Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate

Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.

Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.

Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.

C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.

Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei MykoianMig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.

Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?

Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).

Et de hoc argumento, satis.

Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?

In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.

E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.

Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.

Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.

Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!

E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.

Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?

Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.

Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.

Continuo con le domande…

E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).

Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?

Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?

Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

“Gelosia” vs. “Invidia”: vizi? L’invidia senz’altro: secondo la dottrina morale classica è, dopo la superbia, il vizio più grave. La gelosia invece non lo è, se non quando è esagerata e può impedire la crescita di persone meno esperte, nel lavoro e nella vita, oppure quando pretende di avere il dominio su un’altra persona

Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.

San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).

Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.

Power Point

La PRESUNZIONE è un sentimento che produce ogni tipo di VANTERIA, e si trova anche in persone celebrate, ad esempio in Umberto Eco, cui ho sentito dire, a suo tempo (le registrazioni video, come tutto ciò che appare sul web, possono diventare una maledizione), tra molte considerazioni interessanti e acute, anche alcune stupidaggini. Nessun uomo è esente da errori: la differenza morale la fa l’atteggiamento dell’uomo che sbaglia, verso i propri errori, accettandoli come limiti e cercando, se possibile, di rimediarvi

In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.

Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.

Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…

semiotica e semiologia

…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;

…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?

…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;

…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;

…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;

…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).

Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.

Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.

Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.

La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.

Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.

Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.

Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a SignsLanguage and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.

Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.

In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).

La Profezia. “Ingravescente aetate…”, così nel febbraio 2013 Papa Benedetto XVI (“al secolo” ProfessorJoseph Ratzinger), rinunziava al “Ministero petrino” come “lavoratore nella vigna del Signore”. Ora è oltre la porta oscura della morte, nella Visione beatifica. Con rispetto, ammirazione e riconoscenza scrivo di lui

Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino“. (Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, annunciò in questo modo la rinunzia al Ministero papale il 28 febbraio 2013.)

Parto da questa dichiarazione per parlare un po’ di Joseph Ratzinger, studioso e docente di Teologia tra i più importanti della contemporaneità, presbitero e vescovo, e infine pastore per otto anni, dal 2005 al 2013, della Chiesa universale: uso quest’ultimo aggettivo, perché dice perfettamente il senso e il significato etimologico dell’aggettivo “cattolica”.

Serve innanzitutto un po’ di storia ecclesiastica: prima di lui solo questi altri papi si sono “dimessi” (qui utilizzo un termine molto impreciso), o sono stati – più spesso – “licenziati”, anzi eliminati dal potere politico, a volte in situazione ambigue, se non estremamente negative:

  • papa Ponziano si dimise perché condannato ad metalla, cioè ai lavori forzati, nelle miniere in Sardegna da Massimino il Trace nel III secolo d. C.;
  • papa Silverio fu spogliato del suo abito episcopale nel 537 e condannato all’esilio nell’isola di Ponza;
  • agli inizi del 1045, papa Benedetto IX fu cacciato da Roma e sostituito da papa Silvestro III; quindi con l’aiuto della sua famiglia e dei Crescenzi il 10 aprile 1045 tornò papa per poi vendere, per 2000 librae, la dignità pontificale al presbitero Giovanni Graziano, suo padrino, che così divenne papa Gregorio VI; lo stesso, su pressioni dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III di Franconia, fu invitato a confessare l’acquisto finanziario del Papato e ad abdicare dopo appena un anno; siamo nel periodo nel quale il papato era oggetto di dispute (talora infami) tra i principi e i nobili romani e l’Imperatore germanico;
  • papa Celestino V, Pietro di Morrone, inesperto nella gestione amministrativa della Chiesa (era stato monaco per tutta la vita), rinunciò il 13 dicembre 1294 con una bolla, che si dice fosse stata redatta dal cardinale Benedetto Caetani, che gli succedette con il nome di papa Bonifacio VIII;
  • papa Gregorio XII, il 4 luglio 1415 rinunziò all’ufficio di Romano pontefice al fine di ratificare, per intervento dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, con il Concilio di Costanza la fine dello Scisma Avignonese d’Occidente.

Ripeto e sottolineo: la rinunzia di papa Benedetto XVI è radicalmente e completamente diversa dalle “cessazioni” sopra riportate.

Le NORME CANONICHE

Il giurista Giovanni Bassiano sosteneva che la rinunzia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere», cioè “che il papa possa cambiare religione oppure possa cedere per malattie, invecchiamento e troppa responsabilità”.

Il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Bassiano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.

Le Decretali di papa Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, cioè per un’ignoranza teologica, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit», cioè “colui che il popolo udì dare scandalo”) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinunzia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, cioè “zelo di una vita migliore”, già ritenuto ammissibile da altri canonisti.

Nell’immediatezza della rinuncia di papa Celestino V, altri interventi di canonisti, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, i teologi parigini della Sorbonne Magister Godefroid de Fontaines e Magister Pierre d’Auvergne, avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Jacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una horrenda novitas, avendo favorito le successioni degli “anticristi” Bonifacio VIII e Benedetto XI.

Successivamente alla rinuncia di Celestino V, papa Bonifacio VIII emanò la Costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917, sotto papa Benedetto XV.

Il Codice di Diritto canonico, o Codex Iuris Canonici, del 1983, al Libro II “Il popolo di Dio”, parte seconda “La suprema autorità della Chiesa”, capitolo I “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”, contempla la rinuncia all’ufficio di romano pontefice.

Can. 332 § 2. Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.

«Can. 332 – §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.»

