non genericamente, e prevalentemente orientate verso i contenuti del Disegno di Legge Zan (grazieadio mai approvato), che, così come è potrebbe prefigurare la figura di un reato d’opinione perfino nell’ambito di questo mio testo; b) ambiente e clima, ma non si capisce in che senso, modo e utilizzo delle risorse; c) diritti senza doveri (questi ultimi mai da lei citati, ma è un costume a sinistra, ormai da anni, da dopo che finirono i tempi dei grandi compagni Enrico Berlinguer e Pietro Nenni e, se si vuole, anche Claudio Martelli); d) conflitto russo-ucraino su cui dovrà esprimersi, ora che è esposta al giudizio interno ed esterno dei suoi e degli altri… etc.

Ho già scritto qualche settimana fa che questa giovine signora avrà visto e interloquito in tutta la sua vita con meno lavoratori e imprenditori di quanti ne incontri io in un giorno solo. Ed è tutto dire, quando la si sente già pontificare su qualcosa che non conosce, se non pochissimo, per ragioni anagrafiche e biografiche, se si sa qualcosa di lei.

E c’è da sperare che non sposi del tutto anche la cancel culture e il politically correct

Parto con la mia riflessione critica e filosofico politica dai processi di formazione dell’attuale “personale politico” dei partiti in vista di un’entrata nelle istituzioni elettive. Ricordo ab initio, per i lettori più giovani, come si selezionava chi era interessato alla politica fino a un paio di decenni fa o poco più: chi voleva fare politica si avvicinava a una sezione di partito di paese o di quartiere cittadino; dopo avere partecipato ad alcune prime riunioni, si dava disponibile a volantinare, attaccare manifesti, partecipare ad assemblee e comizi; successivamente poteva venire proposto come candidato/a alle elezioni dei comitati di circoscrizione (nelle città), e successivamente alle elezioni di un consiglio comunale. Se poi l’aspirante ad una attività politica manifestava qualità, poteva venire nominato/ assessore fino ad essere anche eletto sindaco. Oppure. seguendo un altro percorso, ma anche proseguendo nel primo, poteva essere candidato ai consigli provinciali, regionali e perfino in Parlamento (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica).

La prosecuzione della carriera poteva arrivare in seguito anche a un Sottosegretariato o a un Ministero, e infine alla Presidenza del Consiglio e/o della Repubblica, oppure, dalla nascita dell’Unione europea, a deputato del Parlamento di Strasburgo o componente degli Organismi di Bruxelles.

Ora, quale è stato il percorso di questa signora? D’accordo che i tempi, i mezzi e i modi sono profondamente cambiati dai decenni che partono dal Dopoguerra fino al Duemila, che la società è cambiata nella sua costituzione di classe in stratificazioni sociologiche assolutamente nuove. Non lo conosco bene, salvo alcune notizie trapelate sui media dopo l’esplosiva acquisizione di popolarità della “nostra”. Per me, che seguo la politica da prima che lei nascesse, è un mistero: la ho vista spuntare dal nulla come un fungo nell’umidità del bosco.

Prima di dire la mia propongo due posizioni antitetiche che ho registrato da parte di due amici filosofi. Il primo sostiene ironicamente che c’è addirittura da dubitare sulla sincerità di un eventuale suo giuramento di fedeltà alla Repubblica patria, nel caso in cui si trovasse a farlo dinnanzi al Presidente della Repubblica, ricevendo magari un incarico di Governo. Il secondo collega filosofo, proclamandosi apolide o perlomeno cosmopolita, non è interessato alla fedeltà alla Patria Italia, per cui non ritiene che sia indispensabile lo sia anche la suddetta. Questo secondo collega è addirittura sarcastico, nei toni. Il primo ironico, il secondo sarcastico, due modi certamente in qualche modo e misura filosofici di ragionare.

Io provo a stare sul pezzo in modo diverso: osservo le manovre susseguenti al congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione; presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e di sociologia politica da Lucia Annunziata [riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista], mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci a Berlinguer, e recuperando perfino [!!!] il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in “esilio”, termine giuridicamente improprio, ma evocativo di uno stato della situazione colmo di un grande malessere etico e politico. La tristezza continua a sinistra.

Poi ci sono i “vecchi” saggi, brave persone alla Cuperlo, che credono ancora al metodo correntizio, magari non à la Franceschini, che è una vecchia lenza democristiana, senza accorgersi che il possibile-mondo-di-una-“sinistra-possibile” [l’aggettivo non ha nulla a che vedere con il movimentino del simpatico Civati di Milàn] va da tutt’altra parte.

A guardare lo spettacolo, anche dopo il Congresso, vien da pensare immediatamente che pare il set di una commedia tragicomica tendente al grottesco. Su un lato ci sono coloro che non si limitano a criticare Renzi & Calenda, mentre dall’altra ci sono quelli, come la Segretaria appena eletta, che starebbero con Conte notte e giorno. Povero “Partito storico della sinistra”! Questi si chiamano Speranza, Provenzano, Bettini, ma anche Bersani che ha rinunziato alle fatiche improbe della prima fila. Dal loro punto di vista non si sono accorti che stanno correndo dietro a uno che è ontologicamente un “notabile democristiano fuori tempo massimo”. e di più non dico su un personaggio sul quale mi sono già esercitato troppo, e non a suo vantaggio.

Non è che i primi debbano accodarsi a Renzi & C., ma mi pare evidente che l’unica strada percorribile per una “sinistra possibile” sia quella capace di dialogare con la contemporaneità dei nuovi mezzi di comunicazione, con i “valori” delle ultime generazioni, che non hanno dimenticato la solidarietà e i sacri principi di eguaglianza evangelico-socialista, ma vogliono declinarla secondo il principio di equità, che è l’epicheia aristotelica.

Il principio di uguaglianza è da collocare solamente nel giudizio antropologico della struttura di persona, nella pari dignità di ogni essere umano, ma non nella struttura di personalità, che dice irriducibile differenza, unicità mia, tua, sua, caro lettore! Una sinistra che non si accorge che oggi i giovani desiderano rappresentarsi nella vita in modo diverso da come lo volevano i giovani anche solo di mezzo secolo fa, non può accostarli, e nemmeno portarli a condividere una lotta politica.

