L’enorme sagoma di Gigio Donnarumma stava spostandosi ciondolon ciondoloni dalla porta per aspettare un altro tiro, dopo aver parato il calcio di rigore di Sakà (che disperato se ne andava con la sua faccia da bimbo), senza accorgersi che la sua Italia, con quella parata sul ragazzetto nero aveva vinto il Campionato Europeo di football 2020, giocato nel 2021 a causa del Covid.
Vincere l’Europeo di calcio è forse più difficile che vincere il Mondiale, perché in Europa c’è l’80% delle squadre nazionali più forti del mondo. In Sudamerica vi sono le due grandi Nazionali di Brasile (5 mondiali e diverse Copas Libertadores, il campionato sudamericano) e Argentina (3 mondiali e diverse Copas Libertadores), e forse sono da considerare competitive (e non sempre) anche il Cile (vincitore di 2 Copas Libertadores) e la Colombia, ma in Europa abbiamo: Germania (4 mondiali e 3 europei), Italia (4 mondiali e 2 europei), Francia (2 mondiali e 2 europei), Inghilterra (1 mondiale), Spagna (1 mondiale e 3 europei), Croazia, Serbia, Portogallo (1 europeo), Belgio, Olanda (1 europeo), Danimarca (1 europeo) e un tempo tra più forti c’erano anche l’Unione Sovietica, 1 europeo, la Cecoslovacchia, 2 finali mondiali, l’Ungheria, e la Jugoslavia, che oggi, divisa tra Serbia, Croazia, Slovenia, etc., può schierare due o tre nazionali di livello molto alto!… ognuna delle quali ha lo stigma del vincente (un po’ meno Inghilterra, Belgio e le nazionali dell’Europa orientale) quantomeno a livello potenziale.
Vialli, che aveva dato la schiena al gioco, si era ai calci di rigore dopo una partita molto equilibrata contro la perfida Albione, come chiamava l’Inghilterra Gabriele D’Annunzio, per scaramanzia, sentendo l’urlo dei nostri, si è girato e si è lanciato verso Roberto Mancini in un abbraccio infinito, mentre Harry Kane e compagni non accettavano la medaglia d’argento. Gli Inglesi, abituati a vincere quasi tutte le guerre, come racconta la Storia, fanno fatica ad accettare sconfitte, anche se solo nel gioco sportivo!
Anche se il calcio è solo un gioco, quel momento, quell’abbraccio tra i due uomini, amici, compagni e coetanei, è stato forte, per tutti, un abbraccio vitale. Lui, Gianluca, aveva già da qualche anno un tumore cattivo. Io ne so qualcosa e chi mi conosce sa che lo so, e se so che il tumore non-è cattivo, ma è qualcosa che può dirsi oggettivamente presente e possibile nel solco della natura, in ragione o dell’ambiente o della genetica. Quell’abbraccio con il suo grande compagno di calcio, con il quale ha costituito una delle coppie di calciatori più “armoniose” della storia di questo sport così popolare, rimarrà negli annali delle storie sportive e nelle immagini che ciascuno si può portare dentro, come l’urlo di Tardelli dopo il goal alla Germania, quello decisivo, nei mondiali vinti dalla Nazionale italiana nel 1982 in Spagna. Immagine che solitamente associamo a quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che urla a un sorridente Re Juan Carlos di Borbone “Non ci prendono più“, il Presidente Patriota, che poi gioca a scopone sull’aereo del ritorno, in coppia con Franco Causio, perdendo (ecco un altro, Pertini, che odiava perdere…) contro Dino Zoff e Enzo Bearzot, due friulani.
Il compagno di strada, indesiderato, il tumore.
Vialli Gianluca è stato un grande giocatore, forse non un fuoriclasse, dizione che riserviamo – anche restando solo in Italia – magari a Roberto Baggio e a Alessandro Del Piero, a Gianni Rivera e a Francesco Totti, a Giuseppe Meazza e a Valentino Mazzola, ma uno dei più bravi degli ultimi decenni. Con Mancini ha costituito una coppia di attaccanti così ben assortita che ha avuto pochi rivale, per eleganza ed efficacia. Mancini più dotato e più classico, Vialli più combattivo e finalizzatore.
Da sei anni Gianluca da Cremona, così riccioluto e dal simpatico volto da ragazzo alla Cremonese e alla Sampdoria, così virilmente espressivo da trentenne juventino e “inglese”, conviveva con un tumore al pancreas, definito dagli esperti “uno dei più cattivi”. Se può essere “cattivo” un tumore.
Non a caso fu apprezzato molto a Londra, dove il football, ancorché poco vincente a livello di Nazionale, è sport vissuto con grande lealtà e senso professionale. A me piacciono gli Inglesi come giocano a calcio, e anche il loro sistema di stadi, di organizzazione societaria e di pubblico. Certamente, questo mio giudizio vale da quando le normative statali hanno fatto terminare il triste fenomeno hooligan, che invece noi in Italia abbiamo ancora nella vergognosa declinazione razzistica dei “Buuh” verso i Balotelli, i Koulibaly e gli Umtiti.
La sua esperienza con l’ospite indesiderato è stata quella di un uomo forte, così come si mostrava in campo. E sempre auto-ironico, modus espressivo che non sempre mi appartiene. Io faccio fatica a scherzare. Quell’ospite era indesiderato. Io lo so bene, dato che sto vivendo un’esperienza che in qualche modo assomiglia alla sua.
Il mio ospite, cui la mia struttura fisica ha dato una “risposta completa”, perché così la chiamano gli ematologi, è altrettanto se non più subdolo del suo, perché è stato portato in giro per il mio corpo dal sangue, che va dappertutto. Poi, quando è stato scoperto, nascosto negli infiniti anfratti del liquido vitale, è stato attaccato da farmaci potenti e messo a tacere. E poi anche da una riserva del mio stesso sangue risanato, che ha ri-creato il mio sistema immunitario, chiudendo porte e finestre alla “bestia”. Finora. Ri-sanato e io come ri-nato. Il mio stesso nome che papà Pietro volle darmi, senza concordarlo con mamma Luigia.
Penso a Gianluca, più giovane di me, così simile (e ora così diversa) alla mia la sua esperienza. Non lo conoscevo, ma mi pare di avere capito che tipo era. Uno solido, non lamentoso, consapevole del suo valore sportivo e professionale, per il quale ha avuto i giusti riconoscimenti, uomo di non molte parole, e in questo è molto differente da me, che però faccio un altro mestiere, che richiede parole, possibilmente utili a me e soprattutto agli altri.
Non so se qualcuno ci riporterà le sue parole, agli ultimi. Sono sicuro che sono state degne di lui.
“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino“. (Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, annunciò in questo modo la rinunzia al Ministero papale il 28 febbraio 2013.)
Parto da questa dichiarazione per parlare un po’ di Joseph Ratzinger, studioso e docente di Teologia tra i più importanti della contemporaneità, presbitero e vescovo, e infine pastore per otto anni, dal 2005 al 2013, della Chiesa universale: uso quest’ultimo aggettivo, perché dice perfettamente il senso e il significato etimologico dell’aggettivo “cattolica”.
