Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Pensieri, parole e opere per una “sinistra nuova”, evitando – per quanto possibile – le omissioni

Sono interessato a dare un contributo, nel mio piccolo, alla ricerca di temi, argomenti, priorità, ma soprattutto valori etici e politici per una “sinistra nuova”, non per una “nuova sinistra”, sintagma che potrebbe creare qualche ambiguità o fraintendimenti. Mi piacerebbe che questa mia riflessione arrivasse anche nelle stanze dove in molti si stanno dando da fare per farsi eleggere nuovi capi del Partito Democratico. Senza false modestie, penso che potrebbe essergli utile (se non opportuno o addirittura necessario, visto che da anni (o decenni? dai tempi di Veltroni?) – da quelle parti – non si producono concetti e pensieri di filosofia socio-politica, vero Franceschini, Bersani, Orlando, Zingaretti et co.?, evitando di citare i giovani alla Provenzano, che assomigliano maledettamente ai quattro citati prima.

Storicamente, in Italia, sia la sinistra comunista sia la sinistra socialista, anche se con modalità e in misura diverse, hanno avuto come stella polare il discorso e il valore etico-politico-sociale dell’uguaglianza.

Tale valore ha poi dialogato, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, non mancando di confliggere, anche con il mondo cattolico, che per parte sua ha sempre tenuto in evidenza il sentimento e il valore della fratellanza universale tra tutti gli uomini, ispirandosi innanzitutto al biblico versetto 1,26 di Genesi “(Egli, Dio stesso) fece l’uomo a sua immagine“.

L’entimema (sillogismo abbreviato) Dio uomo genere umano, ha ispirato per millenni teorie (dottrine) e prassi dei movimenti religiosi ispirati dal Cristianesimo nelle sue tre principali declinazioni del Cattolicesimo, dell’Ortodossia orientale e del Protestantesimo, anche se quest’ultima modalità storico-religiosa si è distinta abbastanza chiaramente dalla visione cattolica (soprattutto), la quale ha conservato, nel rispetto del nome “cattolico” (che nel sintagma greco katà òlon significa secondo-il-tutto), una valenza morale pratico di universalità.

In altre parole, il Protestantesimo, come si evince dai fondamentali studi di Max Weber (cf. soprattutto L’Etica protestante e lo Spirito del capitalismo), ha evidenziato come la Grazia divina tenda a “privilegiare” (termine oltremodo impreciso) chi si dà da fare nella vita confidando nella Grazia stessa: teologicamente, sulle tracce della lezione paolina e di sant’Agostino, primo ispiratore di frate Martin Luther.

La visione egualitaria delle sinistre storiche si è dunque incontrata con la visione universale del cristianesimo cattolico, costruendo un’alleanza di fatto, soprattutto nelle prassi sociali e sindacali di tutto il ‘900, spesso addirittura in concorrenza per acquisire più adepti tra i lavoratori e nella società civile.

Esemplifico: dopo l’avvio della Guerra fredda negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, la CGIL unitaria (come rappresentanza generale della sinistra sociale), ritrovatasi, dopo il ventennio fascista, con il Patto di Roma del 1944 (mentori il grande e compianto Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore) si spaccò, prima in due parti, con la nascita della CISL (sindacato cattolico) nel 1948, e poi in tre parti, con la nascita nel 1950 della UIL, punto di riferimento delle forze laiche, come socialdemocratici, socialisti e repubblicani (nomi definitivi dopo un periodo di altre denominazioni acronimiche).

Negli anni successivi vi fu concorrenza soprattutto tra la CGIL, che era costituita da tutti coloro che nel mondo del lavoro facevano riferimento al Partito Comunista Italiano e alla maggioranza dei Socialisti (anche dell’area più radicale di Unità proletaria), e la CISL, e il maggiore tema nel quale si dialogò e ci si scontrò era il tema dell’uguaglianza salariale. In quegli anni, solo una parte della FIOM (Federazione Impiegati ed Operai Metallurgici) e la UIL sottolineavano anche l’importanza dell’inquadramento per livelli, con il quale andare a riconoscere capacità professionali diverse e a retribuirle in proporzione.

Tant’è che il mondo dei media coniò anche un termine abbastanza sgradevole nei toni e negli intendimenti per definire la comune sensibilità egualitaristica tra la maggioranza della CGIL e la CISL: andò in auge il termine “cattocomunisti”.

Solo per citare un altro fenomeno intrinseco alla sinistra politica: nei decenni tra gli anni ’60 e gli anni ’80/ ’90, si mossero anche forze di estrema sinistra, variamente denominate, che “nutrirono” gli ulteriori estremismi dell’Autonomia organizzata di un Toni Negri (cattivissimo maestro), fino alle organizzazioni della lotta armata delle Brigate Rosse e di Prima Linea (mentre a destra operava lo stragismo orrendo dei Nar e altri, una cum i servizi segreti deviati). L’onestissima “ragazza del XX secolo”, Rossana Rossanda, riconobbe negli estremismi citati un album di famiglia della sinistra italiana, che non è stata sempre – nella storia – gradualista e parlamentare.

Una nota mia personalissima: nei decenni successivi al massimo fulgore delle organizzazioni di estrema sinistra, mi sono visto sorpassare a destra da innumerevoli ex militanti duri e puri che mi consideravano, essendo io socialista gradualista, più o meno una “spia dei carabinieri”. Ricordo che quando andavo a trovare qualche amico mio, a cui volevo bene anche se non condividevo nulla della sua posizione politica, in quei “centri sociali”, che furono anche fucina di scelte individuali armate, appena mi vedevano si davano la voce (sottovoce): “attenti che arriva Renato, cambiamo argomento“.

Ovviamente si dovrebbe (dovrei) meglio specificare questi fenomeni e questi schieramenti (ad esempio, andrebbe fatto un discorso a parte sui sindacati del Pubblico impiego, dove la Cisl esercitava una sorta di egemonia, con una cultura di stampo corporativistico e conservativo, stante la concorrenza del sindacalismo autonomo), perché la realtà era molto più frastagliata, variegata e complessa. Non dobbiamo dimenticare che tra lavoratori del Pubblico e lavoratori del Privato sussistevano differenze (peraltro ancora presenti) radicali a livello legislativo ricorrenti agli ultimi due decenni del secolo precedente, quando il capo del Governo Francesco Crispi definì giuridicamente il ruolo dell’impiegato pubblico.

Proseguendo in questa analisi sintetica ricordiamo i regi decreti del 1922 sulla distinzione tra qualifiche di operaio e di impiegato, e l’istituzione di Inps e Inail nel 1933, e poi passiamo al secondo dopoguerra.