E questo lo spiegano la sociologia e l’antropologia culturale: oggi, il valore più importante percepito è la possibilità di essere sé stessi, non di essere uguali a tutti gli altri! Una sinistra capace di dialogare con il tempo attuale deve cominciare a capire che il valore principale non è l’uguaglianza, ma l’equità nella libertà. Ancora Aristotele e Tommaso d’Aquino. I signori sopra citati non studiano più [se mai hanno studiato]. Studino con umiltà la filosofia morale classica, dallo Stagirita fino a Kant, per saper declinare anche il principio del dover-essere-come-lo-richiede-la-realtà-fattuale-attuale, che non è quella di Marx, di Lenin e di Gramsci, ma neanche quella di Berlinguer e di Gorbacev.

Se una “sinistra possibile” vuole vincere di nuovo differenziandosi dalle destre al potere, soprattutto da quella salviniana, deve saper declinare valori ritenuti “di destra”, come il successo individuale e il non-collettivismo, con il rispetto dell’individuo-persona che non è ascrivibile a nessun operaio-massa modernamente declinato.

Non sto proponendo un relativismo etico all’americana, né un liberismo economico senza leggi regolatrici, che ritengo indispensabili, soprattutto a livello sovra-statuale [una UE vera!], ma uno sforzo di comprensione dei nuovi linguaggi che rappresentano un mondo nuovo, preoccupante per molti aspetti [clima, guerre, pandemie…], ma pieno di potenzialità straordinarie.

Una “sinistra possibile” non teme di concordare con la cultura politica di destra sul tema delle migrazioni, e si misura non sul ruolo delle ONG o su porti aperti o chiusi, ma sullo sviluppo del Sud del mondo, rischiando anche topiche ed errori. Un esempio, se il da me [e non dal PD, ahi ahi] rimpianto ministro Minniti [di sinistra!] ha fatto accordi con i Libici di dubbia efficacia e con esiti morali anche negativi, lo spirito della sua iniziativa di “lavorare in Africa” era giusto, corretto, eticamente fondato e politicamente lungimirante.

Una “sinistra possibile” non tema di misurarsi su un tema controverso come il “reddito di cittadinanza” di matrice grillina, e accetti di selezionarne rigorosamente i beneficiari, smettendo di ululare, una cum travaglieschi borborigmi giornalistici, all’attacco ai poveri!

Il tema delle “stesse opportunità” di partenza, tipicamente “di sinistra”, se declinato in modo assoluto, è realisticamente assurdo. Bisogna invece creare le condizioni per un’istruzione accessibile ai massimi livelli per tutti… quelli che vogliono istruirsi. Per illustrare questo principio devo di nuovo ricorrere alla mia biografia personale e a un esempio esterno.

Quando la mia umile famiglia condivise con me che sarei andato al liceo classico [incredibile dictu per chi aveva solo la licenza elementare, come i miei genitori!], vi andai con profitto. Altri miei coetanei non ci andarono, a volte anche potendo economicamente farlo con facilità. In questo caso come si considerano le pari opportunità di partenza? Io, partendo da più indietro, sono andato più avanti. Che legge ho violato? Quella delle pari opportunità? Al contrario, io ne avevo di meno. E allora? La verità è che è antropologicamente insopprimibile l’irriducibile differenza della struttura di personalità singola.

Il mio bisogno, come quello degli altri coetanei, era quello di studiare; il mio merito è stato quello di aver studiato [e di continuare a farlo], mentre altri, pur potendolo fare, non lo hanno fatto. E’ di destra che io abbia raggiunto il livello accademico di due dottorati di ricerca? E’ di destra il merito acquisito con la mia fatica, con il coraggio dei miei e con l’aver io avuto molta forza fisica e psichica e salute?

No, non è né di destra né di sinistra, cari Schlein, etc., mentre i vostri detti e fatti sembra che vogliano farlo apparire tale, come quando avete polemizzato con la nuova dizione del Ministero dell’Istruzione e del Merito neo istituito, perché la parola Merito, che significa differenza antropologico-filosofica, vi fa paura, perché la ritenete di destra. Suvvia! Studiate, studiate.

Merito e bisogno vanno declinati assieme, come tentava di fare, inascoltato, il Ministro della Giustizia del governo Craxi, Claudio Martelli, a metà degli anni ’80.

Un altro esempio è quello di un grande imprenditore, della mia stessa classe sociale: egli partì per la Germania mezzo secolo fa, o poco più, come garzone gelataio, e oggi ha tremila e cinquecento dipendenti con un fatturato di oltre cinquecento milioni di euro, che lo hanno fatto diventare un gran signore, ma con il lavoro retribuito di migliaia di persone, lavoro che ha creato lui con i suoi valorosi collaboratori, dal più giovane dipendente all’amministratore delegato.

Cara Sinistra, caro PD e cara Segretaria, ce la fai a discutere in questo modo di come “essere sinistra” oggi senza aver paura di condividere valori che non sono storicamente nati nel tuo grembo, per poi declinarli con i tuoi? E magari anche il valore semantico, politico e morale della parola “Patria”, termine da te negletto, perché pensi che sia ancora fascista. Dai!

Se sì, se riesci a discuterne e a considerare in questo modo l’essere-di-sinistra-oggi hai speranze, altrimenti, lascerai il TUO campo di lavoro politico e sociale ai furbi populisti che si spacciano per sinistra e a quelli che saranno sempre voces sine fine clamantes, toto populo inutiles.

(Ripropongo qui un pezzo che scrissi a fine settembre 2022 dopo la sconfitta elettorale del PD)

Fèstina lente” ovvero “adelante, Pedro, pero con juicio…”, il latino e lo spagnolo in aiuto alla grande incertezza

…del maggiore partito della sinistra italiana dopo la sconfitta elettorale.

Mi ero ripromesso, dopo il titolo-articolo pubblicato lunedì 26 settembre 2022 post crash in ogni senso della politica italiana, di tornare sul tema.

Approfitto del fatto di avere ascoltato per due o tre ore in viaggio in auto gli interventi nella direzione nazionale del Partito Democratico, dove si è consumato un autò da fè impressionante del gruppo dirigente, un atto di auto accusa impregnato di un po’ di contrizione e di molta attrizione. Uso questi due termini teologico-morali, contrizione e attrizione per tenermi nel mood della riunione che, iniziata con la relazione del segretario Letta, capace di citare per due volte dei passaggi evangelici, è poi proseguita con altre citazioni di altri oratori, abbastanza a sproposito, sia delle Sacre scritture sia di espressioni in lingua greca e in lingua latina.