Serve innanzitutto un po’ di storia ecclesiastica: prima di lui solo questi altri papi si sono “dimessi” (qui utilizzo un termine molto impreciso), o sono stati – più spesso – “licenziati”, anzi eliminati dal potere politico, a volte in situazione ambigue, se non estremamente negative:
papa Ponziano si dimise perché condannato ad metalla, cioè ai lavori forzati, nelle miniere in Sardegna da Massimino il Trace nel III secolo d. C.;
papa Silverio fu spogliato del suo abito episcopale nel 537 e condannato all’esilio nell’isola di Ponza;
agli inizi del 1045, papa Benedetto IX fu cacciato da Roma e sostituito da papa Silvestro III; quindi con l’aiuto della sua famiglia e dei Crescenzi il 10 aprile 1045 tornò papa per poi vendere, per 2000 librae, la dignità pontificale al presbitero Giovanni Graziano, suo padrino, che così divenne papa Gregorio VI; lo stesso, su pressioni dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III di Franconia, fu invitato a confessare l’acquisto finanziario del Papato e ad abdicare dopo appena un anno; siamo nel periodo nel quale il papato era oggetto di dispute (talora infami) tra i principi e i nobili romani e l’Imperatore germanico;
papa Celestino V, Pietro di Morrone, inesperto nella gestione amministrativa della Chiesa (era stato monaco per tutta la vita), rinunciò il 13 dicembre 1294 con una bolla, che si dice fosse stata redatta dal cardinale Benedetto Caetani, che gli succedette con il nome di papa Bonifacio VIII;
papa Gregorio XII, il 4 luglio 1415 rinunziò all’ufficio di Romano pontefice al fine di ratificare, per intervento dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, con il Concilio di Costanza la fine dello Scisma Avignonese d’Occidente.
Ripeto e sottolineo: la rinunzia di papa Benedetto XVI è radicalmente e completamente diversa dalle “cessazioni” sopra riportate.
Le NORME CANONICHE
Il giurista Giovanni Bassiano sosteneva che la rinunzia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere», cioè “che il papa possa cambiare religione oppure possa cedere per malattie, invecchiamento e troppa responsabilità”.
Il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Bassiano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.
Le Decretali di papa Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, cioè per un’ignoranza teologica, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit», cioè “colui che il popolo udì dare scandalo”) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinunzia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, cioè “zelo di una vita migliore”, già ritenuto ammissibile da altri canonisti.
Nell’immediatezza della rinuncia di papa Celestino V, altri interventi di canonisti, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, i teologi parigini della Sorbonne Magister Godefroid de Fontaines e Magister Pierre d’Auvergne, avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Jacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una horrenda novitas, avendo favorito le successioni degli “anticristi” Bonifacio VIII e Benedetto XI.
Successivamente alla rinuncia di Celestino V, papa Bonifacio VIII emanò la Costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917, sotto papa Benedetto XV.
Il Codice di Diritto canonico, o Codex Iuris Canonici, del 1983, al Libro II “Il popolo di Dio”, parte seconda “La suprema autorità della Chiesa”, capitolo I “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”, contempla la rinuncia all’ufficio di romano pontefice.
Can. 332 § 2. Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.
«Can. 332 – §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.»
La BIOGRAFIA
Joseph Ratzinger nasce in un paesino bavarese sul fiume Inn nel 1927 in una famiglia modesta. Studia per diventare sacerdote, ma non si ferma, perché va avanti fino a un difficile e profondo Dottorato in Teologia sul concetto di Amore-Caritas-Agàpe in sant’Agostino. A un ufficiale nazista che gli chiede, lui giovanetto diciassettenne arruolato di forza nella guardia contraerea, che gli chiede che cosa vorrà fare da grande, alla sua risposta “Il prete“, ribatté “Non ci sarà posto per i preti nel nostro mondo“.
E’ professore, prima nel seminario di Frisinga e poi ordinario di Teologia sistematica e fondamentale a Bonn, a Tubingen e infine a Regensburg, Ratisbona. Lo sorprende la nomina a arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di papa Paolo VI e il cardinalato che gli conferisce, quasi contemporaneamente, lo stesso papa Paolo; dai primi anni ’80, papa Woytjla lo vuole alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, il ruolo che ispirò al quotidiano Il Manifesto, quando Ratzinger venne eletto papa dopo la morte di Giovanni Paolo II, una (impertinente) definizione, che potrebbe anche essere non dispiaciuta all’interessato, vista la sua affezione per gli animali domestici, e per i gatti in particolare: “Il Pastore Tedesco“. Ricordo che anch’io sorrisi, perché avevo letto di un uomo incline anche all’ironia, oltre che appassionato di musica classica e dei felini domestico-selvatici.
La TEOLOGIA
Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo vede i teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger tra i principali protagonisti, assieme a papa Paolo VI. Appena trentacinquenne, Joseph Ratzinger accompagna il cardinale arcivescovo di Colonia Frings come teologo esperto, e lavora assiduamente nelle commissioni che redigono le due massime Costituzioni conciliari, la Lumen gentium, tematizzata su ciò che la Chiesa è, il Popolo di Dio (cf. art. 1) e la Gaudium et spes, per analizzare e dialogare con il mondo nuovo che già Giovanni XXIII aveva iniziato a comprendere.
Coloro che amano le semplificazioni e non amano la complessità, cioè i pigri, attribuiscono a questo periodo una posizione semplicisticamente progressista al giovane teologo, quasi a collocare sulla opposta polarità la teologia del Ratzinger cardinale custode della fede e poi del papa Benedetto.
Non è così, perché non può essere così. In realtà, Ratzinger ha mantenuto l’agostinismo fondamentale della sua formazione nella la centralità della Caritas, Amore di Dio per l’uomo, cui il Creatore dona ciò che gli permette di comprendere il creato e di adempiere al mandato su di esso. Ratzinger, in questo modo, colloca la teologia nella tradizione culturale dei suoi tempi, accogliendo in essa anche i lasciti “laici” delle riforme intellettuali e culturali date nel tempo, e che, sempre nel tempo, la Chiesa ha fatto proprie. L’allora cardinale non è estraneo, al contrario!, alle scelte e alle dichiarazioni del suo predecessore sugli errori della Chiesa nei confronti di Galileo e della filosofia successiva, pur mantenendo al centro, come solido baluardo intellettuale, la Tradizione del pensiero agostiniano e tommasiano.