Negli anni ’60 si tentò l’unità sindacale tra le tre maggiori confederazioni, ma il progetto non riuscì, confermando una sorta di incapacità delle forze sociali di auto-riformarsi, potendosi dire che la fine del comunismo post 1989 non ha generato quasi alcun cambiamento nel sindacato, mentre alcuni partiti della sinistra sono stati smantellati dai giudici ai tempi di tangentopoli. Solo il PCI-PDS se la cavò…

Vengo al nucleo concettuale cui desidero continuare a dare spazio, sulla traccia di post immediatamente precedenti. Se storicamente le sinistre hanno sostenuto prevalentemente il valore dell’uguaglianza nella sicurezza, ora dovrebbe essere in grado di comprendere l’importanza dell’equità nella libertà, che le giovani generazioni mostrano di preferire, stanchi dell’egualitarismo collettivistico delle sinistra storiche.

Se la sinistra non riuscirà a dare centralità a questa “riforma etico-culturale”, l’importanza di un pensiero “di sinistra” sarà sempre meno significativo se vogliamo parlare più in generale dell’economia e della società italiana.

Riassumendo, l’Italia è la 3a potenza economica d’Europa, è 1a o 2a nella manifattura, 1a nel settore metalmeccanico, ma è penultima dell’aumento del Pil e ha lasciato i salari fermi da almeno trent’anni.

Mi chiedo: quante responsabilità ha la sinistra politica (i partiti) e quella sociale (i sindacati) in questo deliquio retributivo?

I lavoratori italiani, a differenza dei loro colleghi delle principali Nazioni, sono gli unici ad avere perso potere d’acquisto, nonostante il meraviglioso sistema del Made in Italy.

Le persone, e i lavoratori in primis, temono il futuro e, anche quando hanno mezzi economici, non spendono, e dunque la domanda interna crolla, mentre sul versante pubblico mancano gli investimenti e una seria riforma per la sburocratizzazione del sistema.

Può la sinistra suggerire un pensiero politico economico nuovo, di rilancio dello sviluppo? A mio parere sì, ma non deve continuare a pensare e a muoversi come sta facendo ora.

Può essere ancora attuale un pensiero socialista democratico che faccia chiarezza sul valore intrinseco delle imprese in un bilanciamento tra diritti e doveri, sia degli imprenditori sia dei lavoratori?

Domanda retorica: io ci credo, mi piacerebbe ci credessero anche quelli che stanno preparando il loro Congresso, tra dichiarazioni presuntuose e paura del cambiamento! E altri tutt’intorno.

“Rari nantes in gurgite vasto”, vale a dire: “nuotanti in un vasto gorgo” (Publio Virgilio Marone da Mantova, Eneide, si tratta del secondo emistichio di un verso – I, 118 – dell’Eneide), ovvero della necessità di un “facilitatore” nelle riunioni

Ho trovato questo classico verso virgiliano per cercare di spiegare a un amico, con una metafora letteraria, l’ambito e le difficoltà nelle quali ci si può trovare in una riunione aziendale, tecnico-politica, o anche filosofica, e perfino in una seduta di auto-coscienza collettiva, come erano solite fare le femministe “anni ’70”.

Le persone si possono trovare come se fossero in un gorgo marino o lacustre assieme ad altre, con la prima preoccupazione di non annegare (nella discussione, specialmente se essa è molto animata).

Una riunione è un “sistema complesso”, poiché moltiplica la complessità del singolo partecipante per la complessità di ciascun altro, in una dimensione non aritmetica, ma geometrica. Infatti, ogni partecipante è lì con tutto sé stesso, con conoscenze, emozioni, pretese, ambizioni…, per cui il primo pensiero che può maturare in ciascuno è quello, prima di tutto, di non sfigurare di fronte ad altri che possono essere competenti come o più di lui.

Se ciò è vero, probabilmente non sarà neanche il secondo pensiero quello di far funzionare bene la riunione, anche a costo che qualcun altro si metta in evidenza. Meglio aspettare e vedere che cosa succede. E a volte succede che, se uno prende la parola spiegando questioni tecniche su cui si è preparato bene, a un altro venga il ghiribizzo di mettere in difficoltà il primo intervenuto con una osservazione bizzarra o impertinente, comunque spiazzante.

Di solito gli altri stanno ad osservare la reazione del primo intervenuto che, se è un tipo paziente e resistente, riuscirà a controbattere con calma e convinzione le proprie ragioni, riuscendo a smontare le obiezioni pretestuose, mentre se è un tipo un po’ fumantino, esploderà mettendosi immediatamente, come si suole dire, dalla parte del torto. E gli altri stanno a guardare, un po’ per vedere come si svolge la polemica e un po’ per individuare il momento giusto per fare almeno bella figura. E a volte anche per il sottile e un po’ perfido piacere del male dell’altro.

In questi contesti, inoltre, ci sono anche quelli che non parlano mai, o perché non hanno nulla di originale e creativo da dire, oppure perché temono di essere “sgamati” nella loro inconsistenza. Di questi tipi umani ve ne sono in tutti i consessi, perché sono bravissimi a insinuarsi nelle pieghe dei gruppi di potere, ed agiscono solo quando sanno di essere più forti, e quasi solamente nell’uno contro uno. Avrei diversi esempi pratici da citare, ma evito. Magari potrei farlo in privato con qualche lettore.

Se quanto descritto è veritiero, emerge subito un’esigenza, anzi una necessità: quella di designare una figura che aiuti il consesso a discutere con ordine e razionalità: il FACILITATORE, o MODERATORE della riunione.

Il facilitatore è necessario, specialmente nei casi in cui la persona più alta nell’ordine dell’autorità e del potere giuridico presente (presidenti, amministratori delegati, direttori generali, etc.), preferisca non assolvere a questo compito, perché non gli piace o perché desidera vedere all’opera i propri collaboratori e misurarne anche in questo modo le capacità gestionali e di resistenza psichica.

Personalmente, presiedendo diversi Organismi di vigilanza ex D.Lgs. 231/ 2001 ed avendo presieduto anche importanti consessi culturali nazionali, oltre a strutture socio-politiche come i sindacati dove ho esercitato anche attività contrattualistiche in seguito mutuate nelle aziende, non ho mai avuto alcun problema a “facilitare” le riunioni, senza eccedere in direttività. Pertanto, tale ruolo si può interpretare, anche se si esercita la massima autorità tra i presenti.

Esempi: se in qualche riunione qualcuno mi anticipa per sua distrazione o mala interpretazione della propria posizione, faccio gentilmente notare che stavo per fare la medesima domanda o che mi ero già premurato di segnare l’argomento sulla bozza di verbale che solitamente ci tengo a redigere io stesso, a scanso di fraintendimenti, a meno che un altro non si proponga di scrivere lealmente ciò che viene detto. Ho esperienze di ambedue i casi.

Tornando alla figura del “facilitatore”, è importante ricordare i cinque elementi che compongono la comunicazione inter-soggettiva soprattutto nelle riunioni:

—linguaggi, cioè il “codice espressivo” —stili, cioè il “carattere o cifra derivanti dai tratti di personalità soggettivi” —modalità, cioè il “modo ordinario di comunicare e le scelte verbali/non verbali/paraverbali” —livelli di condivisione, cioè le “simmetrie e le asimmetrie delle informazioni” (tra colleghi e Direzione o Presidenza, etc.) —mezzi e strumenti operativi, cioè “telefono, computer, riunione in presenza, oppure on-line, etc.”.