Per il PD tutto, una riflessione informativa: contrizione significa dolore e pentimento per il male compiuto come offesa a Dio stesso; attrizione è come dire dolore [anche se non tanto] e pentimento per il male compiuto, e non per avere offeso Dio, ma per paura della pena eterna dell’inferno. Una differenza radicale, tanto grande da far concepire teologicamente la contrizione come sufficiente per accedere al purgatorio, anche a fronte di peccati gravi e senza la confessione formale dei peccati, e l’attrizione come atteggiamento sufficiente per il perdono divino, ma solo dopo una confessione formale. Detto altrimenti, il peccatore contrito è atteso comunque dal purgatorio, il peccatore attrito può rischiare l’inferno.

Questo vale per la casistica canonico-penalistica classica. Che cosa c’entra con la direzione del PD? Vedremo più avanti: qui mi limito a dire che tutti/ tutte erano almeno “attriti/ e” per il male commesso di avere sbagliato, non solo la campagna elettorale, ma le politiche degli ultimi dieci o dodici anni, troppo confusamente “governativistiche” e poco attente ai bisogni del popolo, cui sono stati più attenti i populisti di destra e di sinistra. “Di sinistra” per modo di dire, visto che si tratta dei grillini.

C’è chi ha tirato fuori di nuovo le “agorà [!!!] democratiche“, nonostante, se si vuole usare correttamente il greco, si debba scrivere “agorài“, perché l’espressione è plurale. Mi sono affaticato a scriverglielo due o tre volte a “contatti PD nazionale”, ma si vede che, o non leggono, oppure la cosa non gli sembra importante. Possibile che non vi sia nessuno in quei luoghi che abbia fatto uno straccio di liceo classico? Una volta da quelle parti c’era il professor Alessandro Natta, oggi ci sono invece le Serracchiani et similia.

Altra perla odierna, peraltro pronunziata da una delle migliori intervenute, la Ascani. A un certo punto ha esclamato una cosa del genere: “…dobbiamo essere saggi, come suggerisce il detto latino festìna lente, con l’accento sulla “i”, mentre si deve scrivere e dire fèstina lente, con l’accento sulla “e”.

Anche qui, è importante questa cosa? poco, molto?… dico, rispetto al quasi deserto propositivo della riunione, su cui arrivo subito. Se si vuole essere seri, e seeri non à la Calenda, ma à la Marco Aurelio, sarebbe bene rispettare anche le nostre madrilingua, e non usarle a sproposito.

Di più: Pollastrini, una “storica” dell’antico Pci, a un certo punto ha detto con enfasi che “ci vuole uno spirito santo” [al minuscolo perché noi laici… alla faccia dei cattolici del PD, che però probabilmente poco conoscono dello Spirito Santo come terza Persona della SS. Trinità, Dio Unitrino]. Figurarsi la Pollastrini. Dimenticavo, lei intendeva lo “spirito santo” [rigorosamente minuscolo!] come “partecipazione popolare”.

Su questo potremmo anche disquisire e fors’anche [pur se solo in parte] convenire, perché, teologicamente, lo Spirito Santo “soffia dove vuole” e pertanto può senz’altro “soffiare” sulla partecipazione popolare, visto che la Chiesa è il Popolo di Dio [cf. Lumen Gentium I, Roma 1965].

Naturalmente provvederò a inviare alla direzione del PD una copia di questo pezzo e i riferimenti bibliografici per una, se non necessaria, opportuna acculturazione specifica, se si vuole persistere nelle citazioni filosofiche e scritturistiche.

Vengo al dunque. Innanzitutto l’analisi del voto. Solo Letta prova a farla con una sufficiente dovizia di supporti logici e di argomentazioni, oltre al cavalleresco tirarsi indietro come segretario, virtù presente in pochissimi altri di quel consesso. Certo, gli spettava, ma almeno mostra una onestà intellettuale di cui gli altri / le altre sono nella maggioranza (degli interventi che ascolto) privi/ e. Non uso lo schwa, IMBECILLI! [qui mi rivolgo ai tifosi/ e di questa idiozia].

Si sbaglia Letta, a parer mio, però, quando prova a ri-sostenere che la colpa del fallimento del “campo largo”, che doveva comprendere tutti, da Renzi & Calenda a Fratoianni, e forse a Ferrando e Marco Rizzo, e soprattutto i 5 Stelle, è da attribuire al furbo capo di questi ultimi. No, caro Letta: è sbagliato il concetto e il progetto. Non puoi far ragionevolmente convivere Renzi & Calenda con Fratoianni [e mi fermo qui], se quest’ultimo ha sempre votato contro il Governo Draghi. Ma come fai solo a pensarlo? Già Prodi sbagliò clamorosamente quando onorò di credibilità il Bertinotti che lo pugnalò “senza se e senza ma” [ridicolo sintagma che il perito chimico di Torino si attribuì orgogliosamente, così come con altrettale sentimento si gloriò talvolta di non avere mai firmato un accordo]. Repetita quoque non juvant [se proprio si vuole ostinatamente usare il latino].

O il PD è capace [non lo è stato finora], sperando che lo sia in futuro, di proporre una politica riformistica complessiva dove possano armonizzarsi diritti & doveri sociali [dimenticati dal PD da oltre un decennio] e civili [privilegiati dal PD da altrettanto tempo, peraltro senza successo, scimmiottando una sorta di partito radicale di massa], oppure non avrà futuro, perché sarà sostituito del tutto, “a destra” dal duo liberal-riformista R & C, e “a sinistra” da quel dandy-falsodemocristiano di Conte e codazzo cantante. Senza che con questa citazione di destra e sinistra sia un modo per con-fonderle. Ma oggi non bastano questi due poli: piuttosto si esige di distinguere tra culture politiche populiste che sono sempre più rossobrune e culture politiche dell’intelligenza, della competenza e della ragionevolezza.

Non ho ascoltato chiarezza sul piano programmatico, mentre già il Partito deve fare i conti con le fughe in avanti di chi si auto-candida alla segreteria come De Micheli o Schlein [pure!]. All’improvviso, come la canzone di Mina. La “gente” [chissà se De Micheli si ritiene “gente” o benaltro dalla gente] non ha il senso delle proporzioni, a volte.