La BIOGRAFIA

Joseph Ratzinger nasce in un paesino bavarese sul fiume Inn nel 1927 in una famiglia modesta. Studia per diventare sacerdote, ma non si ferma, perché va avanti fino a un difficile e profondo Dottorato in Teologia sul concetto di Amore-Caritas-Agàpe in sant’Agostino. A un ufficiale nazista che gli chiede, lui giovanetto diciassettenne arruolato di forza nella guardia contraerea, che gli chiede che cosa vorrà fare da grande, alla sua risposta “Il prete“, ribatté “Non ci sarà posto per i preti nel nostro mondo“.

E’ professore, prima nel seminario di Frisinga e poi ordinario di Teologia sistematica e fondamentale a Bonn, a Tubingen e infine a Regensburg, Ratisbona. Lo sorprende la nomina a arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di papa Paolo VI e il cardinalato che gli conferisce, quasi contemporaneamente, lo stesso papa Paolo; dai primi anni ’80, papa Woytjla lo vuole alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, il ruolo che ispirò al quotidiano Il Manifesto, quando Ratzinger venne eletto papa dopo la morte di Giovanni Paolo II, una (impertinente) definizione, che potrebbe anche essere non dispiaciuta all’interessato, vista la sua affezione per gli animali domestici, e per i gatti in particolare: “Il Pastore Tedesco“. Ricordo che anch’io sorrisi, perché avevo letto di un uomo incline anche all’ironia, oltre che appassionato di musica classica e dei felini domestico-selvatici.

La TEOLOGIA

Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo vede i teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger tra i principali protagonisti, assieme a papa Paolo VI. Appena trentacinquenne, Joseph Ratzinger accompagna il cardinale arcivescovo di Colonia Frings come teologo esperto, e lavora assiduamente nelle commissioni che redigono le due massime Costituzioni conciliari, la Lumen gentium, tematizzata su ciò che la Chiesa è, il Popolo di Dio (cf. art. 1) e la Gaudium et spes, per analizzare e dialogare con il mondo nuovo che già Giovanni XXIII aveva iniziato a comprendere.

Coloro che amano le semplificazioni e non amano la complessità, cioè i pigri, attribuiscono a questo periodo una posizione semplicisticamente progressista al giovane teologo, quasi a collocare sulla opposta polarità la teologia del Ratzinger cardinale custode della fede e poi del papa Benedetto.

Non è così, perché non può essere così. In realtà, Ratzinger ha mantenuto l’agostinismo fondamentale della sua formazione nella la centralità della Caritas, Amore di Dio per l’uomo, cui il Creatore dona ciò che gli permette di comprendere il creato e di adempiere al mandato su di esso. Ratzinger, in questo modo, colloca la teologia nella tradizione culturale dei suoi tempi, accogliendo in essa anche i lasciti “laici” delle riforme intellettuali e culturali date nel tempo, e che, sempre nel tempo, la Chiesa ha fatto proprie. L’allora cardinale non è estraneo, al contrario!, alle scelte e alle dichiarazioni del suo predecessore sugli errori della Chiesa nei confronti di Galileo e della filosofia successiva, pur mantenendo al centro, come solido baluardo intellettuale, la Tradizione del pensiero agostiniano e tommasiano.

Anche ciò che è stato l’evento di Ratisbona, quando (era il 2007) papa Benedetto ebbe ad esprimersi – in quella Università dove aveva insegnato – sotto un profilo teologico-storiografico sull’Islam, e citò una polemica tra l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo e un teologo musulmano persiano sul profeta Mohamed e sulla tendenza autoritaria dell’islam. Allora fu una errata traduzione e trasmissione ai media della lectio papale a generare gravi polemiche con il mondo musulmano, che poi cessarono quando papa Benedetto approfondì il dialogo inter-religioso, parlando con il Gran Muftì di Istanbul e con il Rettore dell’Università Al Hazar del Cairo, e con altri leader musulmani. Forse “qualcuno” avrebbe dovuto aiutare il Papa a tarare il suo discorso in modo meno accademico e più pastorale, da Papa. Benedetto XVI, purtroppo, non aveva “aiutanti” del livello del cardinale Agostino Casaroli, che invece papa Woytjla ebbe a disposizione. E questo dicendo, desidero lasciare intendere anche ciò che deve essere inteso.

Ratzinger, ovviamente, era ben conscio che anche il cristianesimo per quasi due millenni non è stato esente da autoritarismo e confusione con il potere politico. Non ha mai avuto bisogno il professor Ratzinger che gli si spiegasse “Porta Pia, Roma 1870”! O che fino all’elezione di Pio X, papa Sarto, le potenze cattoliche, come l’Impero Austro-Ungarico ebbero voce in capitolo nell’elezione del Pontefice.

Da un punto di vista della fede, Benedetto XVI non ha mai proposto altro che questo insegnamento, valido per ogni uomo di buona volontà, sia per il credente, sia per l’agnostico e l’ateo: “Vivi etsi Deus daretur…, cioè vivi come se Dio ci fosse”, oa anche “come se Dio non ci fosse (non daretur)”, da cui si comprende bene come l’etica della vita umana e sociale deve essere aperta fraternamente all’altro, anche solo in base all’umana sapienza, che però la Fede illumina e sostiene.

La FILOSOFIA

Nutritosi della filosofia cristiana, a partire da Agostino e Bonaventura da Bagnoregio, ma non disattento alle filosofie contemporanee, Joseph Ratzinger si è mosso teoreticamente soprattutto sui temi del relativismo e del nihilismo, così diffusi e presenti nel pensiero, ma soprattutto negli stili di vita contemporanei. Su questo, papa Benedetto ha ripreso la posizione filosofica di papa Woytjla, che era imbevuto di un tomismo aperto alla fenomenologia di Husserl, e anche all’esistenzialismo cristiano di un Maritain e di un Mounier, non trascurando nemmeno Heidegger e Jean-Paul Sartre. La “lotta” ratzingeriana al relativismo non ha mai avuto nulla a che fare con il rifiuto della scienza moderna, che anzi è stata da lui ritenuta il dono di Dio sviluppato nel tempo dell’uomo. Fides et Ratio, Fede e Ragione, come ali per una capacità di usare tutti i beni dello spirito donati dal Creatore.