Come si può constatare, ognuno degli elementi pone l’esigenza di rispettare l’importanza che assume, se si vuole che la comunicazione di concetti e informazioni, specialmente se complicati, produca risultati positivi in termini di comprensione reciproca e di avanzamento della discussione per un fine progettuale condiviso.

Se ciò non si realizza, il rischio è di produrre riunioni inconcludenti, inutilmente stancanti e foriere anche di inimicizie tra i partecipanti, specie se la comunicazione scadente ha in qualche modo (anche parzialmente) “lesionato” la Qualità Relazionale tra ciascuno e ogni altro, poiché la QR è la condizione imprescindibile per lavorare bene assieme, tra diversi, ma per un Fine condiviso.

Per tutto ciò, mi pare di poter dire che la figura di un “facilitatore” concordemente individuato, possa evitare infortuni interpretativi (cioè di ermeneutica) durante importanti riunioni di lavoro, di organismi dirigenti e societari. Ad esempio nelle riunioni dei CdA è prevista spesso la figura del segretario-verbalizzatore, che potrebbe anche fungere da moderatore, se ne ha le capacità.

Infatti, non è indispensabile che tale figura sia quella “tecnicamente” più preparata sugli argomenti che si stanno discutendo, ma deve certamente conoscerne gli aspetti principali, per discernere l’ordine degli interventi e favorirne la proposizione, come accade nei migliori esempi di dibattito pubblico governato dai giornalisti più professionali, che vengono anche definiti “moderatori”, e come deve accadere (accade) nei seminari accademici.

Nelle aziende, soprattutto, oltre che in tutti gli altri contesti, bisognerebbe avere l’umiltà di ritenere tale figura necessaria al buon andamento di ogni discussione tra diversi e/o portatori di interessi diversi.

Un delitto a Codroipo, l’omicidio di una donna e madre

Come i miei cari lettori sanno, mi occupo, tra altre attività accademiche e di consulenza etica aziendale, di relazioni intersoggettive nell’ambito della Consulenza filosofica individuale, anche come presidente dell’Associazione italiana per la consulenza filosofica Phronesis (in base alla Legge 4 del 2013 sulle professioni non ordinistiche), così chiarendo ciò che differenzia questa pratica dalle psicoterapie, pratica le cui prerogative sono le seguenti:

“La consulenza filosofica si realizza nel rapporto tra un filosofo consulente e un consultante o un gruppo di consultanti, affrontando le questioni importanti e  impegnative della vita, mediante l’indagine delle esperienze individuali. (omissis)

        La consulenza filosofica prende le mosse prevalentemente da questioni in vario modo problematiche portate dal consultante [questioni etiche, relazionali, esistenziali, relazionali, decisioni complesse, dubbi, revisioni progettuali, scelte, separazioni, lutti, cambiamenti, etc.]. Questo passaggio al consulere è esplicito e configura una variazione sostanziale rispetto ad un esercizio di pratica.

La consulenza filosofica:

  • opera sulle questioni proposte a partire dalla “messa in questione” interrogativa delle forme di pensiero, delle ragioni, dei vissuti, dei valori, delle visioni del mondo, e di quant’altro offerto allo sviluppo del dialogo;
  • riconduce il discorso del consultante ai suoi presupposti-concetti, principi e valori, in modo da far emergere la visione del mondo che essi costituiscono e le eventuali incoerenze e incongruenze con la vita;
  • a partire dal piano configurato dall’analisi dialogica e relativo alla visione del mondo del consultante, la consulenza filosofica rende possibili trasformazioni ed eventuali ampliamenti della visione del mondo del consultante
  • anche proponendo percorsi creativi, metaforici, immaginativi, aprendo scenari e prospettando alternative.

La consulenza filosofica ha il fine fondamentale di chiarire, arricchire, rendere più articolata e profonda la visione del mondo del consultante, sulla base del presupposto che discutere/discernere l’esperienza in modo chiaro, ricco, complesso e profondo sia condizione ottimale per orientarsi nel mondo.

        La consulenza filosofica riguarda l’esperienza di vita del consultante, cioè l’agire concreto in quanto connesso alle forme del pensiero.

        La consulenza filosofica pone i diversi interlocutori su un piano di parità e pari dignità, pur riconoscendo una diversità di ruolo;

        La consulenza filosofica richiede l’adesione esplicita e consapevole da parte del consultante.

        La consulenza filosofica non utilizza la filosofia in forma strumentale in vista di scopi propri di altri saperi, pratiche o discipline.

        La consulenza filosofica è contraddistinta da un generale atteggiamento di franchezza reciproca.

Nella consulenza filosofica nessun punto di vista viene accettato per via di autorità e tutte le argomentazioni, ivi comprese quelle prodotte dal filosofo, sono sottoposte al vaglio critico interno al dialogo.”

Come si può constatare si tratta di una metodica chiaramente distinguibile da altri interventi che concernano il rapporto tra pensiero e azione nell’uomo e quindi anche gli atti che questi può compiere.

L’omicidio di una donna e madre di Codroipo, come altri atti analoghi attesta come, più che la ricerca di particolari nevrosi, psico o sociopatie inerenti l’attore del crimine, che è il tipico percorso correntemente praticato, come si evince anche dai commenti dei testimoni, “ Chi lo avrebbe mai detto…. Erano così due brave persone… Come mai non ci si è accorti prima…” e via banalizzando, forse occorrerebbe prevedere l’apertura di sportelli di educazione etica e di chiarificazione sui valori esistenziali veri, progetti che potrebbero interessare le comunità locali e soprattutto le strutture amministrative del Comune, o religioso-comunitarie come la Parrocchia.

E dunque si tratta di un profondissimo tema e problema di cultura, nel quale la visione del mondo del maschio è ancora molto arretrata, prigioniera di una concezione patriarcale e arcaica dei rapporti d’affetto nella coppia. Nonostante la modernità abbia portato il comune sentire nella “cultura dei diritti” civili, sociali, del lavoro, etc., resta nel fondo dell’anima un sostrato che “permette” di pretendere, di possedere l’altro/ a, di non accettare l’autonomo esercizio della libertà individuale, che le leggi ora garantiscono, ma la psiche maschile, nel profondo, a volte non accetta.

Non dimentichiamo che le leggi civili e penali che distinguevano in gravità gli atti di infedeltà e l’omicidio se commessi da un uomo o da una donna, sgravando il maschio in modo radicale sono state in vigore fino a poco più di quaranta anni fa.

La psiche umana-maschile invece resta – per molti – nel passato.

Perciò, oltre al lavoro che possono fare e fanno i colleghi e le colleghe filosofi/ e pratici/ he, mi sono permesso di proporre qui luoghi e modalità di riflessione sui fondamenti delle vite umane, tutte, e dei valori che appartengono ad esse.