Quale il tema? Come si può sintetizzare un riformismo realistico e capace di leggere i “segni dei tempi”. Eppure non è difficilissimo. Equità sotto il profilo fiscale, NON aumentando tasse in alto, ma equilibrando le aliquote alle categorie produttive, diciamo fino a 150.000/ 200.000 di reddito annuo, che è lo stipendio di un dirigente industriale bravo e responsabile, che deve essere alleato del riformismo. Si tratta della borghesia intelligente e produttiva che anche Marx apprezzava moltissimo, ma sembra che i suoi mezzi nipotini non la capiscano. Mi spiego meglio: non sto parlando dei vacanzieri di Capalbio, che sono bene rappresentati anche nel PD, ma di chi opera nell’economia reale, non nel terzo settore privilegiato degli influencer e del giornalismo televisivo, che è uno dei settori più deleteri di questi ultimi anni.

Circa il Reddito di cittadinanza, invece di seguire a papera i 5S [cf. esperimento di etologia di Konrad Lorenz], recuperare il Reddito di inclusione selezionando le posizioni dei percettori e obbligandoli a considerare seriamente le offerte di lavoro. Politiche attive del lavoro fatte da chi le sa fare, cioè le società di somministrazione, non dai fantasiosi navigator, opera del Dimaio vincitore delle povertà e tritato dalla sua stessa ambizione, senza senso della misura. La sorte lo ha collocato finalmente dove meritava di stare da tempo, l’oblio.

Il PD dovrebbe saper parlare di diritti civili senza allinearsi al mainstream [dico e scrivo ancora una volta, ahi ahi Letta!] della scuola materna obbligatoria dai tre anni di età, del D.D. L. Zan, che, così come è congegnato, prevede il reato di opinione. Io, socialista autentico e antico, ho scritto cinquanta volte che la maternità surrogata [evitando l’espressione atroce di “utero in affitto”] è un abominio morale e socio-culturale, così come quasi lo è l’adozione da parte di coppie omosessuali, per ragioni educazionali e socio-culturali. Per queste affermazioni, in base allo “Zan” potrei essere denunziato da qualche anima bella, inquisito da qualche giudice ecumenico e condannato. Ma siamo impazziti?

Sono esempi di come il PD si è perso, non è stato più né socialista né cattolico democratico. Posso continuare.

Sulla pace e la guerra. Senza fumisterie incomprensibili, il PD dica tutto insieme che l’Ucraina, aggredita, deve essere sostenuta fino al raggiungimento di una situazione che la metta in sicurezza, evitando qui di parlare di Crimea e/o Donbass sì, Crimea e/o Donbass no, ma chiarendo che la pace la pace la pace su cui ululano Conte e altri non si ottiene se non da una onorevole posizione di autodifesa. Non vada in piazza il PD su una “piattaforma” grillina” o vagamente pacista. Potrebbero svegliarsi i partigiani della pace in sonno da cinquant’anni, perfettamente “sovietici”, a volte ingenuamente nascosti anche in mezzo ai cattolici.

Il PD smascheri chi si attribuisce ogni merito di qualsiasi cosa, come ancora si azzardano a fare i 5 STELLE CHE HANNO PERSO – RISPETTO AL 2018 – CINQUE MILIONI DI VOTI, e parlano come se il 25 settembre avessero vinto, su questo aiutati da giornalisti e giornaliste almeno superficiali [tipo la Manuela Moreno di Rai 2 Post].

Non si vergogni [c’è qualche d’uno che comincia a vergognarsi, come fa Salvini, quasi, nel PD] di avere sostenuto il governo Draghi, che ha mostrato il volto buono e forte dell’Italia. Agenda o non agenda Draghi, l’Italia, con quest’uomo è stata più credibile e creduta nel mondo. Sulla lotta alla pandemia, sul tema della guerra e su quello energetico, anche Meloni, intelligentemente, e fregandosene di Salvini e dei suoi seguaci un po’ vigliacchetti [pensavo che Giorgetti avesse più attributi, mi sbagliavo], si sta collegando alle politiche del governo Draghi, con cui non vuole creare una cesura pericolosa, ma vuole proseguirne le parti più efficaci, per l’Italia.

C’è una grossa e profonda riflessione da fare sulla democrazia, sui meccanismi della rappresentanza in una società ipermediatizzata, su ciò che sia reazione e su ciò che sia conservatorismo… perché anche io sono progressista socialmente e nel contempo conservatore del bello italiano e della cultura. Reazione e conservatorismo non sono la stessa cosa, cari del PD! Troppi di voi fanno confusione, o per ideologia o per carenze culturali, di grazia!

Per la verità non ho ascoltato solo le cose più ovvie dai politici più politicanti [maschi o femmine che fossero], perché diversi interventi si sono distinti per lucidità e passione, ma, guarda caso, non tanto quelli dei “potentati” [e anche qui vi sono delle distinzioni da fare, ad esempio un Misiani non dice mai banalità], ma piuttosto gli interventi delle persone più “di confine”, come la calabrese Bossio o la italo-iraniana, di cui non ricordo il nome, che ha spiegato come il cambiamento stia avvenendo nella sua grande Nazione, non solo per la presa di posizione delle donne, ma ancora di più perché assieme con le figlie stanno scendendo in piazza i padri, con le sorelle i fratelli, con le mogli i mariti.

Analogamente, un partito che non tenga le donne nel loro giusto merito, non può cambiare, soprattutto se le donne non imparano a solidarizzare tra loro e se i maschi non la smettono con le “quote rosa”, WWF della distinzione di genere.

Infine, invece di continuare a demonizzare “la peggiore destra d’Europa” [lo ho sentito affermare anche oggi], il PD vada a vedere perché Fratelli d’Italia, con un gruppo dirigente piuttosto mediocre, a parte la leader, Crosetto e qualche altro, ha preso il 26% dei voti dati? Un 26% di imbecilli? Mi pare di no.

Io non la ho votata, ma non ho neanche votato PD, io che dovrei trovarmi lì di casa… Qualcuno se lo vuol chiedere? Gli interessa?

MI AUGURO CHE QUALCUNO CHE STA DA QUELLE PARTI ABBIA LA PAZIENZA (E ANCHE L’UMILTA’) DI LEGGERE QUESTO SAGGIO.

“Feedback” e “Feedforward”, come meccanismi complementari nella complessità gestionale dei gruppi, e il processo di delega

Il feedback, cioè la retroazione, o la risposta a una sollecitazione verbale/ fattuale, è un elemento centrale delle nuove scienze organizzative e gestionali, anche se come tale è conosciuto fin dai tempi antichi, ad esempio, nelle scienze e nelle prassi politico-militari greco-romane, ma anche egizie, hittite, assiro-babilonesi, persiane, etc..