Anche ciò che è stato l’evento di Ratisbona, quando (era il 2007) papa Benedetto ebbe ad esprimersi – in quella Università dove aveva insegnato – sotto un profilo teologico-storiografico sull’Islam, e citò una polemica tra l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo e un teologo musulmano persiano sul profeta Mohamed e sulla tendenza autoritaria dell’islam. Allora fu una errata traduzione e trasmissione ai media della lectio papale a generare gravi polemiche con il mondo musulmano, che poi cessarono quando papa Benedetto approfondì il dialogo inter-religioso, parlando con il Gran Muftì di Istanbul e con il Rettore dell’Università Al Hazar del Cairo, e con altri leader musulmani. Forse “qualcuno” avrebbe dovuto aiutare il Papa a tarare il suo discorso in modo meno accademico e più pastorale, da Papa. Benedetto XVI, purtroppo, non aveva “aiutanti” del livello del cardinale Agostino Casaroli, che invece papa Woytjla ebbe a disposizione. E questo dicendo, desidero lasciare intendere anche ciò che deve essere inteso.
Ratzinger, ovviamente, era ben conscio che anche il cristianesimo per quasi due millenni non è stato esente da autoritarismo e confusione con il potere politico. Non ha mai avuto bisogno il professor Ratzinger che gli si spiegasse “Porta Pia, Roma 1870”! O che fino all’elezione di Pio X, papa Sarto, le potenze cattoliche, come l’Impero Austro-Ungarico ebbero voce in capitolo nell’elezione del Pontefice.
Da un punto di vista della fede, Benedetto XVI non ha mai proposto altro che questo insegnamento, valido per ogni uomo di buona volontà, sia per il credente, sia per l’agnostico e l’ateo: “Vivi etsi Deus daretur…, cioè vivi come se Dio ci fosse”, oa anche “come se Dio non ci fosse (non daretur)”, da cui si comprende bene come l’etica della vita umana e sociale deve essere aperta fraternamente all’altro, anche solo in base all’umana sapienza, che però la Fede illumina e sostiene.
La FILOSOFIA
Nutritosi della filosofia cristiana, a partire da Agostino e Bonaventura da Bagnoregio, ma non disattento alle filosofie contemporanee, Joseph Ratzinger si è mosso teoreticamente soprattutto sui temi del relativismo e del nihilismo, così diffusi e presenti nel pensiero, ma soprattutto negli stili di vita contemporanei. Su questo, papa Benedetto ha ripreso la posizione filosofica di papa Woytjla, che era imbevuto di un tomismo aperto alla fenomenologia di Husserl, e anche all’esistenzialismo cristiano di un Maritain e di un Mounier, non trascurando nemmeno Heidegger e Jean-Paul Sartre. La “lotta” ratzingeriana al relativismo non ha mai avuto nulla a che fare con il rifiuto della scienza moderna, che anzi è stata da lui ritenuta il dono di Dio sviluppato nel tempo dell’uomo. Fides et Ratio, Fede e Ragione, come ali per una capacità di usare tutti i beni dello spirito donati dal Creatore.
Il professor Ratzinger non confondeva certo il “relativismo” filosofico innervato di scettico cinismo di certe visioni economico-politiche del nostro tempo, con l’esigenza di comprendere e di studiare che tutto-è-in-relazione, dall’infinitamente piccolo delle particelle sub-atomiche (papa Benedetto era un ottimo lettore di saggi di fisica e di genetica), alle strutture più grandi: l’uomo e le cose della natura e del mondo. Il tema della complessità era vicino al suo modo di intendere l’uomo, nella sua conformazione antropologica ed etica, e quindi era tutt’altro che un conservatore reazionario! Questo giudizio, ripeto, appartiene solo ad osservatori pregiudizievoli e intellettualmente pigri.
Non è mai stato un conservatore né tanto meno un reazionario. Per lui l’illuminismo è stato generato dal Vangelo, così come tutti i saperi contemporanei. Difensore della Fede e della Ragione.
I TESTI
Non serve ricordare qui tutti i suoi testi accademici, sempre originali e profondi, salvo magari il trattato Io credo, che utilizzò nel corso di teologia fondamentale tenuto a Tubingen, ma non posso non citare la biografia storico-teologica di Gesù di Nazareth, in tre volumi, che ho letto con piacere, perché unisce la serietà dei fondamenti storico-critici relativi alla figura del Maestro nazareno, che è Gesù il Cristo, a una scorrevolezza narrativa che serve ad invogliare alla lettura anche chi specialista o interessato alla teologia non è. Il papa racconta Gesù con precisione, affetto e rispetto per i documenti cui fa riferimento, e per i fondamenti dottrinali della Teologia cristiana.
Le Encicliche: Deus Caritas est, Spe salvi e Caritas in Veritate. Papa Benedetto torna ancora nelle due encicliche al tema dell’Amore-Carità, che diventa il Nome di Dio stesso e anche la misura della qualità del rapporto tra gli esseri umani, come si legge nella Prima Lettera di Giovanni apostolo. Chi mi conosce sa quanto ci tenga, nel mio lavoro e nelle mie docenze, a parlare di Qualità relazionale: ebbene, ho trovato e trovo spesso in queste due Lettere di papa Benedetto ispirazione e suggerimenti che vengono colti anche da persone di formazione prevalentemente tecnica, le quali, però, riescono a percepire l’afflato umano che deve esserci e vivere nelle comunità, in tutte le comunità, comprese le “Comunità di lavoro”, che sono le aziende moderne.
Un altro aspetto è quello del valore dell’amore fisico tra gli esseri umani, tra l’uomo e la donna. Ebbene: proprio, voglio dire, alla faccia di coloro che collocano Ratzinger su una posizione retrograda, costoro leggano bene la Deus Caritas est, cioè Dio è amore, là dove troveranno riferimenti teologici e pratici al Cantico dei cantici, che è un esplicito poema erotico, interpretabile certamente con la chiave letteraria dell’allegoria poetica, e quindi rinviano all’amore di Dio per il suo Popolo e di Gesù per la Chiesa, che è il Popolo di Dio, ma anche, esplicitamente, all’amore umano e a un uso della dimensione sessuale, rispettosa, completa e arricchente per la persona.
Sotto il profilo pastorale, Benedetto XVI è stato presbitero e vescovo, ricomprendendo in questo ruolo anche il papato, che si sostanzia storicamente e canonicamente nella guida della Diocesi di Roma, ed è stato un buon Pastore, sempre attento e rispettoso per le scelte di chi ha incontrato per strada. Fu colui che, prima denunziò e poi combattè ogni deformazione morale presente anche nella Chiesa, a partire dalla pedofilia, che lui definì crimine.
Certamente diverso da chi gli è succeduto sul soglio pontificio, o nel “ministero petrino”, lavoratore nella vigna del Signore, come lui stesso si definì, presentandosi al balcone di San Pietro una mattina di primavera di diciotto anni fa.
Anche il nome che scelse diciotto anni fa, Benedetto, ha a che fare con due ispirazioni, la prima è quella di san Benedetto da Norcia, fondatore di molto dell’Europa e Patrono del nostro continente, la seconda per ricordare papa Benedetto XV, che, allo scoppio della Prima Guerra mondiale parlò, anzi, gridò di “inutile strage”.
Costante compagno di via – per nove anni – di papa Francesco, e perfino suo protettore dai detrattori di quest’ultimo.