Certamente in una feconda alleanza collaborativa con psicologi, pedagogisti e psichiatri, occorrerebbe lavorare in team, sviluppando una indispensabile filiera di conoscenze sull’uomo, che nessuna specializzazione, di per sé, possiede in toto.

Capire l’Italia profonda

Mi piace ascoltare la gente, guardarla come cammina, come veste, come parla e dialoga, o litiga. Per capire l’Italia bisogna soffermarsi in ascolto, senza dare nell’occhio come un discreto passante, non come un curiosone fastidioso e pedante.

Ero a pranzo in un paese del Veneto profondo, vicino a Vittorio Veneto, zone che frequento da qualche tempo, sia per ragioni di organizzazione dell’associazione filosofica Phronesis che presiedo, sia per una presenza appena avviata in alcune importanti aziende industriali, quando la mia attenzione fu attirata dall’animato colloquio tra due uomini di mezza età, che ho in breve battezzato come artigiani titolari di una piccola impresa.

Uno dei due, in particolare, era animato dal sacro fuoco del lavoro, l’altro si mostrava più pacato e accogliente. Il primo si lamentava con foga di non trovare fresatori e tornitori, dicendo peste e corna, tra altri improperi, del reddito di cittadinanza e dei politici in generale.

Probabilmente di fede leghista, come da queste parti è maggioritario. Leghisti sono diventati negli ultimi trent’anni molti democristiani d’antàn, ma anche vecchi comunisti. Gente del popolo, dunque, delle vecchie maggioranze o minoranze… maggioritarie.

No trove gnanca un tornidor, un cal sapie portar avanti una machina. Dele nostre, te sa. Mi go comprà un tornio cal xe costà un ocjo da la testa, quasi un milion. Mi ghe lo do a un bravo e lo paghe benon, anca domila e sinquesento, siesento euro al mese neti, ma no lo catonissun su la piasa, santa Madona

E l’altro, annuendo, fa presente che lui invece è riuscito a trovarne uno, ma lo ha robà a una fabrica pi granda… dandoghe tresento euri in pi al mese.

Il primo, ancora più agitato dice che il Governo, dove semo drento anca noantri, non capise ben come se dovaria far par da una man ale fabriche e fabrichete che gavemo sul teritorio

E via avanti, finché quest’ultimo, accorgendosi che li stavo discretamente ascoltando, mi si rivolge così: “e lu, sior, capiselo i problemi che vivemo? Me par che lu ca ni scolta cusita cun atension, el sia un sior cal sa ‘ste robe. Galo cualchi nominativo de bravo tornidor o fresador?”

Un po’ spiazzato, sul momento, ma non molto, gli rispondo che son Furlàn, ma che conosco il Veneto molto bene e che mi occupa anche un po’ delle cose di cui parla lui. Ci scambiamo i biglietti da visita e lui guarda con attenzione il mio (al contrario di molti – anche gente colta – che mettono via nel taschino il biglietto da visita appena ricevuto senza degnarlo di uno sguardo), e dice. “Ma lu xe un profesòr inteletual, un cal insegna, ma al frecuenta anca le fabriche?”

Alla mia risposta affermativa si illumina e si dice contento di avermi incontrato, e che mi telefonerà, “parché mi preferiso parlar de persona, no son amigo de tutte ‘ste trapole de computer e de smarfoni, ca no me le piase“.

Se ne va salutando cordialmente il suo amico, e sorridendo a me e all’oste, che lo teneva come un buon cliente.

Non so se mi chiamerà, magari il mio biglietto finirà nell’unto di una macchina utensile, o forse no. Certo è che il dialogo tra loro e con me mi ha fatto comprendere molte cose in più del lavoro attuale e di queste nostre terre dell’estremo Nordest italico.

Voglia di lavorare senza perdere occasioni, voglia di muoversi, voglia di cercare opportunità, perché, contrariamente a quello che può pensare un burocrate incistato nella Capitale, queste piccole aziende, il cui titolare ha a malapena la “tersa media”, sono collegate con il mondo, perché magari sub-forniscono componentistica prodotta a livelli tecnologici eccelsi, note multinazionali.

Questo, molte volte la politica, ma anche le parti sociali, e anche i settori della formazione scolastica e universitaria, non conoscono bene.

Un esempio: ricordo a me e al mio gentil lettore, che gli Enti bilaterali artigiani furono un’invenzione fantasiosa di chi guidava le forze sociali negli anni ’80 e ’90. In quegli anni, da segretario regionale di una confederazione sindacale mi mossi con i colleghi e in accordo con una parte del mondo artigiano, per creare un Ente che rispondesse alle esigenze dei lavoratori e dei titolari di quelle piccole imprese. Furono costituiti due fondi, uno per il sostegno del reddito (valido fino a 13 settimane, come per la Cassa integrazione ordinaria dell’Inps) e uno per portare in una sede neutra le eventuali conflittualità fra datori di lavoro e dipendenti. Veneto e Friuli Venezia Giulia, insieme con l’Emilia Romagna furono le regioni pioniere di questi progetti, che servirono ad affrontare i momenti di crisi riducendo fortemente la drammaticità di perdite certe di posti di lavoro.

Sono orgoglioso di scrivere qui che la mia firma è presente sugli atti notarili costitutivi di quei Fondi, e che fui il primo vicepresidente dell’E.bi. Art. (Ente bilaterale Artigiano) del Friuli Venezia Giulia. Non dimentico che fui anche l’autore dell’acronimo, che mi pare assai gradevole, perché echeggia qualcosa di rinascimentale. Non scordiamoci che MIchelangelo Buonarroti a volte si firmava Michelagnolus artifex! Artefice, artigiano… artista.

Posso dire tranquillamente che conosco quel mondo artigiano, così come quello industriale, conoscenza che ben pochi politici e alti funzionari pubblici possono vantare.

Riporto anche un altro esempio “storico”, risalente alla fine degli anni ’80. Un partito assai piccolo dell’estrema sinistra di allora, Democrazia proletaria, promosse un referendum per estendere integralmente i Diritti dello Statuto del lavoratori, L. 300 del 1970, e soprattutto l’articolo 18, che tratta dei licenziamenti individuali, fino alle aziende con un solo dipendente. L’iniziativa vide contrarie, non solo le associazioni degli artigiani, ma anche i grandi sindacati confederali. La mia sigla sindacale mi affidò l’incarico di rappresentarla nelle trattative nazionali. E’ chiaro che, se il referendum fosse stato celebrato, la proposta demoproletaria, in quanto assai popolar-populista, avrebbe facilmente vinto.

Si trattava allora, per scongiurare questo rischio, come prevede la Costituzione, di far redigere una Legge che superasse lo scoglio del quesito, dando una risposta soddisfacente allo stesso, al fine di evitare il referendum.

Si discusse in sede di Commissione lavoro della Camera, quando i funzionari legislativi proposero una legge formata da un solo articolo con il quale si sarebbe esteso quanto previsto dalla Legge 300/ 1970 a tutti di dipendenti delle imprese italiane, di qualsiasi settore, comparto e dimensione fossero.