Sinossi con feedback e feedforward

Chissà perché nessuno, o quasi nessuno (fanno eccezione i fisici teorici, cioè quelli interessati ai quanta/ qualia e alla relatività generale), fa il benché minimo cenno al feedforward, che è altrettanto importante del feedback.

I gestori/ organizzatori/ capi/ responsabili/ formatori – o, che dire si voglia – facilitatori, in ambito di risorse umane, non stanno ancora apprezzando questa metodologia che si pone di fronte al feedback come contraltare e come complemento razionale. Con qualche significativa eccezione. Vediamo: infatti…

Il feedforwarding, termine coniato da Marshall Goldsmith e Jon Katzenbach (autore di “The Wisdom of Teams“, Harvard Business School Press, 1993), è una particolare tecnica di comunicazione orientata sulle azioni future da realizzare per obiettivi pre-stabiliti.

Si può utilizzare nei percorsi di coaching come itinerario complementare al feedback, che resta uno strumento essenziale per lo sviluppo del personale e dei gruppi di lavoro.

Un esempio di feedwarding si può trovare nelle modalità proposte da Marshall Goldsmith, Executive Coach, NYT Bestselling Author e Dartmouth Tuck Professor in Management Practice.

L’idea centrale di questo metodo di coaching si incentra su una pre-visione razionale del processo di sviluppo professionale e manageriale di un lavoratore su cui l’azienda punta per la propria crescita. Il destino dell’azienda e quello del lavoratore, allora, si incontrano positivamente nel percorso di feedwarding, nel quale il budget generale richiama tra le sue componenti essenziali il / piano/ i di carriera/ e del proprio dipendente o di più dipendenti.

Accanto a ciò si colloca anche la gestione degli “errori di crescita”, che sono ineliminabili e perfino indispensabili per un’evoluzione positiva della struttura e delle persone coinvolte. Gli errori “in buona fede” non devono essere sanzionati, ma corretti con la disposizione al dialogo costante.

Un elemento costitutivo e caratterizzante di questo metodo è la delega, che si configura come tutt’altro rispetto a un “incarico”, perché è costituita da un processo scientifico ben preciso. Prima di presentarne i termini, conviene riprendere l’idea dell’autore sopra citato, Goldsmith, che propone, in via previa, quattro principi:

  • Focus sul futuro, cioè non rivangare il passato,
  • Essere sinceri tra e con il collaboratore,
  • Essere collaborativi e non negativi o critici,
  • Selezionare un comportamento da migliorare anche quando si fornisce un feedforward, in modo da incentrare la tecnica sul miglioramento piuttosto che sul giudizio.

A questo punto, si può aprire il discorso sulla delega, che presuppone un utilizzo concertato di feedback e di feedforward.

La delega è forse il principale strumento che – tramite i due sistemi citati – può aiutare nella crescita, sia il singolo lavoratore, sia l’azienda o l’organizzazione cui appartiene. Si è detto che la delega non è un mero incarico di lavoro, ma un processo razionale, logico, scientifico.

Per attuarla in modo efficace occorre che:

  • sia chiaro l’obiettivo,
  • si scelga un delegato di cui il delegante ha un’idea circa il potenziale di crescita,
  • sia spiegato bene al delegato,
  • siano predisposti i mezzi per la sua attuazione,
  • siano definiti e concordati i tempi di realizzazione del lavoro delegato,
  • si mantenga, da parte del delegante, un monitoraggio costante degli stati di avanzamento, senza opprimere psicologicamente il delegato,
  • si mantenga, in capo al delegante, la responsabilità del risultato in ordine agli obiettivi dati.

Un altro aspetto indispensabile per far funzionare la delega nell’ambito di un processo di feedback/ feedforward è l’assunzione di consapevolezza che occorre evitare o sconfiggere ogni sentimento di gelosia professionale tra delegante e delegato, come conditio sine qua non, per una crescita condivisa.

Il sentimento (o vizio) della gelosia, e di quella professionale in particolare, è molto diffuso, specialmente in alcune declinazioni antropologiche, e va considerato senza alcuna sottovalutazione.

E’ chiaro (e quasi ovvio) che ogni modificazione profonda nell’animo umano, nei sentimenti e nei comportamenti concreti e quotidiani, può avvenire solo se si riesce a far crescere nell’animo stesso la consapevolezza della necessità della modifica. Ogni riforma, anche del modo di lavorare, nasce “da dentro”, poiché se è solo imposta “da fuori” non dura, non essendo stata introiettata anche emotivamente.

Come in ogni ambito dell’agire umano la mera razionalità non basta mai, essendo l’uomo una entità complessa, fisica, psichica e spirituale (su cui si considerino gli studi più recenti sulla complessità, sulla fisica delle particelle e delle onde, recuperando anche le nozioni principali della metafisica classica che, non per me stranamente, possono dialogare), nella quale le ragioni del cuore devono essere considerate altrettanto delle ragioni della… ragione (Blaise Pascal).

Domenica 26 Febbraio 2023 sceglierò BONACCINI, per impedire un’altra deriva “a sinistra”. Caro Stefano, occorre una nuova “antropologia” per un rilancio della partecipazione nella politica!

Scegliere questo candidato a mio avviso significa dare al PD ancora qualche speranza di muovere qualcosa a sinistra di ragionevole, di razionale e di socialista democratico, magari anche (perché no?) di qualcosa che sia memore della parte migliore del Partito d’Azione.

Filippo Turati

Il mio amico Claudio, insegnante di filosofia e di storia, conoscitore finissimo delle vicende del mondo slavo e caucasico, dell’ex Unione Sovietica e della Rus storica, e mio antico compagno di liceo, la vede in questo modo, offrendomi una sintesi di ragioni a me completamente consentanee:

La Schlein, se dovesse vincere, trasformerebbe il PD in un’arca di nostalgici ideologici e di minoranze Lgbtq+: non approderebbe da nessuna parte. Il diluvio continuerebbe, potendo eventualmente incontrare altri relitti 5 Stelle , e imbarcarli per aumentare la confusione.

Oggigiorno gli aiuti all’Ucraina sono necessari e la Schlein mi sembra molto ambigua. Alcuni anni fa ho letto il libro di Huntigton sullo scontro di civiltà. Allora molti lo hanno deriso e criticato. La guerra in corso mi sembra invece rientrare nella categoria dello scontro di civiltà: o la democrazia o le dittature più o meno mascherate. In Italia molti non lo hanno capito e piagnucolano perché sono stanchi della guerra (standosene ben pasciuti e al caldo), e pensano che Zelensky sia colpevole di tutti i guai che ci affliggono. Costoro vanno alle marce della pace, ma non hanno visione politica, anzi, aggiungo, hanno un atteggiamento immorale, nonostante i buoni propositi.”