Il professor Ratzinger non confondeva certo il “relativismo” filosofico innervato di scettico cinismo di certe visioni economico-politiche del nostro tempo, con l’esigenza di comprendere e di studiare che tutto-è-in-relazione, dall’infinitamente piccolo delle particelle sub-atomiche (papa Benedetto era un ottimo lettore di saggi di fisica e di genetica), alle strutture più grandi: l’uomo e le cose della natura e del mondo. Il tema della complessità era vicino al suo modo di intendere l’uomo, nella sua conformazione antropologica ed etica, e quindi era tutt’altro che un conservatore reazionario! Questo giudizio, ripeto, appartiene solo ad osservatori pregiudizievoli e intellettualmente pigri.

Non è mai stato un conservatore né tanto meno un reazionario. Per lui l’illuminismo è stato generato dal Vangelo, così come tutti i saperi contemporanei. Difensore della Fede e della Ragione.

I TESTI

Non serve ricordare qui tutti i suoi testi accademici, sempre originali e profondi, salvo magari il trattato Io credo, che utilizzò nel corso di teologia fondamentale tenuto a Tubingen, ma non posso non citare la biografia storico-teologica di Gesù di Nazareth, in tre volumi, che ho letto con piacere, perché unisce la serietà dei fondamenti storico-critici relativi alla figura del Maestro nazareno, che è Gesù il Cristo, a una scorrevolezza narrativa che serve ad invogliare alla lettura anche chi specialista o interessato alla teologia non è. Il papa racconta Gesù con precisione, affetto e rispetto per i documenti cui fa riferimento, e per i fondamenti dottrinali della Teologia cristiana.

Le Encicliche: Deus Caritas est, Spe salvi e Caritas in Veritate. Papa Benedetto torna ancora nelle due encicliche al tema dell’Amore-Carità, che diventa il Nome di Dio stesso e anche la misura della qualità del rapporto tra gli esseri umani, come si legge nella Prima Lettera di Giovanni apostolo. Chi mi conosce sa quanto ci tenga, nel mio lavoro e nelle mie docenze, a parlare di Qualità relazionale: ebbene, ho trovato e trovo spesso in queste due Lettere di papa Benedetto ispirazione e suggerimenti che vengono colti anche da persone di formazione prevalentemente tecnica, le quali, però, riescono a percepire l’afflato umano che deve esserci e vivere nelle comunità, in tutte le comunità, comprese le “Comunità di lavoro”, che sono le aziende moderne.

Un altro aspetto è quello del valore dell’amore fisico tra gli esseri umani, tra l’uomo e la donna. Ebbene: proprio, voglio dire, alla faccia di coloro che collocano Ratzinger su una posizione retrograda, costoro leggano bene la Deus Caritas est, cioè Dio è amore, là dove troveranno riferimenti teologici e pratici al Cantico dei cantici, che è un esplicito poema erotico, interpretabile certamente con la chiave letteraria dell’allegoria poetica, e quindi rinviano all’amore di Dio per il suo Popolo e di Gesù per la Chiesa, che è il Popolo di Dio, ma anche, esplicitamente, all’amore umano e a un uso della dimensione sessuale, rispettosa, completa e arricchente per la persona.

Sotto il profilo pastorale, Benedetto XVI è stato presbitero e vescovo, ricomprendendo in questo ruolo anche il papato, che si sostanzia storicamente e canonicamente nella guida della Diocesi di Roma, ed è stato un buon Pastore, sempre attento e rispettoso per le scelte di chi ha incontrato per strada. Fu colui che, prima denunziò e poi combattè ogni deformazione morale presente anche nella Chiesa, a partire dalla pedofilia, che lui definì crimine.

Certamente diverso da chi gli è succeduto sul soglio pontificio, o nel “ministero petrino”, lavoratore nella vigna del Signore, come lui stesso si definì, presentandosi al balcone di San Pietro una mattina di primavera di diciotto anni fa.

Anche il nome che scelse diciotto anni fa, Benedetto, ha a che fare con due ispirazioni, la prima è quella di san Benedetto da Norcia, fondatore di molto dell’Europa e Patrono del nostro continente, la seconda per ricordare papa Benedetto XV, che, allo scoppio della Prima Guerra mondiale parlò, anzi, gridò di “inutile strage”.

Costante compagno di via – per nove anni – di papa Francesco, e perfino suo protettore dai detrattori di quest’ultimo.

Se come teologo è stato profondo e sottile, a volte difficile, sotto il profilo umano e spirituale Joseph Ratzinger è stato mite, umile, gentile e profondo, un uomo di Dio e del mondo.

(…) quod innocens, si accusatus sit, absolvi potest, nocens, nisi accusatus fuerit, condemnari non potest… (trad mia: …perché l’innocente, se viene accusato può essere assolto, mentre il colpevole, se non è stato accusato, non può nemmeno essere condannato) (“Pro Sexto Roscio Amerino, xx”, Marcus Tullius Cicero)

Brocardi e latinismi giuridici, come quest’altro seguente, ancora più interessante: Nulla lex innocentem punit. sed puta, se vis, hunc innocentem condemnari licuisse: certe non oportet (trad. mia: nessuna legge punisce l’innocente, ma prova a pensare, se vuoi, se fosse lecito condannare l’innocente, certamente non sarebbe giusto). Quid dicis, mi amice? Che cosa dici amico mio?