Il risultato sarebbe stato questo: la vostra parrucchiera o barbiere, con un solo dipendente, non avrebbe più potuto licenziarlo, se non per giusta causa o giustificato motivo. Una autentica imbalsamazione dello status quo, assolutamente indipendente da ogni valutazione obiettiva di merito sullo stato reale dell’azienda.

La mia meraviglia fu somma, perché compresi come quei giuristi nulla sapevano e capivano dell’Italia delle piccole imprese, quella che annovera il 90% delle strutture produttive italiane, della loro cultura e dei loro delicatissimi equilibri relazionali interni.

Allora, si concordò, partiti e sindacati, insieme con le associazioni artigiane, di predisporre un Disegno di legge per regolamentare i licenziamenti nelle imprese con meno di sedici dipendenti, cosicché fu emanata la Legge 108 nel 1989, che prevedeva una tutela risarcitoria in caso di licenziamento, vale a dire una compensazione economica proporzionata all’anzianità del lavoratore, all’anzianità di servizio e ai carichi familiari. Non sto qui a ricordare che un collega di quei tempi, poi passato rumorosamente in politica (non si ricorda talk show cui non fosse invitato), si contraddisse clamorosamente patrocinando, nella nuova veste, un referendum analogo una decina di anni dopo.

Io sono per la coerenza come virtù, non per la sua de-formazione, che è il coerentismo, ma in quel caso si trattò di una svolta a 180 gradi, che attestò un certo opportunismo e una visione di etica del lavoro assai approssimativa.

Tornando al racconto iniziale, quello dei due artigiani veneti, ebbene, da loro ho tratto l’immagine di un’Italia sana e laboriosa che costituisce la spina dorsale di questa nostra Nazione così controversa e spesso contraddittoria nelle opinioni e nella prassi politica, ma così solida negli ambiti che contano di più, quelli del lavoro e della creazione di beni da distribuire in modo equo.

Viva l’Italia e viva questo Nordest pieno di buona volontà e di genialità operativa.

STRESS, STRESS, STRESS! E’ ora di finirla con lo STRESS. NON ESISTE lo STRESS, ESISTE SOLO la FATICA se si LAVORA e si STUDIA tanto, COME è necessario!

Mio padre Pietro lavorava in cava di pietra dodici/ quattordici ore al giorno per pagare i debiti e per farmi studiare al liceo classico, la “scuola dei ricchi” che anche un ragazzo povero ma intelligente lui aveva capito che doveva frequentare.

falso stress da ricrescita

E parlo anche di me: dopo il liceo classico, quando durante le cinque estati delle superiori lavorai a portare bibite, poi, diplomato, andai a lavorare per sette anni in fabbrica come operaio, mentre studiavo scienze politiche. E poi nel sindacato e in azienda lavorai a tempo pieno continuando a studiare fino a raggiungere i risultati odierni, di 43 anni di lavoro e sei titoli accademici di cui due Dottorati di ricerca. Ora presiedo organismi di vigilanza di grandi aziende, presiedo l’Associazione italiana per la consulenza filosofica e sono docente in diversi corsi universitari. Ho scritto decine di libri e vinto premi letterari. Io, figlio dell’operaio cavatore Pietro Pilutti e della donna di servizio Luigia Bertoli.

Chi sono io? Lo Spirito Santo? Superman? No, un uomo friulano di volontà e forza incrollabili, ma non per dono gratuito, certamente per genetica, ma ancora di più per applicazione costante e abitudine alla fatica.

E ora veniamo al termine stress. Già in altri loci di questo blog ho parlato di stress, specie parlando di legislazione applicata del lavoro, ma sempre a partire dall’etimologia della parola.

Stress viene dal participio passato latino strictus, infinito del verbo stringere, cioè “co-stringere, obbligare”. Lo stress è dunque un qualcosa che ti lega, ti tiene stretto… va bene, ma che cosa significa? Significa l’impegno che ognuno di noi umani ha nella vita, se non vuole vivere di rendita e percepire il “reddito da divano di cittadinanza”, che significa prendere soldi senza lavorare.

Sono ben consapevole che, fin dall’esempio di mio padre, si può essere stressati, ma oggi si esagera con l’uso di questo termine. Mio padre non lo conosceva e neanch’io da ragazzo, per cui, né lui né io eravamo stressati, casomai eravamo stanchi, persino anche estenuati, da cadere nel sonno più profondo, ma non stressati.

Conosco bene la legislazione che si interessa dello stress lavoro correlato (art. 28 del Decreto legislativo 81 del 2008), sul cui tema ho anche diretto tesi di psicologia del lavoro, e quello stress, che può essere reale, va misurato con i sistemi psicometrici e statistici oggi a disposizione, ma cum grano salis, perdio!

Me ne occupo anche come Presidente di Organismi di vigilanza previsti dal Decreto 231 del 2001, mediante un’applicazione di una corretta Etica del lavoro e d’impresa. Figurarsi se non conosco la letteratura filosofico-giuridica e le prassi applicative delle dinamiche dello stress! Ma non esageriamo.

Oggi mi pare che questo tema si sia impadronito del linguaggio corrente, specialmente di giovani che non hanno ancora imparato la fatica obbligata dell’impegno dello studio e lavorativo, per cui occorre discutere, approfondire, per non favorire quello che mi sembra una specie di vittimismo dello stress.

Stiamo attenti: se non diamo i nomi corretti alle cose e ai fatti, rischiamo di essere vittime delle parole stesse, come se esse avessero un potere performativo negativo su noi. E’ un rischio.

E voi, ragazzi, smettetela di dire ai genitori e a chi vi vuole bene “Non stressarmi“, ma dite piuttosto “sono stanco, sono stanca, mi riposo un po’ e poi riprendo”… altrimenti lo stress può diventare un pericolosissimo alibi per non fare, e quindi per non crescere e non raggiungere alcuna autonomia, a partire da quella economica. Accettate, intanto, anche lavori precari e non rispondenti alle vostre aspettative, per allenarvi all’impegno e alla responsabilità. E alla fatica. Lo studio poi vi porterà a trovare le piste professionali che più sentite vostre, per le quali sentite una vocazione.

E voi genitori, educatori, non fatevi commuovere dalla richiesta impietosente contenuta nella espressione “Non stressarmi“, ma trovate il momento per riprendere a dialogare con i vostri giovani, figli o studenti che siano, per far comprendere loro che senza fatica non si raggiunge alcun risultato e, ciò che è più grave, non si realizza quel tanto di sé costituito dai talenti naturali che possono emergere e affermarsi solo accettando lo sforzo dell’allenamento e dello studio.

Nessun campione è mai diventato tale senza sforzo e autodisciplina, ma neanche alcun essere umano che abbia avuto la soddisfazione di realizzare i propri sogni, perché anche i sogni si realizzano solo e solamente con lo sforzo, la costanza, la perseveranza, accettando di stancarsi e di provare pena e perfino dolore.