Con il massimo rispetto per chi partecipa alle marce per la pace, condivido sostanzialmente la posizione di Claudio, che ha una lunga esperienza di insegnamento e anche di militanza politica in aree “insospettabili” per chi volesse insinuare che è un filo-bellicista.

Ai nostri tempi giovanili lui molto più “a sinistra” di me, ci siamo trovati, da uomini maturi, sul versante socialista democratico cui io appartengo fin dall’uso di ragione, come figlio della classe operaia, che, come sanno bene coloro che conoscono la Storia, è sempre stata gradualista e moderata.

…e riflessiva, perché naturaliter consapevole che le cose cambiano solo a partire dall’autoconsapevolezza dei limiti antropologici dell’essere umano, e da una paziente ricerca di sempre nuovi equilibri di democrazia e di giustizia nella libertà.

Sento dire in tv che Bonaccini sta chiedendo a Schlein di essere sostenuto nel caso lei non vinca, ottenendone, pare, prima una risposta positiva, risposta però, in seguito, recisamente smentita. Infatti, mi chiedo prima di tutto per quale ragione una candidata che spera di vincere, dovrebbe dare ex ante la disponibilità a collaborare con il suo “fiero vincitor” avallando in questo modo, implicitamente, la propria sconfitta e, in secundis, come si possa attuare una convivenza politico-gestionale positiva per un partito finalmente riformista (come avrebbero voluto in tempi e modi diversi Bettino C. e Walter V.), se i due progetti paiono essere così differenti.

Del resto, sono dell’idea che ogni organizzazione umana, partiti compresi, per quanto possano oggi – sociologicamente – essere chiamati “organizzazione”, necessiti di una leadership chiara e condivisa, non perché io sia un laudator dell’idealtipo “uomo solo al comando”, ma perché il leader, con la sua tipica personalità, deve incarnare con chiarezza e senza ambiguità una linea politica visibile per tutti. Così funziona tra gli uomini di questo mondo, non solo in base alla letteratura filosofica e psicologica fin dai tempi di Aristotele e fino a Freud e a Max Weber e oltre, ma anche nelle prassi che conosco direttamente, come nelle imprese economiche e nelle strutture della cultura, per tacere del sistema militare e di quello ecclesiastico.

In ogni caso, chiunque dei due vinca, a mio parere, dovrà iniziare da una revisione radicale dell’antropologia vetero-marxista che ancora permea quelle zone politiche, pena una nuova impasse, che sarebbe forse definitiva. Per fare ciò, per la verità, non vedo (purtroppo) preparato/ a né l’uno né l’altra. Chiarisco subito che un cambiamento di indirizzo antropologico presuppone immediatamente una revisione dell’ideologia politica storica sottostante e corrente.

Che cosa intendo per “revisione antropologica”? In questa sede ne ho parlato spesso e ora la riprendo, poiché mai come su questi temi e di questi tempi repetita juvant.

Con questo sintagma filosofico intendo che bisogna rinunziare solennemente all’utopia dell’homo novus, così come si legge ancora qua e là in articoli e pamphlettini nostalgici, in questo caso soprattutto dalle parti di Schlein o di ex militanti delusi dall’andazzo impoverito di idee e di entusiasmi di questi tempi post-rivoluzionari.

La “sinistra nuova” dovrebbe (necessariamente), studiare (studiare molto, perché ogni tanto mi capita di leggere che lo studio approfondito, scientifico, anche accademico, di un argomento, non serve o non servirebbe a molto), approfondire, prendere in mano e far propria un’antropologia che si fondi su una sorta di Realismo aristotelico-tomista declinato con il personalismo Novecentesco di un Mounier e di un Marc Bloch (socialista cristiano), che utilizza, assieme alla visione classica, intuizioni ed afflati che appartengono, solo apparentemente in modo strano e sorprendente, anche alla ricerca della fisica teorica più recente, che sta superando ogni riduzionismo deterministico nei suoi ultimissimi studi sulla coscienza-come-atto-in-divenire, non come stato-in-luogo determinato e immutabile (Giacometti 2022). L’uomo, nella sua struttura, non è emendabile per una via meramente socio-politica. Rassegnamoci (rassegnatevi Bonaccini e Schlein). L’uomo può solo essere trattato per come è, ed è in due modi.

E anche questi due modi ho spiegato più volte in questa sede, così: a) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di un corpo, di una mente e di una sensibilità spirituale, che tutti gli umani accomuna in dignitas e, b) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di genetica, ambiente e educazione, tali da rendere ognuno un unicum, irripetibile, irriducibilmente. Le due strutture, cari Candidati, convivono! e vanno considerate assieme, non in contrasto, per cui l’emendazione, la resipiscenza, il pentimento, il cambiamento interpellano singolarmente la struttura b) su cui bisogna lavorare ad personam, con il dia-logo e lo studio dei principi etici, mediante il modello filosofico maieutico di Platone e dei maggiori saggi d’ogni tempo e luogo, che vanno studiati in modo approfondito e non solo orecchiato negli attivi di partito o di circolo, come si usa dire oggi.

Ancora una volta, dobbiamo ammettere che l’unica “rivoluzione” possibile è quella del cuore, che, se avviene, può mettere in moto anche il cambiamento sociale. Il primo nemico della sinistra, e di tutto il genere umano, non è primariamente la classe-che-sta-di-fronte-come-avversario-o-addirittura-nemico, non è la “Democrazia cristiana” odierna, né il “Sistema delle multinazionali” guidato dagli Usa, ma sono l’egoismo, l’invidia, la superbia, la vanagloria, l’egocentrismo, il narcisismo, cioè i vizi morali che possono caratterizzare qualsiasi anima umana, e non solo come nevrosi bio-psicologiche da Manuale Medico diagnostico psichiatrico. Vizi morali presenti ovunque, in ogni territorio, in ogni tempo luogo, nazione, ambiente, famiglia, gruppo organizzato e partito. Ovunque.