Marco Tullio Cicerone

Ricorro al Diritto Romano per dire che sono contento della nomina a Ministro delle Giustizia di un liberale, come il dottor Carlo Nordio, un uomo di legge garantista secondo quanto il Diritto Romano già proclama da oltre duemila anni, e che il migliore filosofare illuminista (Montesquieu) ha confermato con chiarezza… e che anche i nostri Padri costituenti hanno ripreso con l’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana con queste parole: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (omissis)”.

Perché mi va di parlarne in questa sede? La ragione è legata alla mia esperienza carceraria di tutore legale, ma ancora di più alla mia attenzione etica più generale per la giustizia, che deve essere rigorosamente equa e capace di punire con equilibrio gli autori di reati, garantendo che la pena stessa sia eseguita, ma senza trascendere oltre; d’altro canto, riconosca i diritti delle vittime, tutelandole con rispetto, attenzione e cura. Per vittime intendo anche i condannati senza colpa, specialmente quando per errori giudiziari hanno scontato magari molti (o anche pochi, che sono sempre troppi) anni di carcere, e hanno diritto a un risarcimento pecuniario, che di per sé non corrisponde mai al dolore subito.

Si pensi che lo Stato risarcisce ogni anno circa mille persone per ingiusta detenzione, con un costo di svariate decine di milioni di euro.

Non vi è cifra ragionevolmente in grado di compensare anche un giorno solo di privazione ingiusta della libertà, che è il bene maggiore della vita dei singoli e di tutto il consorzio umano, superiore – a mio avviso – anche alla stessa giustizia sociale. In altre parole è meglio essere poveri ma liberi, piuttosto che essere non-poveri come nei regimi comunisti storici (non nell’u-topia sansimoniana o marxiana mai realizzate, appunto!), ma privati della libertà di pensiero, di parola e di movimento.

Meglio pane e salame (invece di ostriche e champagne), seduti sulla riva di un fiume, piuttosto di dover ubbidire a un regime che ti garantisce la sicurezza dalla nascita alla morte.

Già 72 sono i suicidi in carcere nel corso del 2022. Dall’anno 2000 si sono tolti la vita dietro le sbarre circa milleduecento persone. Si tratta di una specie di subdola, surrettizia irrogazione della pena di morte in un paese dove tale pena è stata abolita da settantacinque anni, con la riforma dell’articolo 21 del Codice Rocco (1930), che aveva reintrodotto la pena di morte già abolita dal Gabinetto Zanardelli nel 1880.

Riprendo il discorso generale: a) vi deve essere la certezza della pena; b) non si deve procedere ad arresti arbitrari e a detenzioni pre processo ingiustificate, se non in casi ben chiari di pericolosità dell’indagato, di fuga o di inquinamento delle prove; c) le procure non devono essere quasi “trasparenti” per i media, che possono accedere spesso a fascicoli che sono riservati per legge, per costruire “mostri” mediatici sulla stampa e in tv.

Ascoltavo qualche giorno fa per Radio radicale (emittente benemerita per il suo impegno ultra decennale dedicato al diritto alla conoscenza e per una giustizia giusta) la storia di Nunzia De Girolamo, ex deputata, che fu indagata e processata per nove lunghi anni, in base a intercettazioni di un colloquio privato a casa sua, nel quale avrebbe fatto affermazioni dubbie sulla gestione del sistema sanitario di Benevento, salvo poi essere assolta perché il fatto non sussisteva …e lei spiegava che comunque sapeva bene di essere una privilegiata rispetto alla maggior parte degli indagati che poi risultano innocenti.

Gli antichi brocardi e latinismi giuridici dovrebbero ancora ispirare la Politica legislativa in tema di giustizie e la stessa giurisdizione della Magistratura.

Mi auguro che il nuovo ministro della Giustizia, che ha già detto di voler partire con la sua attività studiando la situazione delle carceri, per poi procedere con la riforma della giustizia, il cui caposaldo, egli condivide, è la separazione delle carriere tra procuratori e giudici, così imitando la parte migliore del modello anglosassone, sia messo nelle condizioni di procedere.

Sì, proprio quello che vediamo nei thriller polizieschi e avvocatizi, là dove il giudice tratta parimenti con il procuratore, che è il pubblico accusatore, e con l’avvocato della difesa, senza commistioni pelose come quelle che spesso si notano nel sistema italiano tra i due magistrati. Il giudice deve essere veramente parte terza, senza avere nel procuratore un punto di appoggio che sbilancia il procedere del giusto processo, anche dal punto di vista psicologico e relazionale.

Un altro intervento da fare è quello dell’edilizia carceraria: tre quarti delle attuali Case circondariali (è l’eufemistica definizione della galera) sarebbero da abbattere o da ristrutturare profondamente, perché sono in contrasto, sia con lo spirito sia con la lettera dell’articolo costituzionale numero 27, che parla di possibilità di resipiscenza del condannato e di recupero sociale. Lavoro, cultura, dialogo, potrebbero essere i tre strumenti per rendere questa nostra Italia sempre più civile, visto anche che ha tra le peggiori carceri dei paesi democratici.

Circa l’ergastolo ostativo, non posso non sostenerne la plausibilità nei confronti dei criminali più efferati e non collaborativi, ma trovo che sarebbe utile “guardare dentro” con maggiore approfondimento da parte della Magistratura sorvegliante nelle biografie e negli intendimenti di condannati all’ergastolo, che, pur non collaborando, con il loro comportamento mostrano di poter provare a vivere un’esperienza esterna di comunità per ciò che gli resta da vivere, trattandosi quasi sempre di persone oramai avanti con gli anni.