La fatica e il dolore educano, lo stress conclamato ci rovina. Meditate ragazzi, meditate…

Parole dal carcere

Si discute, in una giornata di questo caldissimo luglio 2021, di quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, in altre carceri, e di molto altro. Il sistema pare sia un po’ questo, così come si è visto in tv e sul web. Me lo fa capire chi si trova da decenni fra ristretti orizzonti e, se pure in modi differenti, due poliziotti.

Parto da costoro. Il primo mi dice esplicitamente che, se si registrano azioni pericolose da chi fa rivolte, prima o poi ci si vendica, perché questo è l’ordine naturale delle cose. A bestia, bestia più uno, gli scappa di dire.

Il secondo, che è un graduato, mi mostra una sensibilità politica e morale che – con rispetto per lui – non mi aspettavo del tutto, dicendo che non è ammissibile eticamente che uno “strumento dello Stato” si vendichi, peraltro di persone che magari c’entrano poco o nulla con precedenti manifestazioni.

Il mio amico invece, parla di un “sistema”, cioè di una metodica che è stata introiettata nei comportamenti di chi è di guardia, ed è in qualche modo quasi “asseverata” dall’alto, checché ne dicano coloro che stanno in alto.

Come orientarsi tra queste tre opinioni così differenti? Il carcere è una istituzione totale e totalizzante, come spiegava Michel Foucault già mezzo secolo fa, e perciò in qualche misura – di fatto – al di fuori del rispetto delle norme dello “Stato di Diritto”, come quello francese o quello italiano. Epperò, come può ragionevolmente darsi un “poter-essere” al di fuori delle norme dello Stato di Diritto? Pare una contraddizione in termini.

Se uno Stato si dice di diritto, riconoscendo che le proprie prerogative giuridiche non possono eccedere quelle di ogni cittadino, in modo da metterlo in una situazione minoritaria, non dovrebbe consentire eccezioni, ovvero situazioni nelle quali ciò che significa il sintagma etico-giuridico “Stato-di-Diritto” non “funzioni”. Ebbene, non è così… e per le ragioni in base alle quali tutto, nel mondo degli uomini e nella storia, è accaduto nel corso del tempo, e ancora accade sovente e in molti luoghi e situazioni.

Il tema dei diritti è centrale da quasi due secoli e mezzo, dai tempi dell’Illuminismo francese, tedesco, italiano e anglosassone, dai tempi di Voltaire, Beccaria, Jefferson e Kant. E’ all’ordine del giorno da questo lungo periodo, perché, nonostante la chiarissima lezione evangelica, una cultura politica generale non ha saputo introiettarne il valore. In questi due secoli e mezzo i diritti sono diventati un elemento centrale delle legislazioni e della politica nella maggior parte dei paesi del mondo, dopo le crisi sistemiche dei totalitarismi del ‘900.

Ancora, però, in molte nazioni i diritti umani non sono riconosciuti, come in Corea del Nord e in Cina, ovvero dove sono negletti, ad esempio in certi regimi autoritari del Sud America, dell’Africa e dell’Europa, come in Bielorussia.

Nei paesi giuridicamente più evoluti i diritti stanno riguardando anche aspetti della vita personale fino a sfumare in un confuso giuridismo dei bisogni e dei desideri, come sta accadendo in queste settimane in Italia con gli scontri politici sul Disegno di Legge Zan, che concerne la tutela delle varie declinazioni sessuali dell’umano.

Forse il momento critico dei diritti va di nuovo valutato per rapporto ai doveri, di cui da tempo si parla pochissimo. Dovrebbe essere posto al centro in combinato disposto fra diritti e doveri, per riprendere un discorso che equilibri questi aspetti regolatori della convivenza umana.

E torno al tema carcerario della prima parte.

Comunque stiano le cose, e specialmente se si trattasse di un sistema, come mi spiega l’amico ospite di quell’istituzione da troppo tempo, i diritti umani non vanno mai negati, e dunque atti e fatti come quelli accaduti e sopra richiamati non dovrebbero avere più la possibilità di accadere.

Ma, perché vi siano speranze per una prospettiva del genere, è necessario riprendere i fondamenti etico-filosofici della Costituzione repubblicana, che all’articolo 27 parla di diritto al recupero della socialità per tutti e per ciascuno che abbia sbagliato e abbia pagato la pena per i crimini compiuti.

Anche l’ergastolo ostativo, pur misura comprensibile in un certo momento storico, oggi mostra tutta la sua evidente incostituzionalità e immoralità. Diritti dei cittadini e doveri nei comportamenti devono coniugarsi in un mix là dove la libertà di ciascuno sia contemperata al diritto alla sicurezza personale di ciascun altro, reciprocamente.

Non si dà, infatti, una libertà plausibile, se non connessa con la giustizia e la sicurezza, sempre nei limiti dell’agire umano.

Cara Saman, mi fanno pena e mi danno da pensare quelli e quelle che si stracciano le vesti dopo aver detto che “nessun bianco può dirsi non razzista e nessun maschio non persecutore di donne”… dove sono le donne (specialmente “de sinistra”, le radical chic) dopo l’assassinio di Saman? Paura di essere accusate di antiislamismo?

Il caso della povera Saman rivela ancora una volta l’ipocrisia di molto establishment intellettuale, mi duole dirlo, soprattutto di sinistra, quello delle murgie et similia. Si distingue da questo coro poco opportuno Ritanna Armeni, ma non mi meraviglio, perché Ritanna viene da lontano.

Tanta noia più che fastidio, leggere queste scrittrici, quando intervengono su temi di politica e di cultura sociale. Perché non si limitano a fare le scrittrici?

Aggiungo un altro campione del politicamente corretto: Saviano. Tutti questi illustri personaggi pubblici, con i loro mèntori presenti soprattutto nella sinistra politica attuale, nella quale trovo elementi di altrettanta noiosità: basti ascoltare Fratojanni, la De Pedis… e men male che non ho intercettato eventuali sproloqui delle sorelle Brunì de France! E Letta? Incredibile: parla dell’assassinio di Saman come di un femminicidio (horribile dictu!) simila a tanti altri. Ma sei matto, Letta? No, è un altro tipo di omicidio, quello di Saman: è di tipo religioso, “culturale”, etno-tradizionale, caratteristico dell’interpretazione letteralista dell’islam. Questo è, Letta, non fare il politicamente corretto, dai, dai!

E vengo, appunto, (per spiegarlo anche a Letta) al tema profondo che sta alla base del delitto Saman, quello cultural-religioso: quello dell’interpretazione del Ku’ran, del Corano, della Parola di Dio. Premessa: per quanto concerne le Scritture ebraico-cristiane, la storia attesta quanto difficile e lungo fu il cammino, per passare da un approccio “letteralista” a un approccio ermeneutico-interpretativo. Anche se già nel cristianesimo antico esegeti come Origene e Agostino, come i padri cappadoci, come san Basilio di Cesarea e Gregorio di Nissa proponevano, sia nei trattati, sia nelle omelie, un’interpretazione allegorica o tipologica, per cui si potevano intendere i racconti biblici come esemplificativi di una lezione moralmente elevante per gli uomini, si dovette attendere il diciottesimo secolo per una sistematizzazione scientifica dell’ermeneutica biblica. Solo in pieno Illuminismo, prima di tutto in Francia e Germania si iniziò una interpretazione delle Scritture che facesse riferimento alla storia e alla sociologia dei tempi in cui quegli antichi testi furono scritti.