Se come teologo è stato profondo e sottile, a volte difficile, sotto il profilo umano e spirituale Joseph Ratzinger è stato mite, umile, gentile e profondo, un uomo di Dio e del mondo.
Santo significa “sancito”, ma anche “separato”, diverso, come diversi sono i “santi”, tra loro e dagli altri. Diversi in che senso? forse nel senso che sono dei superuomini o superdonne? Per nulla, perché, se ci si dedica a un opportuno approfondimento biografico di un qualsiasi santo o santa, ci si accorge che quelle figure sono persone normali, anzi, a volte molto normali, con difetti e con pregi, peccatrici e peccatori, generosamente solidali e/o egoisti, rabbiosi, scostanti…
Un esempio di santità umana, naturalmente speciale, o specialmente naturale, come avrebbe detto il santo che sto per nominare, è quella di sant’Agostino, che ebbe una giovinezza errabonda e strapazzata.
Il padre Tomislav Ivančič ha scritto per i tipi di Teovizija dell’Università di Zagabria un libro dal titolo L’Haghioterapia incontro all’uomo, con il quale spiega come si possa ricorrere alla dimensione spirituale, che si declina perfino con la santità, anche per rimediare ai mali che ci affliggono come esseri umani. Sappiamo che il male si manifesta all’uomo e nell’uomo almeno sotto tre specie e dimensioni, o forse quattro.
Il più tangibilmente immediato è a) il male fisico, che deriva dall’ammalamento del corpo, per ragioni (in estrema sintesi) genetiche e/o ambientali, o è causato da un incidente/ infortunio, e impone conseguenze più o meno gravi, che generano periodi di diversa lunghezza per la guarigione e/o la riabilitazione; b) il male psicologico, interiore, che può essere generato dal male fisico, ma può avere anche un’eziologia sua propria e derivare dallo stato d’animo della persona, dagli eventi che contraddistinguono la sua vita, etc., e può portare anche a gravi scompensi psichici, come la depressione e altre malattie dell’anima (psiche); c) il male morale, che nasce dalle scelte libere dell’uomo generanti mali e offese agli altri: e qui gli esempi sono noti e innumerevoli, tali e tanti che non occorre elencarli.
A questo punto si potrebbe dare anche un altro tipo di male, che tutti i mali ricomprende: d) il male metafisico (come insegnava sant’Agostino), il quale consiste nella mancanza di un bene corrispettivo, che il grande teologo e filosofo africano definiva defectio boni, cioè mancanza di un bene, come può essere, ad esempio, l’amputazione di un arto.
A ben riflettere, però, si potrebbe dire che ogni male, fisico, psicologico e morale è un male metafisico, poiché, nel primo caso si tratta di una mancanza di salute, nel secondo caso si può dire che manca l’equilibrio mentale, e nel terzo è carente o assente il senso morale, ovvero la stessa coscienza morale, cioè il pilastro spirituale di ogni individuo umano.
Si vede, dunque, come l’aspetto spirituale, metafisico, dell’esistenza del male connette e sintetizza ogni genere e specie di mali presenti nella vita umana.
L’aghioterapia , termine alquanto strano per i nostri tempi,interviene a questo livello, ponendosi come medicina, terapìa nel senso e significato classici di attenzione e cura dell’intera personalità e persona umana. Vediamo il nome composto che la definisce: àghios, in greco antico significa santo, terapìa, nel senso classico appena citato, vuol dire prendersi cura di tutta la persona, ma non in termini di mera attività unidirezionale. In altre parole, l’aghioterapia, come ogni terapìa psico-spirituale non funziona se non vi è un dialogo connesso e continuo tra i due soggetti, colui che inizia da aiutare e colui che è disponibile a farsi aiutare. Nell’aghioterapia come, mi permetto di dire, nella consulenza filosofica individuale, di cui si occupa l’Associazione filosofica che di questi tempi presiedo, Phronesis, non funziona, se non vi è un coinvolgimento reciproco fra i due soggetto in dialogo, in quanto non è un insegnamento, ma una relazione.
Di solito, specialmente dalla modernità in poi, con un acme fortissimo nell’800 ai tempi della filosofia positivista, si è generalmente pensato alla medicina come a una scienza-tecnica oggettiva, in grado di correggere, estirpare, distruggere, se possibile, ogni male.
Propongo un esempio giuridico-contrattuale dei decenni scorsi, valido fino ad oggi: nel dopoguerra, la ricostruzione dell’Italia previde, non solo il rimettere in piedi infrastrutture e industrie, abitazioni e comunicazioni, ma anche di intervenire legislativamente in tema di sicurezza e tutela della salute sul lavoro. Furono perciò emanati due Decreti legislativi, il 247 nel 1955 sull’Antinfortunistica, e il 303 nel 1956 sull’Igiene del lavoro. Si tratta di normative estese e dettagliate, essenzialmente improntate alla fiducia che il progresso tecno-scientifico avrebbe ridotto fino ad annullare ogni pericolo e rischio per la salute dei lavoratori.
L’applicazione di tali misure fu importante e certamente calarono drasticamente infortuni e malattie professionali, pur in presenza di un aumento notevolissimo degli addetti, che da metà degli anni ’50 al 2000 passarono da 15 a 22 milioni di lavoratori, con uno spostamento epocale dall’agricoltura all’industria: su 10 milioni di lavoratori agricoli censiti nel 1955, già negli anni ’70 nove milioni erano passati all’industria e settori connessi del terziario.
Ciò che mancava in quella legislazione era l’intervento volontario e responsabile dell’uomo: nel senso comune, l’uomo al lavoro era pressoché quasi esentato da responsabilità in caso di accadimenti nefasti in fabbrica o ovunque si lavorava.
Un passo in avanti vi fu quando fu emanata la Legge 300/ 70, lo Statuto dei diritti dei lavoratori, che all’articolo 9 prevede l’obbligo di tutela e di auto-tutela della salute e sicurezza da parte del singolo lavoratore, perché si è capito che non si può affidare tutte le garanzie di tutela alla perfezione tecnica di macchine e impianti.
Fu però con il Decreto legislativo 626 del 1994, che si realizzò una svolta radicale in tema: i lavoratori divennero protagonisti della tutela della propria salute e sicurezza e di quelle dei colleghi, insieme con alcune figure bene individuate e responsabili: il Datore di lavoro in tema di sicurezza, il Procuratore aziendale speciale in tema, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, il Medico di fabbrica, il Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ma con queste figure, tutti e ognuno furono chiamati a interessarsi di questi temi e problemi.
Nel 2008 un nuovo decreto, il 108, e nel 2009, il 106, perfezionarono ulteriormente l’amplissima area delle responsabilità individuali.