Aggiungo: circa la condizione della “collaboratività” con la giustizia da parte dei condannati a un ergastolo ostativo, per poterne riconsiderarne l’applicazione rigida, forse bisognerebbe prevedere anche fattispecie più di dettaglio. Un esempio: se un ergastolano colpevole di delitti di mafia, sussistendo tuttora la mafia nelle sue varie espressioni criminali, può essere sempre in grado di collaborare con la sua organizzazione in qualche modo dall’interno, come potrebbe farlo un terrorista ex Brigate Rosse o ex Prima Linea o ex NAR, dato che queste organizzazioni sono state sconfitte ed eliminate? In questo caso, a mio avviso, si dovrebbe tenere presente il comportamento e i “valori” umani che il detenuto esprime, stando in carcere, per cui l’ostatività potrebbe venir meno.

Peraltro, se una persona del genere fosse “messa fuori” dovrebbe comunque restare in una struttura comunitaria per alcuni anni, cosicché la magistrature penale potrebbe controllarne le mosse e il livello di resipiscenza di fatto (cf. ex art. 27 Costituzione della Repubblica Italiana).

Uno strumento essenziale per affrontare i problemi di vita dei carcerati è l’approccio filosofico. La filosofia è dentro le carceri, con i suoi strumenti dialogici, ma potrebbe essere ulteriormente considerata come disciplina etica e pratica per migliorare la situazione e realizzare il progetto di riforma.

In questa situazione, come si muove la sinistra politica? Ho ascoltato l’ex ministro della giustizia Orlando lodare le parole del suo successore Nordio. Ora vediamo se il suo partito sarà conseguente nel sostenere il ministro e anche quanto già aveva introdotto Cartabia, o se si farà trascinare nel campo dei manettari cinquestelluti e travaglieschi.

Spes contra spem, semper.

Caro amico lettore, ti esorto, VAI A VOTARE!

Mi rivolgo a te in modo confidenziale, caro lettore, con il “tu”, come mi pare peraltro faccio sempre. Ma stavolta più convinto, di questo “tu”.

Il primo Presidente della Repubblica Italiana avv. Enrico De Nicola firma la carta Costituzionale

L’articolo 48 della Costituzione della Repubblica Italiana parla del diritto-dovere di partecipare a tutte le consultazioni elettorali, che siano politiche o amministrative, ovvero referendarie, in base al suffragio universale che in Italia esiste SOLO dal 1946, quando furono ammesse al voto anche le… donne!!! Evviva. Eccolo:

Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività.”

Una bella novità in tema, questa volta, è che possono votare per il Senato della Repubblica anche i diciottenni, mentre fino al 2018, alle precedenti consultazioni politiche, il limite era di 21 anni.

Forse, però, la più grande novità, prevista da una Legge dello Stato, è il cambiamento radicale dei numeri di deputati e senatori, che passano, per la Camera dei deputati, da 630 a 400, e per il Senato della repubblica da 315 a 200.

La normativa di merito è la seguente: detta legge costituzionale prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. La proposta di legge costituzionale A.C. 1585-B è stata approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati, nella seduta dell’8 ottobre 2019, in seconda deliberazione.

Anche qui, dico evviva, perché non mi convincono i critici di questa riforma, che sostengono sia avvenuta una riduzione effettiva della rappresentanza democratica. Io penso che non sia vero per la semplice ragione che basta che questa rappresentanza sia equamente distribuita fra i territori e le popolazioni, anche se, in questa tornata, il modello soffre di una legge elettorale, il cosiddetto “rosatellum” che costituisce l’ennesima fallacia (si pensi che un modello precedente era chiamato “porcellum” dallo stesso suo estensore, l’on. Roberto Calderoli della Lega che, dopo averlo scritto, si accorse “che faceva schifo”, parole sue, più o meno come l’attuale “rosatellum“); per la cronaca tra i due sistemi qualcuno ebbe anche cuore di proporre il cosiddetto “italicum“, anch’esso fortemente deficitario sotto il profilo della rappresentanza in materia di sistema elettorale.

Il sistema elettorale è comunque ancora una volta da cambiare per trovare una sintesi tra le esigenze della rappresentanza degli elettori e le esigenze della governabilità, come proponeva Craxi quarant’anni fa, morto in esilio, non più colpevole di corruzione degli altri politici del tempo.

E vengo alla campagna elettorale che è giunta agli ultimi giorni utili. Qualcuno dei partecipanti a questa campagna ha osservato come questa sia la più stupida a memoria di elettore italiano. Condivido. Stupida, sgangherata, insensata. Parto dall’ultimo aggettivo: insensata, perché avrebbe potuto svolgersi regolarmente tra cinque mesi, come previsto dal quinquennio costituzionale; sgangherata per il livello del dibattito politico; insensata perché il Governo Draghi è caduto su una impuntatura de minimis (il termovalorizzatore di Roma) attuata dall’ineffabile, per me insopportabile, mediocrissimo, dandy foggiano, cioè Conte, supportato dal ghignante ignorante improvvisato scappato di casa segretario della Lega, e dalla tiepidezza di Berlusconi.

Non cito Meloni, perché – coerente nel tempo – questa donna, che spero non diventi Capo del Governo, ma se lo diventerà sarà una scelta perfettamente democratica, cari voi che contestate questa verità, ha ottenuto ciò che chiedeva da anni. Non salvo nemmeno il PD, che da quasi un quindicennio, dai tempi di Veltroni, ha guide deboli e incapaci, salvo forse il miglior periodo del primo Bersani che fece delle riforme dignitose come ministro, e della prima fase di Renzi. Zingaretti stia nel Lazio e Letta torni mestamente a Parigi. Quest’ultimo mi deprime, addirittura. Degli altri non mi curo, salvo il dire, più avanti, qualcosa del cosiddetto Terzo Polo, che è sorto in vista di queste elezioni anticipate.