Si compresero le ragioni per cui certi testi apparivano ormai tanto anacronistici, specialmente quelli relativi alle prescrizioni giuridiche, in particolare in Levitico e Deuteronomio. Si comprese come il Decalogo biblico contenuto in Esodo facesse parte di una declinazione giuridica invalsa nel Vicino Oriente antico, in Egitto e in Mesopotamia, fin da tempi del gran re caldeo Hammurapi. Leggi scritte per popoli del deserto, per popoli cui difettavano spesso le risorse essenziali per la sopravvivenza, e dunque dovevano tenere-da-conto rigorosamente i beni di cui disponevano.

Ebbene, ciò che la tradizione giudaico-cristiana ha conquistato in non meno di quasi due millenni per quanto concerne l’interpretazione dei testi, tra l’altro non dimenticando momenti di confronto altissimo con le dottrine islamiche in pieno Medioevo (!): si pensi ai rapporti fra la Scolastica di un Tommaso d’Aquino, di un Alberto Magno, di un Bonaventura da Bagnoregio e i teologi-filosofi musulmani come Averroè e Avicenna, che era anche fisico e medico.

Se noi cristiani e giudei ci abbiamo messo tanto, il “grosso” del mondo musulmano, salvo eccezioni accademiche presenti qua e là, non ha ancora compiuto il passo illuministico, per cui l’interpretazione del Testo coranico è generalmente ancora letteralista, per cui se così è prescritto, così si deve fare.

Che cosa significa allora che il padre di Saman voleva un matrimonio combinato con un cugino? In fondo, voleva che non si interrompesse il legàme di famiglia che nei secoli ha garantito di non spezzare i rapporti di produzione, la proprietà di beni, di bestiame, di risorse per garantire la sopravvivenza della famiglia estesa. Questo è: solo che la famiglia di Saman vive in Italia, dove vige una Costituzione garantista dei diritti di tutti e di ciascuno, ma questo non è conosciuto e capito da quella famiglia. Questo non gli è stato spiegato bene, né dal imam o mullahdi riferimento, né dal sistema politico-scolastico italiano.

Care donne di sinistra che state silenziose, qui non si stratta di antiislamismo, ma di politiche culturali, che una sinistra intelligente dovrebbe promuovere, altro che stare zitte con inaccettabile timidezza per paura di essere incomprese. Care Murgia e c., studiate, studiate, studiate, prima di scrivere amenità, e con questo termine sono molto caritatevole con voi.

Del Rispetto, o in che modo guardare gli altri come fossimo noi stessi, perché ogni “tu” è un “io”

(Pubblico qui l’esito di un laboratorio aziendale sul valore del Rispetto, dopo aver lavorato sull’Umiltà, e in vista di una riflessione sulla Responsabilità, etc., che ha coinvolto un gruppo di lavoratori di tutte le aree di lavoro. Non cito, ovviamente, se non con l’iniziale del nome, né i nomi e cognomi completi dei partecipanti, né il nome dell’azienda, che è friulana)

Il gruppo dedicato al tema del rispetto ha lavorato, mi pare, con gusto e proattività per tre incontri seminariali. F,, N., T., F., A. e M. sono stati presenti sempre nel lavoro comune, che cerco di riprodurre in questo testo.

Come al solito, mi piace proporre l’etimologia di una parola, prima di ogni approfondimento sul suo significato corrente e sul suo uso.

E dunque: “rispetto” deriva dal verbo latino re-spicere, che vuol dire “guardare di fronte alla stessa altezza”, e quindi non “dall’alto in basso” o viceversa, gesto che tutti conoscono, e che solitamente si apprezza poco. Si pensi subito a quante sono le occasioni nelle quali quel guardare (perché siamo tolleranti) con sufficienza mette a repentaglio la qualità relazionale dei rapporti inter-soggettivi e di gruppo, in azienda e fuori.

A volte si ritiene che nel rapporto con gli altri basti il sentimento di tolleranza, poiché spesso ci sentiamo superiori agli altri.

            Ma è impossibile andare avanti insieme solo con la tolleranza e tantomeno con il sentimento di “sufficienza”, e, se non vi si rimedia, il rischio è di creare danni irrimediabili ai gruppi di lavoro e alla collaborazione fra colleghi.

            Il rispetto è un modo-di-fare e di-dire che supera ciò che si chiama “tolleranza”, la quale è proprio un “guardare dall’alto in basso”. Anche il latifondista ottocentesco, oppure il padrone della ferriera di primo ‘900 potevano essere tolleranti e perfino magnanimi con i propri dipendenti, ma in un modo che, non solo sottolineava la differenza di ceto, ma soprattutto il divario di potere reale fra i due soggetti, indipendentemente dal valore intrinseco di ciascuno.

            Molti ritengono che la tolleranza sia una virtù straordinaria, ma è solo una virtù mediana, che abbisogna di uno sviluppo, appunto, verso la maturazione del rispetto

            Il rispetto è soprattutto frutto ed esito dell’educazione che si è ricevuta, anzi, che si è maturata, perché l’educazione non è propriamente un insegnamento introiettato nella mente e nella memoria, in modo da ispirare i comportamenti quotidiani, ma è una crescita interiore, una crescita di tutta la propria struttura di personalità.

            Come al solito caso partiamo dall’etimologia. Così come il termine rispetto anche “educazione” è un lemma che nasce da un’espressione verbale, da una preposizione latina e/ ex, cioè da, e dall’infinito del verbo ducere, che significa condurre. E-ducere è dunque un “condurre-fuori”… un qualcosa (sempre che si abbia qualcosa dentro da condurre fuori). L’educazione è il frutto di un percorso mentale e morale continuo, che ha (deve avere) il suo inizio nell’infanzia. Se in quell’età dello sviluppo mentale e fisico (struttura della persona), non vi è un “accompagnamento” alla crescita a cura dei genitori e degli insegnanti, che contribuiscono a dare-struttura alla personalità individuale (si ricordi la Tabella che abbiamo costruito assieme durante gli incontri laboratoriali), non si crea il “terreno di coltura” spirituale per maturare un atteggiamento di rispetto verso gli altri.

Proviamo ad approfondire ancora un po’. Perché di solito trattiamo gli altri, oppure giudichiamo solitamente le loro azioni e parole più severamente di quanto facciamo quando riflettiamo sulle nostre azioni e sulle parole che pronunciamo? È abbastanza semplice e intuitivo, ma non ce lo diciamo mai, in quanto proprio “non ci viene”. Ed è naturale, perché siamo condizionati dal nostro “io”!