Un altro nemico che il nuovo gruppo dirigente deve sconfiggere, rendendosi prma di tutto conto della sua pericolosità, è la chiacchiera vana e le discussioni poco o punto documentate su temi decisivi come l’Etica, che il più delle volte si sente citare a sproposito. L’etica non è una serie di prescrizioni morali legate al qui e ora, ma è la scienza del discernimento nel giudizio valutativo sull’agire umano, condividendo la nozione di ciò che sia bene e di ciò che sia male, che non è mai banale (cara Hannah Arendt!).

Infine, se quanto vengo dicendo è plausibile e condivisibile, solamente da una nuova Antropologia filosofico-morale può discendere una proposta politica di sinistra, capace di coniugare armonicamente libertà e giustizia sociale, proposta che riesca a parlare a vecchi e giovani, a militanti storici e di mezza età, a possibili simpatizzanti e – soprattutto – a chi non va più a votare e non partecipa alla politica, perché vinto da un formidabile scetticismo esistenziale e morale.

Un ultimo consiglio non richiesto a chi diventerà Segretario: rinnovi tutto il gruppo dirigente, senza astio, ringraziando con simpatia, e nel contempo invitando chi ha vissuto una stagione dirigenziale ad essere disponibile a viverne un’altra senza incarichi particolari, e soprattutto senza potere.

Carisma e leadership. Lo sviluppo del “potenziale” di una persona dalla “latenza” all’evidenza e all’efficienza/ efficacia dell’agire

Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”;
dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.

(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)

(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)

Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.

“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)

Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,

Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.

Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’esercizio del potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.

Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instant book, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.

Vilfredo Pareto

Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).

Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.

C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.

La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.

L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.

Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.

Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…

I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.

Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.

Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”

Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.

E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.

Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).

Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.

La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.

(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).

Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)

Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.

Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.

Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.

La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.

Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.

Que viva Argentina, ma che brutta la vestaglietta di Messi! “Sport-washing” di bassa lega, e che brutti i comportamenti, avuti dopo la conquista del titolo mondiale, del “Dibu” Martinez, portiere argentino dell’Aston Villa, un gran maleducato. Punti persi per la gloriosa Nazionale argentina, cui io tengo, subito dopo l’Italia!

E’ come se fosse “andato a posto” un evento naturale, e perfino razionale, della storia del calcio, che abbia vinto l’Argentina il mondiale di calcio, pure se in… Qatar, cioè in uno dei posti attualmente più sbagliati del mondo, forse battuto nel genere solo dalla Corea del Nord, dall’Iran, dalla Somalia, dalla Libia, dall’Eritrea e compagnia disumana. E naturalmente dalla Russia, che comunque aveva avuto il suo mondiale, (in coabitazione con l’Ucraina!) nel 2018.

Avenida 9 de Julio, Santa Maria de los Buenos Aires

Sono contento che abbia vinto la Albiceleste, in assenza dell’Italia, anche perché l’Argentina è una mezza Italia, a partire da Lionel Messi Cuccittini e da Angel Di Maria, perché ci sono anche Pezzella, Tagliafico, Scaloni, Musso, Rulli, etc.

E perché ha nei suoi “geni” momenti di gioco ammirevole: a volte assomiglia all’Italia e a volte al Brasile nei loro giorni migliori. Dell’Italia ha la ferocia tattica mentre del Brasile ha una parte della sublime arte prestipedatoria (avrebbe detto il magno Gioan Brera fu Carlo).

Sono stato in Argentina a trovare i nostri emigranti qualche decennio fa, e ho parlato friulano a Santa Maria de los Buenos Aires, a Cordoba, a Rosario, a Salta e Colonia Caroja. Mi sono sentito, io già grande, come quando ero bambino, perché l’Argentina è come l’Italia di cinquanta anni fa, o come il Friuli di prima del terremoto, per ricchezza nazionale e per reddito pro capite.

La Francia ha perso perché ha giocato un po’ peggio, soprattutto nel primo tempo, ma non è più debole, forse è vero il contrario. E sul tema calcistico qui mi fermo.

Parlo d’altro: prima dei gesti insulsi, degni del peggior campetto di periferia, da parte del portiere Martinez, che sono parsi squallidini, anzichenò. Ogni tanto emergono in quel tipo di giocatori i peggiori tratti della cultura meridional-ispanica, ma anche italiota, quelli che non sanno dove abiti la lealtà, che pure era insegnata dai filosofi della Magna Grecia, visto che qualche giornalista ha scomodato perfino il paradosso di Achille piè veloce e della tartaruga di Zenone di Elea, per dire che “Achille (Messi) ha finalmente raggiunto la tartaruga (il titolo mondiale)”. Suggerirei a quel giornalista di lasciar perdere i paradossi di Zenone, che non hanno assolutamente il senso elementare che ha voluto intravedere. A ognuno il suo mestiere, come sempre.

Sto parlando dell’hispanidad di quando la grande potenza di Carlo V imperava sui mondi e anche nell’Italia meridionale e a Milano. Penso all’hispanidad del puntiglio di frate Cristoforo giovane che uccide chi non gli dà il passo perché lui è un hidalgo e l’altro è un c.zo qualunque (come disse qualche secolo dopo il marchese del Grillo, Alberti Sordi voce), nel racconto del nostro grande Don Lisander de Milàn.

Non dell’orgoglio di quella cultura che è grande, perché è una declinazione fondamentale della latinità, capace di epiche imprese insieme con dannate vicende coloniali. Ecco: della migliore cultura ispanica mi sembra che Diego Armando Maradona sia un rappresentante inimitabile, magari assieme con don Cristobal Colòn, non a caso un genovese ispanizzato, così come don Diego è stato un argentino napoletanizzato, en el bien y en el mal. Paragoni e paradossi.

Messi non-è-Maradona come uomo. E questo è scontato. Non ha di Diego la sanguigna capacità di appartenenza al popolo e ai capipopolo, come capopolo; Messi è popolare, ma non parla la lingua del popolo; il suo castellano-argentino idiomatico è incerto, la sua voce quasi afona, non esprime concetti percettibili e intelliggibili; fino a questi mondiali non avevo presente il timbro della sua voce, come peraltro di quella di dom Cristiano de Madeira.

La cosa che meno mi è piaciuta di lui, alla consegna del trofeo, è stato l’indossamento prono della orrida vestaglietta da festa nero-trasparente, il così chiamato bisht, che il potente Emiro gli ha porto con autoritaria autorevolezza, in base, pare, alla tradizione saudi-emiratina. Don Diego non l’avrebbe mai accettata, perché l’avrebbe rifiutata con un gesto autorevole senza essere sprezzante, tornando a gioire con la sua maglietta bianca e celeste sporca di fango, perché nel 1986 in Mexico i campi di calcio erano anche fangosi.