Resto sulla politica. Che idee propongono i vari contendenti per la nostra (parzialmente) disgraziata Italia? Provo a sintetizzare: a destra il trio Berlusca, Meloni, Salvini propone tre idee, non molto conciliabili, perché vanno dal populismo sgarrupato della Lega, con il discorotto dei 30 miliardi cui si è affezionato il ragazzo stagionato e stazzonato di Padania, al nazionalismo arcaicizzante e ancora fascistoide di Fratelli d’Italia, fino al conservatorismo paraecumenico assai passé di Forza Italia, coalizione che probabilmente vincerà, ma… chissà dopo: voleranno stracci, probabilmente.

A sinistra abbiamo un PD ancora massiccio, ma disastrato da un’assenza imbarazzante di direzione politica: Letta ha fatto tutta la campagna elettorale teso solo a rintuzzare le posizioni della destra meloniana, incapace di promuovere una proposta di sinistra riformista degna di una appartenenza al filone socialista democratico: occuparsi più o meno solamente di LGBT e di tassare i patrimoni non mi sembrano grandi pensate. Anche il suo viaggio a Berlino è stato come un capitolo fuori tempo e luogo de La Recherche di Marcel Proust, non una iniziativa politica accorta.

I 5Stelle, oramai ex grillini e paracontiani (finché dura), sono una sinistra senza arte né parte, come la maggior parte di quelli che ivi militano. Militano? Prenderanno voti dalla parte centrale della “gaussiana” dei mediocri. Le cose che racconta il cosiddetto “avvucato del popolo” stanno tra la pura invenzione semantica e semiotica e la più pacchiana disonestà politica. Costui mente sapendo di mentire. Una vergogna tra le più grandi della storia repubblicana.

I due gruppettari della sinistra ecologista non meritano nemmeno il paragone con altri sconfittori della sinistra sinistra, paragonabili al Bertinotti che si vantava di non firmare mai accordi sindacali o d’altro genere. Bella roba, come se firmare accordi fosse un disonore, invece di costituire l’essenza della negoziazione democratica.

Devo dire qualcosa di Di Maio, transfuga dalla breve storia, forse arrivato al capolinea? Anche no. Oppure di figuri come Paragone, aggressivo come una donnola incazzata e affamata, come il “compagno” Marco Rizzo tifoso di Josip Dgiugasvili fuori tempo massimo, oppure del bel magistrato eroicamente prestato alla politica come De Magistris?

Resta, quasi infine, donna Emma da Bra del Piemonte, che conserva una sua dignità.

E per finire il Terzo Polo, guidato da due campioni di antipatia come Renzi e Calenda, due benestanti che riescono anche a pensarla giusta su tanti temi. Li voterò, ma non uscirei con loro neanche per una pizza.

Viva l’Italia!

FUTURO ITALIANO. Un’analisi o matrice strategica e organizzativa detta “S.W.O.T.”, che studi i “punti di forza”, i “punti di debolezza”, le “opportunità” e le “minacce” per l’Italia nell’attuale momento storico, potrebbe essere non solo plausibile, utile ed opportuna, ma perfino necessaria, anche se, come “strumento”, in generale c’entra nulla con la politica, che comunque così potrebbe essere aiutata dalla sociologia e dalle scienze dell’organizzazione, sostrato teorico della S.W.O.T.

Il titolo mi ispira paura e speranza, ma partiamo dall’acronimo, perché la S.W.O.T. Analysis potrebbe essere uno strumento plausibile, opportuno e utile, se non necessario, per affrontare i gravissimi problemi attuali dell’Italia, in maniera razionale ed eticamente fondata, al di fuori di ogni ideologismo. potabile e praticabile per tutte le persone intelligenti di qualsiasi schieramento politico.

Sembra incredibile, vero? Ma non è così, e in questo pezzo cercherò di mostrarlo ai miei cari lettori.

S.W.O.T. significa punti di forza (Strenghts), punti di debolezza (Weaknesses), opportunità (Opportunities) e minacce (Threats) , in inglese, ed è uno strumento utile alla pianificazione delle strategie di qualsiasi struttura organizzata, come può essere un’azienda, un reparto militare, una no profit, e perfino la… Chiesa, cosa che potrebbe essere sorprendente. Eventualmente, se troverò ascolto, mi impegnerò a spiegarlo in Diocesi, non come teologo, ma come sociologo.

Non sarebbe peregrino discuterne (almeno) anche in Phronesis.

Uno stato, paese, nazione, regione potrebbe considerare la plausibilità, l’opportunità, l’utilità o la necessità di utilizzare uno strumento del genere? A mio parere sì, ma la prima domanda che mi faccio è la seguente: è in grado di utilizzarlo il “personale politico” attuale? Dimanda retorica. No, perché è mediamente un personale politico di scarsa cultura umanistica, esperienziale e professionale.

Ben pochi tra i deputati e i senatori hanno esperienze di organizzazione e gestione d’impresa e del personale. In altri post ho proposto l’immenso, anche se incompleto, elenco degli incompetenti, a partire dai capi partito, e l’esile stuolo dei competenti, che appartiene soprattutto alle seconde e alle terze linee. Di contro, sono sicuro che molti sindaci sarebbero in grado di usare questo strumento, perché provengono dalla società civile e dal lavoro aziendale inteso nel senso più ampio del termine.