            L’altra persona è sempre un “tu”, grammaticalmente un complemento oggetto, un elemento del discorso dove il nostro dire e agire termina, va-a-finire, facendo andare avanti le cose della vita. La vita è costituita essenzialmente dal rapporto che abbiamo con gli altri, a partire dalle persone con le quali condividiamo le nostre vite private. E ciò parte dai rapporti genitoriali e familiari, e quasi immediatamente anche dai rapporti che si hanno con i propri insegnanti, dalla scuola dell’infanzia all’università.

            Poi inizia la vita di lavoro, e incontriamo titolari, dirigenti e colleghi. Sono tanti “tu”, tutti diversi e unici a questo mondo (caro lettore, ricordati sempre la tabella studiata assieme, quella che distingue fra “struttura di persona” e “Struttura di personalità”).

Per finire, cari lettori e lettrici, vi racconto un fatto personale. Ogni mattina, proprio tutte le mattine, mi ripeto che le due donne mie conviventi, Daniela e Beatrice sono degli… “io”, non solo dei “tu” dove hanno conclusione le mie azioni e giungono le mie parole. È un esercizio “culturale” che devo ripetere, per convincere la mia mente che loro due sono-come-me, in dignità e valore, e  che meritano RISPETTO.[1]

           Altrettanto dovremmo cercare di fare sul lavoro, in L. Spa, dove agiscono una quarantina di “io”, tutti “centri del mondo”, che devono diventare consapevoli che ogni altro è un “centro del mondo”. Sono riuscito a spiegarmi?

(Prof. Renato Pilutti)


[1] Chi volesse approfondire questi temi, cerchi sul web le biografie e i testi di due grandi filosofi del ‘900: Emmanuel Lévinas, un ebreo lituano di cultura francese, studioso del “volto dell’altro”, e Martin Buber, un ebreo austriaco, che ha approfondito il rapporto fra “IO” e “TU”.

“Ma lei… è ancora qui?”

Con questa domanda giorni fa iniziava la visita ortopedico traumatologica di controllo alle mie vertebre dorsali ferite dal tumore oramai quasi quattro anni or sono, tuttora origine di dolori non banali, che contrasto con farmaci e ginnastica, e (spero presto) antalgica in piscina.

Trasecolo, ma solo per un attimo – quasi incredulo – perché non mi manca la parola pronta, come sai gentil lettore, e rispondo: “Caro dottore, lei ha vinto il premio nazionale per la miglior battuta dell’anno. Venerdì pomeriggio, quando avrò il Consiglio direttivo nazionale della Associazione filosofica che presiedo, proporrò ai colleghi e alle colleghe la sua battuta e la mia risposta per chiedere un loro parere esperto.”

La frase di quel medico (che qui non nomino, anche se la tentazione di farlo è forte) è stata senz’altro filosofica, e della più bell’acqua cinica, non di un cinismo classico à la Zenone di Cizio, ma di un cinismo contemporaneo, intriso di disincanto e di stanchezza. Certo, lo stress di questo periodo nel settore sanitario nel quale quel dottore opera, credo da decenni, visto che è più o meno un mio coetaneo, è molto forte, quasi insopportabile.

Peraltro, nel prosieguo della visita, l’ortopedico traumatologo mi presta una grande attenzione, spiegandomi il senso e il significato dei referti cartacei e informatici, come forse nessun altro specialista prima di lui (senso di colpa?), e consigliandomi piscina, nuoto a dorso e… pazienza. Lo ringrazio e gli lascio perfino un piccolo dono letterario. Indovina quale, caro lettore… se non una copia di Rizko con dedica?

Naturalmente l’episodio mi fa riflettere usando la nostra, umanissima, arte filosofica. In realtà, la sua battuta, in assoluto, non è stata peregrina, poiché il mio tipo di tumore ematologico, fino a non molti anni fa lasciava poche speranze, ma oggi esistono farmaci e metodiche terapeutiche che permettono di andare avanti nella vita, con l’uso delle staminali multi-potenti risanate e opportuni antidolorifici, ginnastica e piscina e, soprattutto, coraggio e determinazione spirituale. Ricordo ancora la risposta acutissima che diede la dottoressa ematologa che mi diagnosticò il male, alla mia domanda frontale sulle speranze di vita… “Lei potrebbe vivere anche per tutto il tempo previsto (previsto? da chi?!) se non fosse stato colpito da questo male“. Metafisica, pura metafisica, e realissima intelligenza.

La domanda di quel medico disincantato però pone il tema fondamentale della nostra precarietà di esseri umani, della nostra fragilità strutturale. Siamo qui per ragioni che sfuggono ab initio alla nostra volontà, stiamo a questo mondo per un tempo, e infine ce ne andiamo all’altro (mondo), sempre che crediamo all’immortalità dell’anima. Altrimenti un mucchietto di fosfati più o meno grande, e amen. certo, E le nostre opere, se sono state abbastanza buone, in un ricordo che piano piano si attenua, anche se forse oggi, con il mondo del web così pervasivo, restano di più a disposizione del pubblico. Un blog, se qualcuno paga la modica cifra annuale di poche decine di euro di abbonamento, resta lì per sempre… più o meno, certamente non viene implementato, ma rimane a far parte della biblioteca virtuale cui può accedere un tuo amico, ma anche un giovinetto che frequenta le scuole medie nelle isole Tonga. Infatti, quando ho voglia, rovisto nelle statistiche delle visite al mio blog, che non calano mai sotto la cifra di due o tre mila alla settimana. Mostruoso: migliaia di persone che leggono qualcosa scritto da me in sette giorni.

Cero, è pochissimo, se confronto questi dati con quelli di una influencer come Chiara Ferragni, che è più interessante di me, ma ciò non mi genera alcuna gelosia, poiché la sottocultura cui appartiene la ragazza (che per me non è neanche bella) mi è distante un milione di galassie, gaussianamente parlando: chi dialoga con questa donna non ha nulla con me a che fare, se non l’appartenenza al genere umano. Un po’ poco.

Torno alla precarietà della vita: Precarietà deriva, come decine di migliaia di parole italiane, dal latino classico, e segnatamente dal verbo precor (prego), da cui il sostantivo precarius, cioè uno-che-prega.

Il precario è dunque, prima ancora di essere un tale in bilico tra l’insicurezza e il suo contrario, esistenzialmente (e anche economicamente) parlando, è un orante, vale a dire uno che, invocando il “Divino”, così si rende conto dei propri limiti, dei confini segnati dalla sua propria debolezza di umano e dal destino, che è un “oggetto” concettuale co-costruito dalla sua libera (più o meno) volontà, e dalle circostanze che vive e incontra.

Pulvis es et in pulverem reverteris, recita l’antico tropo liturgico: polvere sei e in polvere ritornerai, ma meglio più tardi che subito, cosicché al caro dottore, semmai mi capiterà di rivederlo, la prossima volta, se gli scapperà di ripetere l’inopportuna domanda, che senz’altro mi formulò – come sopra scritto – sopra pensiero, risponderò: “Ebbene sì, caro dottore, sono ancora qui, su questa terra, contento di rivederla… e lei, ancora qui?”.

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