A parziale giustificazione di Leo potrei ricordare la seguente parabola matteana 22, 10-14:

(…) 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Ecco, forse Messi ha inconsapevolmente rispettato questo costume vicino-orientale, presente nella Bibbia ed echeggiato nel Corano. Forse… anche perché l’Emiro è anche il suo “datore di lavoro a Paris”.

La Dieci albiceleste per Maradona era come una seconda pelle, come l’azzurra del Napoli Football Club, dove aveva la sua seconda casa del cuore.

Il calcio non è solo un gioco oramai miliardario, che interessa tutti i popoli del mondo, ma è anche un fenomeno da studiare sociologicamente e con gli strumenti della psicologia sociale, dandogli la giusta importanza, per la capacità che ha quel mondo di svelare, non solo gli intrighi qatarini con i loro riflessi brussellesi, ma anche la verità di persone vere, forti, autentiche, come Sinisa Mihajlovic, che Dio l’abbia in gloria.

Esempi, ancorché imperfetti (come è umano che sia), per i giovani.

Un’ultima considerazione per chi ha raccontato il mondiale del Qatar: accanto a narrazioni bellissime e ai riflettori sui diritti umani calpestati in quel luogo e tutt’intorno, anche dalla FIFA (che il signor Infantino si vergogni e con lui Michel Platini, suo predecessore e tutti quelli che hanno “venduto” il mondiale), non dimentico e condanno le esagerazioni cronachistiche e dei commenti. Una per tutte: la vergognosa similitudine di tale signor Gabriele Adani, che ha paragonato le azioni calcistiche di Messi a ciò che viene raccontato nel capitolo secondo del Vangelo secondo Giovanni, dove si narra del miracolo di Cana. Poveretto. Non blasfemo, solo misero.

Malversazione, concussione, in latino “de repetundis”, cioè ricevere denari in cambio di favori, corrompendo altri soggetti che, o si fanno corrompere, oppure si propongono di corrompere

Arrivano tristi notizie da Bruxelles. Italiani indagati per avere accettato denari da potenze estere allo scopo di sostenere certi interessi. Cosa non nuova nel mondo della politica e della rappresentanza, con il contraltare talora complice dell’economia.

Sulla Treccani troviamo la seguente definizione di questi fenomeni: Illecito penale distinguibile in diverse ipotesi: a) corruzione del cittadino da parte dello straniero (art. 246 c.p.): delitto contro la personalità dello Stato commesso dal cittadino che riceve o si fa promettere, anche indirettamente, dallo straniero denaro o qualsiasi utilità, o si limita ad accettarne la promessa, al fine di compiere atti contrari agli interessi nazionali; b) (omissis); c) corruzione di pubblico ufficiale (art. 319 c.p.): accordoo fra funzionario pubblico e privato cittadino in base al quale il primo accetta dal secondo un compenso non dovuto, o la relativa promessa, per compiere (art. 318 c.p.), ritardare o aver ritardato, omettere o aver omesso (art. 319 c.p.) un atto d’ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio. Entrambe le disposizioni si applicano anche all’incaricato di pubblico servizio, ma nelle ipotesi di cui all’art. 318 soltanto se egli rivesta la qualità di pubblico impiegato.

Anche per queste reali fattispecie commettibili, il legislatore italiano ha emanato il Decreto legislativo 231 nell’ormai non più vicinissimo 2001, concernente la responsabilità amministrativa dei soggetti economici e di tutti coloro che ivi lavorano, in base alle responsabilità assunte negli organigrammi. Una responsabilità che prevede il rispetto delle leggi vigenti, di tutti i livelli, e la previsione della commissione di possibili reati.

Si tratta di una legge che non prevede, un po’ stranamente, la sua obbligatoria applicazione, perché i soggetti economici possono anche non scegliere di darsi il Modello organizzativo e gestionale previsto dal Decreto legislativo 231. Da quella data, però, un numero sempre maggiore di aziende si è dato il Modello, scegliendo di non avere nulla da nascondere, né agli istituti di controllo pubblici, né alla Magistratura e alle forze inquirenti.

Sono personalmente coinvolto in una decina di queste aziende, nelle quali presiedo l’Organismo di Vigilanza previsto dal citato Modello. Ho anche contribuito a redigere il Modello stesso, per cui ne conosco ogni aspetto e caratteristica. Mi sono occupato soprattutto della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ma anche dei comportamenti degli amministratori, suggerendo modifiche e attenzioni.

Di fronte a ciò che si sente da Bruxelles mi è venuto subito in mente che anche i Partiti, protagonisti principali del malaffare scoperto in Italia circa trent’anni fa, farebbero bene a preveder di darsi un Modello organizzativo e un Organismo di Vigilanza autonomo (non bastano i probiviri!), composto da persone competenti e probe. Nei vari Organismi sono in compagnia di giuristi, economisti e tecnici della sicurezza, con i quali ci si confronta sui vari casi e situazioni concrete che avvengono nelle imprese.

Gli imprenditori e i dirigenti d’azienda si stanno accorgendo come tale Modello sia utile anche a riflettere su comportamenti e abitudini, accettando di correggere quelle non-virtuose. Il valore del Modello è anche riconosciuto dall’Inail che, alle aziende dove è presente, riconosce una sorta di “sconto” sul premio assicurativo previsto per determinati rischi infortunistici.

Mi sto chiedendo che cosa avrei fatto se mi fossi trovato in un ipotetico Organismo di Vigilanza attivo presso le forze politiche e gli Organismi dell’Unione Europea. Domanda retorica: esattamente ciò che sto facendo oramai da tredici anni di attività in materia: avrei cercato di capire che cosa stesse succedendo con un’indagine approfondita al massimo, e avrei segnalato eventuali anomalie rilevate ai vertici politico-amministrativi dell’Unione (von der Leyen, Metzola, Michel) e, se del caso, alle forze di polizia.

Mi dispiace ricordare che una delle persone inquisite è di mia storica conoscenza personale in ambito sindacale, assieme a dei personaggi che c’entrano direttamente con la sinistra politica. Mi vergogno per loro e di loro. Siccome l’inchiesta è in corso nulla intendo dire di più, augurandomi e augurando a quelle persone, nel caso in cui vengano riconosciute colpevoli di qualche reato, di avviare un percorso di resipiscenza morale, maturando anche una capacità di chiedere perdono alle Comunità che lì le hanno inviate con fiducia e rispetto.

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