Gli infortuni, specie quelli mortali, e le malattie professionali, diminuirono in maniera significativa, ma negli ultimi e a noi prossimi anni, questa virtuosa tendenza si è capovolta, tornando a verificarsi un numero di eventi, anche infausti, come un decennio fa. Le ragioni sono molteplici: alcune si possono trovare anche nella riflessione che ho sviluppato nei post precedenti, e quindi non mi ripeto. Basti qui dire che, fondamentalmente, lo scambio tra mezzi e fini nella vita umana, nel senso che l’uomo non appare più chiaramente come fine, sta generando lo stato di cose attuale.
In ultimo, cito il tema della pandemia e delle misure per arginarla e possibilmente sconfiggerla. Ebbene, anche in questo caso, valgono le riflessioni sopra proposte. Il tema è quello di utilizzare la scienza e la tecnica contro questo male, ma soprattutto di essere responsabili individualmente verso se stessi e verso gli altri, favorendo e scegliendo gli strumenti di difesa personale e collettiva.
Si evidenzia qui il senso, il principio, il valore virtuosodella responsabilità individuale, che va posta al centro di ogni iniziativa: mentre la politica, le strutture sanitarie e quelle produttive debbono attrezzarsi per legiferare e regolamentare i comportamenti, gli individui devono dare il loro contributo personale, scegliendo per il BENE COMUNE.
Mi preoccupano soprattutto cognitivamente e poi eticamente coloro che si oppongono, minimizzando la portata di questo male, diffondendo idee sbagliate perché non fondate su dati (ad esempio che il 95% dei decessi coglie persone non vaccinate), e pericolose.
Tommaso d’Aquino, quando incontrava qualcuno che lo contraddiceva senza aver studiato l’argomento, e così avendone acquisito una conoscenza completa, soleva dire “contra factum non valet argumentum et memento: sutor nec ultra crepidas” (trad.: contro i fatti non valgono argomentazioni contrarie, e ricorda che ogni ciabattino non deve andare oltre il suo sapere nel costruire stivali).
Mi pare che il sapere di san Tommaso sia ancora attuale.
Che dire, dunque, infine, dell’aghioterapia in questo contesto? Che la santità non è roba-per-pochi, ma è per molti… quanti “santi” senza nome in questi 24 mesi di storia mondiale? Quanti e quante medici, assistenti, infermieri, autisti di ambulanze, operatori nel settore della sicurezza sociale, lavoratori di tutti i tipi, imprenditori, mamme, papà, collaboratrici familiari… hanno praticato, oltre ai loro saperi teorici e pratici, l’aghioterapia?
Il numero è ignoto, ma la certezza di una santità diffusa è incontrovertibile.
Quando vedo o ascolto Beatrice (Maria-Adelaide-Marzia)-Bebe Vio, nata nel 1997, provo gioia. Provo la gioia che la ragazza mi trasmette con il suo entusiasmo, il suo sorriso, la sua eccelsa classe sportiva.
Pur essendo stata tormentata fin da piccola da una tremenda meningite che la ha mutilata, Bebe è una grande campionessa dello sport che si dice parolimpico, nella specialità della scherma, arma del fioretto, ma a mio parere si dovrebbe dire “dello sport”, e basta. Mi viene da pensare che se (uso l’ipotetica nonostante solitamente io rifugga da simulazioni a-storiche) avesse potuto usufruire dei suoi arti e di un corpo integro, avrebbe potuto imitare e seguire in grandezza sportiva l’immensa Valentina Vezzali.
Le sue performance mi offrono l’occasione di parlare della gioia, come sentimento positivo cui si anela sempre, anche se spesso si preferisce parlare di felicità… dopo di che ci si accorge che la felicità, intesa come stato di benessere gioioso continuo non si può mai dare, perché non c’è, non existe, cioè non sta dentro e fuori di noi.
Qualche giorno fa ho scritto dell’etimologia di felicità, che va fatta risalire alla radice sanscrita fe, che significa fecondità. Ecco, allora potrebbe darsi che l’etimo antico ci possa aiutare a darle un senso.
Nel caso della Bebe, dire che manifesta non solo gioia ma anche felicità di vivere, si può. Questa ragazza di ventiquattro anni, martoriata dalla sorte, da quello strano e incomprensibile (agli occhi e al sentimento) garbuglio di volontà umane, circostanze, genetica, ambiente… che a volte chiamiamo DESTINO, riesce a mostrare una felicità di vivere, almeno davanti alle telecamere, che fa provare ai lamentosi di ogni genere e specie, se riflessivi, un sentimento di vergogna e quasi di blasfemia, quando si lamentano, come si dice in Friuli, “di gamba sana”, che significa lamentarsi di inezie.
Devo dirti, caro lettore che, pur a volte soffrendo penosi dolori alle vertebre dorsali, lascito del tumore terribile che mi colpì quattr’anni fa, il pensiero di una ragazza coraggiosa come Beatrice Vio, mi aiuta a lamentarmi il meno possibile e mi ispira un po’ di vergogna se indulgo un pochino troppo nel lamentarmi, quando qualcuno mi chiede come sto.
Torniamo al sentimento della gioia, che ritengo più realistico di quello della felicità. Tre lustri fa, più o meno, con la mia carissima amica, la psico-pedagogista Anita Zanin, scrissi e pubblicai un volume che si configurava come una sorta di contro-manuale di pedagogia dell’età evolutiva. Ebbene, decidemmo di intitolarlo “Educare all’infelicità”, proprio per sottolineare la problematicità del termine, e per segnalare tutti gli “errori” educativi che gli “educatori”, genitori e insegnanti in primis, rischiano di commettere, se non tengono conto che non si può insegnare dall’alto ciò che andrà a costituire la struttura di personalità dei bambini, ma che si deve piuttosto “accompagnarli”, nella loro crescita, rispettando in ogni momento le caratteristiche delle piccole persone in evoluzione, dando loro delle dritte generali, ma soprattutto orientandoli con l’esempio e con la coerenza comportamentale.
Il volume, presentato a suo tempo durante la rassegna Pordenonelegge, ha avuto un certo successo, ma, abbiamo pensato che ciò sia avvenuto soprattutto per la paradossalità del titolo, con il quale abbiamo inteso pro-vocare curiosità, ma anche sottolineare, proprio ponendo un termine dal significato contrario della felicità, come questa condizione sia un tema arduo e largamente simbolico nella vita umana.
In-felicità certamente significa mancanza di benessere e di gioia, ma può anche favorire l’acquisizione di una consapevolezza che lo star-bene è una conquista della mente, della riflessione razionale e morale sui valori essenziali e non volatili, della vita.
Si può essere “felici” (virgoletto per restare nella logica del pensiero che qui cerco di esprimere), anche quando manca qualcosa alla nostra vita, ad esempio una parte di agio, un pezzo di salute fisica, una parte di sicurezza, solo se riusciamo a declinare questo “essere-felici” come una capacità spirituale di cogliere la gioia di vivere in (di) ciò che vale veramente: un rapporto sincero con l’altro, un sentirsi utile in una comunità, una capacità di ascoltare e di farsi ascoltare, una accettazione del limite nostro e degli altri, che è la condizione esistenziale più vera della vita umana, e di (e in) questo limite, una volta esplorato e còlto, sapersi ac-contentare.