Queste sono le fasi che tipicamente vengono seguite durante un’analisi SWOT:

  1. si definisce un obiettivo;
  2. si definiscono i punti principali dell’analisi SWOT, che sono:

a)i punti di forza: le attribuzioni dell’organizzazione che sono utili a raggiungere l’obiettivo;

b) i punti di debolezza: le attribuzioni dell’organizzazione che sono dannose per raggiungere l’obiettivo;

c) le opportunità: condizioni esterne che sono utili a raggiungere l’obiettivo;

d) le minacce: condizioni esterne che potrebbero recare danni alla performance;

a partire dalla combinazione di questi punti sono definite le azioni da intraprendere per il raggiungimento dell’obiettivo, per cui si può considerare la seguente matrice S.W.O.T.

Analisi SWOTQualità utili al conseguimento degli obiettiviQualità dannose al conseguimento degli obiettivi
Elementi interni (riconosciuti come costitutivi dell’organizzazione da analizzare)Punti di forzaPunti di debolezza
Elementi esterni(riconosciuti nel contesto dell’organizzazione da analizzare)Opportunità
Minacce
  • i responsabili stabiliscono se l’obiettivo è raggiungibile rispetto ad una data matrice SWOT. Se l’obiettivo non è raggiungibile, un diverso obiettivo deve essere selezionato e il processo ripetuto;
  • se l’obiettivo sembra raggiungibile, le SWOT sono utilizzate come input per la generazione di possibili strategie creative, utilizzando le seguenti domande:
    • come possiamo utilizzare e sfruttare ogni forza?
    • come possiamo migliorare ogni debolezza?
    • come si può sfruttare e beneficiare di ogni opportunità?
    • come possiamo ridurre ciascuna delle minacce?

I FATTORI INTERNI ED ESTERNI INTERESSANTI L’ANALISI

I quattro punti dell’analisi SWOT (forze, debolezze, opportunità e minacce) provengono da un’unica catena di valori intrinseci alla società che si esamina, e possono essere raggruppati in due categorie:

  • Fattori interni: sono i punti di forza e di debolezza interni dell’organizzazione. L’identificazione di tali fattori può essere svolta attraverso un’altra specifica analisi, ad esempio una Analisi del Clima interno tra dipendenti e dirigenti
  • Fattori esterni: sono le opportunità e le minacce presenti all’esterno dell’organizzazione. L’identificazione di tali fattori può essere svolta attraverso un’ulteriore analisi.

I fattori interni possono essere visti come punti di forza o di debolezza a seconda del loro impatto sull’organizzazione dei suoi obiettivi. Ciò che può rappresentare un punto di forza rispetto a un obiettivo può essere di debolezza per un altro obiettivo.

I fattori interni possono comprendere il personale, la finanza, le capacità di produzione, e così via. I fattori esterni possono includere le questioni macroeconomiche, il mutamento tecnologico, la legislazione e i cambiamenti socio-culturali, così come i cambiamenti nel mercato e nella posizione competitiva.

Per l’Italia occorre studiare a fondo le dinamiche della concorrenza economica, industriale e commerciale internazionale, all’interno delle norme del Diritto Internazionale, civile, penale e commerciale (W.T.O.), senza trascurare l’eccezionalità del momento che registra una pericolosa guerra in piena Europa, che sta sconvolgendo gli equilibri globali.

Proviamo ad elencare i punti di forza dell’Italia:

a) la sua storia, il deposito artistico, inarrivabile a livello mondiale, l’ambiente paesaggistico, anche se maltrattato;

b) il turismo, strettamente correlato ad a);

c) l’industria manifatturiera, quarta o quinta nel mondo e seconda in Europa, ma prima nel settore metalmeccanico;

d) il sistema socio-sanitario che, nonostante alcuni difetti, è tra i migliori del mondo assieme con i sistemi del Nord-Europa…

e) il sistema scolastico: troveremo questo punto anche nell’elenco successivo, perché, accanto ad alcune eccellenze, come i nostri licei e istituti tecnici, vi è scarsa attenzione alle strutture, alla logistica e al personale docente.

I punti di debolezza, che non sono molti, ma sono importanti e anche pericolosi:

a) il primo e più importante è l’eccesso di procedure burocratiche che frenano l’attività economica e gli investimenti;

b) come sopra detto in e);

c) la contrattualistica del lavoro la quale, essendo storicamente e culturalmente dicotomica tra impiego privato e impiego pubblico ha creato, soprattutto con le norme pubblicistiche, una sorta di “cultura della pretesa”, per cui molti confondono uno dei diritti costituzionali principali, quello al lavoro: in realtà, in molto del comune sentire “il diritto al lavoro” viene implicitamente inteso come “diritto al posto di lavoro”. Il posto di lavoro esiste solo se altrettanto si dà il lavoro, non viceversa!

d) alcuni elementi di quello che si può definire, socio-antropologicamente, “carattere nazionale”, che poi si deve declinare per aree e macro-aree, ché un siculo non è un veneto: il “carattere nazionale”, pur manifestando caratteristiche di enorme creatività, che hanno “fatto” l’Italia proponendola come una delle Nazioni più “evidenti” del mondo, a volte non la “onorano” del tutto. Lo sport è uno degli ambiti che più illustrano il carattere nazionale degli Italiani;

e) la mancata o insufficiente cura del territorio, caratterizzato da un pericoloso dissesto idro-geologico.