Si discute, in una giornata di questo caldissimo luglio 2021, di quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, in altre carceri, e di molto altro. Il sistema pare sia un po’ questo, così come si è visto in tv e sul web. Me lo fa capire chi si trova da decenni fra ristretti orizzonti e, se pure in modi differenti, due poliziotti.
Parto da costoro. Il primo mi dice esplicitamente che, se si registrano azioni pericolose da chi fa rivolte, prima o poi ci si vendica, perché questo è l’ordine naturale delle cose. A bestia, bestia più uno, gli scappa di dire.
Il secondo, che è un graduato, mi mostra una sensibilità politica e morale che – con rispetto per lui – non mi aspettavo del tutto, dicendo che non è ammissibile eticamente che uno “strumento dello Stato” si vendichi, peraltro di persone che magari c’entrano poco o nulla con precedenti manifestazioni.
Il mio amico invece, parla di un “sistema”, cioè di una metodica che è stata introiettata nei comportamenti di chi è di guardia, ed è in qualche modo quasi “asseverata” dall’alto, checché ne dicano coloro che stanno in alto.
Come orientarsi tra queste tre opinioni così differenti? Il carcere è una istituzione totale e totalizzante, come spiegava Michel Foucault già mezzo secolo fa, e perciò in qualche misura – di fatto – al di fuori del rispetto delle norme dello “Stato di Diritto”, come quello francese o quello italiano. Epperò, come può ragionevolmente darsi un “poter-essere” al di fuori delle norme dello Stato di Diritto? Pare una contraddizione in termini.
Se uno Stato si dice di diritto, riconoscendo che le proprie prerogative giuridiche non possono eccedere quelle di ogni cittadino, in modo da metterlo in una situazione minoritaria, non dovrebbe consentire eccezioni, ovvero situazioni nelle quali ciò che significa il sintagma etico-giuridico “Stato-di-Diritto” non “funzioni”. Ebbene, non è così… e per le ragioni in base alle quali tutto, nel mondo degli uomini e nella storia, è accaduto nel corso del tempo, e ancora accade sovente e in molti luoghi e situazioni.
Il tema dei diritti è centrale da quasi due secoli e mezzo, dai tempi dell’Illuminismo francese, tedesco, italiano e anglosassone, dai tempi di Voltaire, Beccaria, Jefferson e Kant. E’ all’ordine del giorno da questo lungo periodo, perché, nonostante la chiarissima lezione evangelica, una cultura politica generale non ha saputo introiettarne il valore. In questi due secoli e mezzo i diritti sono diventati un elemento centrale delle legislazioni e della politica nella maggior parte dei paesi del mondo, dopo le crisi sistemiche dei totalitarismi del ‘900.
Ancora, però, in molte nazioni i diritti umani non sono riconosciuti, come in Corea del Nord e in Cina, ovvero dove sono negletti, ad esempio in certi regimi autoritari del Sud America, dell’Africa e dell’Europa, come in Bielorussia.
Nei paesi giuridicamente più evoluti i diritti stanno riguardando anche aspetti della vita personale fino a sfumare in un confuso giuridismo dei bisogni e dei desideri, come sta accadendo in queste settimane in Italia con gli scontri politici sul Disegno di Legge Zan, che concerne la tutela delle varie declinazioni sessuali dell’umano.
Forse il momento critico dei diritti va di nuovo valutato per rapporto ai doveri, di cui da tempo si parla pochissimo. Dovrebbe essere posto al centro in combinato disposto fra diritti e doveri, per riprendere un discorso che equilibri questi aspetti regolatori della convivenza umana.
E torno al tema carcerario della prima parte.
Comunque stiano le cose, e specialmente se si trattasse di un sistema, come mi spiega l’amico ospite di quell’istituzione da troppo tempo, i diritti umani non vanno mai negati, e dunque atti e fatti come quelli accaduti e sopra richiamati non dovrebbero avere più la possibilità di accadere.
Ma, perché vi siano speranze per una prospettiva del genere, è necessario riprendere i fondamenti etico-filosofici della Costituzione repubblicana, che all’articolo 27 parla di diritto al recupero della socialità per tutti e per ciascuno che abbia sbagliato e abbia pagato la pena per i crimini compiuti.
Anche l’ergastolo ostativo, pur misura comprensibile in un certo momento storico, oggi mostra tutta la sua evidente incostituzionalità e immoralità. Diritti dei cittadini e doveri nei comportamenti devono coniugarsi in un mix là dove la libertà di ciascuno sia contemperata al diritto alla sicurezza personale di ciascun altro, reciprocamente.
Non si dà, infatti, una libertà plausibile, se non connessa con la giustizia e la sicurezza, sempre nei limiti dell’agire umano.
Non capisco a che cosa serva la teologia, che è un discorso su Dio e sull’uomo per rapporto a Dio, se alla fine basta più o meno essere gentili, o giù di lì, per dare un senso alla vita. Ad esempio io spesso non sono gentile, e allora mi è negato di dare un senso alla mia vita? Andiamo!
Questo traggo dalla lettura di questo volumetto, che non ho comprato, ma mi è stato prestato. Anche Mancuso, come Saviano, è molto bravo nel fare la vittima, lui delle istituzioni ecclesiastiche, l’altro delle minacce della camorra. Parole dure le mie?
Non credo, perché non bisognerebbe dare spazio a chi approfitta della propria situazione, per costruirsi, in qualche modo condizionando la pubblica amministrazione, una sorta di sinecura a vita. Inviterei queste persone a considerare quanti esseri umani sono veramente in pericolo radicale, quello della vita, e sono lì, nel mondo, senza pretendere nulla da chicchessia. Di queste persone dovrebbero interessarsi i sopra citati, come cerco di fare io nel mio piccolo.
Il fatto è che la cultura sessantottina, oltre ad avere portato nel mondo necessarie modifiche nei rapporti interpersonali, politici e sociali, mettendo in mora le tre famose “p”, quella di figure arroganti consolidatesi nei secoli, il padre, il prete, il professore e il padrone, che hanno storicamente comandato a bacchetta, con arroganza e incrollabile protervia, agli altri, senza essere contrastati in alcun modo, ha indirettamente promosso lo sviluppo della “cultura della pretesa”. Una cultura fasulla e perniciosa, demotivante e ambigua.
Oggi, dopo decenni di dialettica fra diritti e doveri, si parla quasi solamente di diritti. Questo non-va-bene.
Ciò che rimprovero al teologo Mancuso, riferendomi soprattutto a un suo libro precedente, quello con il quale cercò di metter in mora il “dio della Bibbia”, che lui chiama “Deus”, per contrapporlo al “Dio dei vangeli”, quello di Gesù Cristo, è l’assenza di ogni accenno alla necessità di interpretare le Sacre scritture, al fine di dare un senso a testi scritti da tremila a duemila anni fa, che parlavano a popoli quasi del tutto analfabeti, con un linguaggio immaginifico e spesso violento e atroce.
In teologia fondamentale e in esegesi biblica si studiano i quattro sensi che aiutano a comprendere il testo: a) quello letterale che racconta i fatti, o le memorie dei racconti sui fatti, e che narrano i miti primordiali; b) quello allegorico che dà l’indirizzo di fede, per mezzo di passaggi linguistici di carattere retorico, là dove ciò che è scritto significa altro; quello morale, atto a dare un indirizzo virtuoso nei comportamenti; e infine quello anagogico, finalizzato a focalizzare la meta per l’anima spirituale.
Se le cose così stanno, come si fa a considerare “Deus”, il Dio-Signore-Iahwe, “dio-degli-eserciti”, così come citato nella Bibbia in modo letteralista, come se fossimo gli anawim, i poveri del Signore di quei deserti, di quelle pietraie assolate.
Lasciamo fare queste operazioncine a Odifreddi, che ama fare il teologo con una preparazione da professore di matematica. Ancora una volta dico, e ridico, mi dichiaro incolpevolmente ignorante tecnico di molte discipline, la medicina, la fisica, la geologia, ma non mi impanco a parlarne con il sussiego dell’esperto, cosicché invito a fare altrettanto chi non sa alcunché di teologia e filosofia o ne è solo un “orecchiante”. E torno al volumetto mancusiano. Da questo autore “pretenderei” di più, ma non trovo ciò che cerco.
Mi spiego: se devo trovare un senso alla vita, e mi pongo da un punto di vista teologico, cioè comprendente anche la dimensione del divino, non può bastarmi dire che il senso si trova anche solamente nella gentilezza dei tratti relazionali, nel respirare lentamente, nell’imparare a mangiare, nel provare sensazioni, nella lettura, nello studio, nella riflessione, nello scrivere appunti, nell’ascoltare gli altri, nell’essere sinceri, nel distinguere le bugie opportune dalla menzogna, nel diventare consapevole dei sentimenti, nel camminare nella natura, nell’apparecchiare con cura la tavola, nel curare il proprio corpo (di questo specifico elenco ringrazio gli amici Neri e Roberto, che mi hanno fatto avere l’articolo di Paolo D’Angelo pubblicato nei giorni scorsi sul quotidiano “Domani”, articolo che mi ha spinto a cercare il libro). Una buona estrapolazione dal volume citato.
…ma che senso ha un tipo di vita del genere? Abbisogna di Dio? Della teologia? della filosofia’ Non mi pare. Anche se conosco persone che proprio di quell’elenco costituiscono il senso della vita.
Posso dire che tutto ciò è solo banalmente piacevole?
Posso dire che nulla mi dice di ciò che la vita realmente è, con il suo carico di contraddizioni e di dolore, di gioia e di paura, di salute e di malattia…?
Dove te ne vai, caro Rizko, lasciando le sponde del grande fiume che sfocia nel Mar Nero, non lungi da Odessa?
Il Dnepr o Dnipro si dice in russo: Днепр, Dnepr, in ucraino: Дніпро, Dnipro, in bielorusso: Дняпро [Dnjapro], in polacco Dniepr; in romeno Nipru; in italiano anche Boristene.
Dove porti i tuoi cari, caro viandante, Ebreo errante, archetipo di tutti i viandanti in questa vita e nel mondo?
I cieli azzurri sono il nostro “contenitore”, anche se qua e là incombono nuvole, nuvole nel cielo e nuvole nelle nostre anime. Non sempre venti impetuosi riescono a cacciare lontano le nuvole, che allora restano sopra noi fino all’orizzonte, o fino alla soglia del nostro pensiero.
Siamo eternamente viandanti, caro Rizko, ed è come se ci potessimo incontrare da qualche parte, o sulla sponda del grande fiume che anni fa potei vedere in viaggio per Dnieprpetrovsk, oppure nella Galizia profonda, nella campagne di Lublin, ovvero, ancora, tralasciata Prag a occidente, già andiamo verso Kutná Hora o più a Sud, oltre le montagne.
Una volta scrissi che oltre le montagne, però viste da un Sud più vicino al mare, si narrano tante storie, ai bambini di sera, nelle lunghe invernate piene di neve, e di viandanti che arrivavano tutti intabarrati, diretti verso un dove sconosciuto anche a loro stessi… e di altri viandanti che parlavano un idioma duro, e portavano a Nord carretti pieni di oggetti di legno da vendere alle massaie, in quei villaggi sparsi per le vallate. Un andare e un venire da Nord a Sud, da Est a Ovest, ininterrotto, per secoli e secoli.
E un continuo raccontare nelle osterie, vicino ai focolari e a ceppi scoppiettanti. Ogni tanto si fermavano drappelli di soldati a pernottare, non sapendo se sarebbero sopravvissuti per giorni, per mesi o per anni, che il futuro misterioso presentava senza annunzi, ma solo con il rombo di cannoni o lo scalpitare di cavallerie nemiche.
Caro Rizko, sei passato attraverso polverose strade che ad autunno si infangano fino al perno delle ruote del tuo carretto e durava fatica l’asinella, con il tuo aiuto, a togliersi d’impaccio.
Hai lasciato eredi in Boemia, aggiunto un cognome, Berkowitz, hai lavorato tanto, anzi, i tuoi nipoti sono riusciti a vedere la luce di una sopravvivenza diversa. Hanno rischiato. E poi l’Italia, nientemeno che a Venezia, le sue luci, lo sbrilluccicare della laguna verdastra e più in fondo, oltre il Lido e Pellestrina, il Mare profondo. Qui, diventato Italiano, hai conosciuto il fiato della belva, che ha masticato i tuoi cari, e ti sei salvato per un nulla voluto dalla Provvidenza o dal caso, oppure dal tuo antico Signore degli eserciti, in cui non credevi più da tempo.
Infine hai amato, caro Alfredo Bastiani, le colline coperte di prati e di boschi del remoto Friuli, sconosciuto ai più, anche ai compatrioti, che lo confondono con il Veneto e non sanno se Utinum si trovi in pianura oppure oltre la Cerchia dei monti azzurrini che al tramonto tradiscono l’enrosadìra violetta. A San Daniele, dove si parla l’idioma duro e perfetto dei “Furlani” e dove il tuo mondo, caro Rizko, è riuscito a fermarsi e a riposare sulle rive di un piccolo lago, nel cimitero dei tuoi avi e dei tuoi nipoti, in mezzo alle morene antiche lasciate da ghiacciai primordi scolpiti dal buriàn, il vento da cui sei partito trecento anni fa.
Lui definiva in questo modo gli ultimi, i poveri poveri, carne di Cristo. Teologicamente non è una bestialità. Per nulla. il “Corpo mistico” di Cristo è la Chiesa universale e il Popolo di Dio è la Chiesa, e viceversa. Il sillogismo semplice finisce con una necessaria conclusione: anche l’assassino del sacerdote è “carne di Cristo”.