Aggiungo infine: siccome la Costituzione all’art.11 non prevede l’uso dello strumento della guerra, se non come reazioni di legittima difesa, come nel caso attuale dell’Ucraina, s’ha da studiare per migliorare i sistemi organizzativi, logistici e militari del Paese, semplificando la burocrazia e rinforzando i sistemi formativi, non trascurandone alcuno. Su questo tema, è indispensabile superare la distinzione “gentiliana” tra discipline umanistiche e discipline scientifiche, poiché, come peraltro ho mostrato logicamente in diversi testi anche qui pubblicati, che tutti, dico tutti i saperi sono sia scientifici sia umanistici, e pertanto le scuole superiori non devono impoverire l’insegnamento delle materie classiche, e nel contempo devono essere aperte alla ricerca tecno-scientifica più avanzata a livello mondiale.

Le minacce all’Italia sono molteplici, ma molte stanno nelle debolezze intrinseche elencate più sopra. Si potrebbe quindi vincere le minacce trasformandole in opportunità, a partire dalla consapevolezza dei valori immensi dell’Italia e del suo popolo.

Vediamo ora se anche per Phronesis si può proporre lo schema. Ho già risposto affermativamente.

Proponiamo anche per l’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica Phronesis , tra altri che comunque esistono, come lo schema di Hermann, quello dei colori, ad e., lo schema dell’analisi S.W.A.T.

I punti di forza possono essere considerati i seguenti:

a) la sua storia e la cultura filosofica specificamente dedicata alla consulenza individuale e alle attività pratiche: sotto questo profilo, Phronesis, e non lo scrivo perché attualmente la presiedo e vi appartengo da tredici anni, e quindi suonerebbe come una laudatio inopportuna e falsa, non teme confronti qualitativi con associazioni più o meno tali, perché alcune di queste societates sono costituite da singole persone che “fanno finta” di avere un associazione;

b) la solidità della formazione filosofica e umanistica dei soci;

c) la varietà e la ricchezza delle “scuole filosofiche” rappresentate all’interno dell’Associazione;

d) la costanza nella ricerca di nuove prospettive filosofico pratiche, senza trascurare gli aspetti teoretici;

e) la serietà e la completezza della formazione richiesta per appartenere all’Associazione come Soci effettivi;

f) la ricchezza di cultura filosofica delle pubblicazioni e degli interventi in video e per iscritto.

Non mancano i punti di debolezza. Proviamo ad elencarli senza paura o auto censure di sorta.

a) difficoltà di dialogo e di collaborazione tra i soci, che comunque si danno, ma non abbastanza, specialmente in un momento come quello che stiamo vivendo;

b) una certa ritrosia, anche se non generalizzata, ad accettare nuove modalità operative, a volte troppo accentuando la distinzione tra una “ortodossia” (individualmente concepita) rigidamente attestata sulla “Tradizione”, e un “nuovismo”, che non tradisce per nulla la “Tradizione”, ma la tra-manda con nuove formule e strumenti. E quindi si sprecano energie e non si colgono occasioni. Un esempio: la finora scarsa attenzione per l’enorme potenziale di sviluppo delle attività della filosofia pratica nel mondo del lavoro. Non dimentichiamo mai che ogni “tradizione” (pensiamo ad e. a quella gigantesca della Parola evangelico-cristiana, oppure a quella illuministico liberale o socialista) si serve degli strumenti che nel tempo ha avuto a disposizione e coglie i “segni dei tempi” (copyright di papa Paolo VI) per l’innovazione;

c) una certa pigrizia operativa, oggi accentuata dai lockdown e dall’abitudine oramai generalmente invalsa al lavoro intellettuale on-line. Non dobbiamo dimenticare che la dimensione del dialogo-intersoggettivo-in-presenza è fondamentale e insostituibile, sia psicologicamente, sia filosoficamente, e addirittura antropologicamente. Detto ciò, s’hanno da valutare e valorizzare anche le opportunità che l’online offre per quanto concerne lo sviluppo del “mercato”, visto che questo termine non può (e non deve) più suscitare scandalo, come capitava qualche tempo fa.

Homo est animal socialis. Questa pigrizia operativa frena le iniziative che si potrebbero intraprendere a livello territoriale, per proporre il lavoro filosofico-pratico in ambienti diversi e fondamentali della vita sociale:

1) gli ambiti del lavoro cui ho già fatto cenno sopra,

2) il sistema socio-sanitario, compreso il mondo carcerario, circa il quale esistono solo non più che sporadiche esperienze,

3) il rapporto con altri professionisti, il cui lavoro “confina” con quello della filosofia pratica, e i loro albi, ordini, collegi a livello territoriale, più che nazionale…

Le minacce sono sintetizzabili nell’inerzia e nell’incapacità di fare un passo oltre le consuetudini, non in limiti filosofici e culturali di Phronesis.

Occorre dunque studiare i soggetti che operano nel campo della filosofia pratica (pratiche filosofiche e consulenza individuale) e della consulenza antropologico-morale in senso più lato, che sono altri filosofi, singoli o organizzati, psicologi, psicanalisti e psicoterapeuti di scuole varie, nonché i counselor di tutti i generi e specie. Non trascurerei di studiare anche coloro che esercitano pratiche di conoscenza dell’uomo con modalità magiche o legate a teorie e religioni, come nel caso dei praticanti della New Age o della Programmazione Neuro Linguistica più estrema.

Anche Phronesis, se desidera svilupparsi nella società civile come servizio culturale e formativo, ma soprattutto come servizio teso ad aiutare le persone, prima a comprenderne il senso e poi a migliorare le proprie vite, non può esimersi dall’elaborare una Analisi delle strategie esistenti, se ve ne sono. Dico subito, senza nascondere le cose: non esistono, e pertanto devono essere elaborate.

Se si vuole crescere, occorre anche modificare, se pure in parte, gli obiettivi storicamente finora dati, anche quelli cresciuti mediante una fisiologica eterogenesi dei fini, perché questi non bastano.

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