Paradossale? Sì, come è paradossale il Cristianesimo, che è – in senso stretto di filosofia religiosa – una non-religione, ma è la sequela di una Persona, quella di Gesù Cristo.
Molti infatti, quando elencano le religioni presenti nel mondo, mettono il cristianesimo al primo posto per quantità di fedeli, seguito dall’islam e via via, ma la classificazione, così concepita, è impropria, ovvero può andare bene per una semplificazione. In realtà, il cristianesimo evangelico è qualcosa di profondamente diverso da tutte le altre “religioni”, poiché non si fonda sulla base essenziale di testi sacri, che pure nel cristianesimo stesso non mancano, basti pensare ai due “Testamenti” e alle Lettere apostoliche, ma piuttosto sulla Persona e sull’esperienza terrena di Gesù di Nazaret, detto il Cristo.
Anche nelle altre grandi esperienze religiose vi sono persone che si sono poste a mediazione tra l’uomo e il divino, come Mohamed, come Mosè, come il Buddha, pur se quest’ultimo in modo estremamente diverso, in ragione di una concezione del divino molto distante dal cristianesimo, dallo stesso islam e dal giudaismo.
Cristo, invece, prevede la sua sequela, cioè il “seguirlo”, essenzialmente, semplicemente, duramente, umanamente. Anche fino al sacrificio estremo.
Se i Gesuiti nel loro motto scrivono (sequela) perinde ad cadaver, cioè fino alla morte, e la testimonianza di milioni di persone conferma quanto detto sopra, si può dire che don Roberto Malgesini ha seguito alla lettera Gesù di Nazaret.
Gli ultimi e i penultimi e i terzultimi… sono stati e sono tutti allo stesso livello per la carità cristiana. Don Roberto si occupava prevalentemente degli “ultimi” e per questo è stato anche criticato non poco. Bisogna chiarire che cosa si intende per “ultimi”. Forse che questa categoria sociale, e ancor di più morale, è costituita solo da chi vive in ristrettezze economiche estreme, al punto da non poter mettere in tavola due pasti al giorno? Si intendono i barboni, i senzacasa, i rovinati economicamente al punto da non avere più un tetto sopra la testa, che magari fino a poco tempo prima vivevano in certa agiatezza?
Certamente sì, ma ve ne sono anche altri, magari poveri, o poverissimi sotto altri profili, più spirituali. Anche questi sono, erano per don Roberto, “carne di Cristo”.
Qualcuno ha accusato questo presbitero di “buonismo”, nella recente tradizione di criticare chi ha attenzione disinteressata per gli altri, a volte confondendo il “buonismo” con il “politicamente corretto”, errore madornale!
Non conoscevo questo prete, ma mi pare che lui e il suo impegno nulla c’entrassero con il politically correct, ma piuttosto con l’incorrect…
Don Roberto non era “buonista”, ma buono, un uomo buono che riteneva la sua missione essere quella di guardare all’altro come un altro se stesso, come un “cristo” ambulante, un’occasione per le opere di misericordia spirituali e corporali, che sono la pratica del cristianesimo vero.
Dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi... è la semplice liturgia, cioè azione del popolo, che riconosce in ogni “tu” un “io”, anche se povero e lacero.
Chi lo ha ucciso non ha pensato a queste cose e ha agito per rabbia e per paura, perché occuparsi degli ultimi è anche incontrare la rabbia e la paura. I sentimenti di rabbia e paura sono parte delle condizioni dello spirito umano, sono sentimenti umani.
Ecco, don Roberto non ha avuto paura della paura, osando starne in mezzo anche a rischio della sua vita, che ha perduto per acquisirne una più alta, se si crede.
Mi pare che il filosofo e sociologo francese Edgar Morin colga nel segno con un aforisma una grande “verità”. Se in una crisi non vi è la capacità di riconsiderare i pensieri e i comportamenti precedenti, il rischio è di un declino certo della struttura colpita dalla crisi stessa.
rigenerazione cellulare
I soggetti coinvolti solitamente desiderano innanzitutto “tornare come prima“, ma è uno sbaglio. Si pensi a come si esce da una malattia individuale, da una guerra, sia pure locale, da un terremoto, da un’alluvione, da un incendio… Sono tante e tali le conseguenze psicologiche e pratiche che “tornare come si era prima” è impossibile, anzi il solo pensarlo è stupido.
Ora si pone il tema del dopo-Covid 19: tema complicato e… paradossalmente bellissimo. Sì, bellissimo.
Vediamo che cosa significa “rigenerare”, termine mutuato dalla fisiologia vegetale, animale (e umana): tornare ad una struttura che sia di nuovo integra in tutte le sue parti, organi e funzioni.
Da un punto di vista spirituale si ritiene che la “ri-generazione” possa essere costituita da una condizione di grazia, come si può dire nell’ambito della dottrina teologica cristiano cattolica (mediante il battesimo e la riconciliazione); altrettanto, però, si può dire di un recupero di dignità morale a livello sociale, come nel caso di persone che hanno conosciuto il carcere.
“Degenerazione”, invece, può significare processo di decadimento, decadenza, rovina, regresso, degradazione, deformazione, anormalità, alterazione… Ecco, forse il termine più adeguato sotto il profilo filosofico è “deformazione”, cioè perdita-della-forma, poiché gli altri termini elencati non sono sinonimi, ma coprono aree semantiche solo in parte condivise tra loro e con il termine principale.
Edgar Morin ritiene che la “forma” non possa essere mantenuta per sempre, ragione per la quale occorre pensare al cambiamento come condizione necessaria del percorso vitale, una sorta di Itinerarium mentis in hominem, parafrasando san Bonaventura da Bagnoregio (nel titolo del suo testo maggiore, Bonaventura, ispiratore della mia espressione, pone il nome di Dio, Deum, in luogo di quello dell’uomo), una via della mente che abbia come fine la piena realizzazione dell’uomo, secondo le sue possibilità, in base ai suoi talenti, là dove la parabola evangelica matteana può incontrare addirittura, da un lato il concetto di potenza/ possibilità versus atto di matrice aristotelica, e dall’altro la stessa volontà di potenza di Federico Nietzsche.
E poi la forma, come essenza e sostanza metafisica di ogni ente. E’ evidente allora come ogni ri-generazione si ponga come una ri-partenza da una forma in crisi verso una sua ri-organizzazione/ ri-strutturazione/ ri-conversione. Ecco: lo dico a chi non ha esperienza di economia aziendale. I tre termini testé elencati sono le modalità classiche del cambiamento organizzativo di un “ente economico”, come l’impresa (intra-presa) umana destinata a produrre reddito mediante la produzione di beni e la prestazione di servizi.
I tre termini di economia aziendale significano, nell’ordine: a) riorganizzazione come modifica organizzativa che utilizza le medesime risorse umane, logistiche e finanziarie già a disposizione; b) ristrutturazione come processo che non solo fa conto, in tutto o in parte delle risorse sopra elencate, ma abbisogna di nuove, soprattutto in termini di macchine e impianti, richiedendo così, molto spesso, investimenti finanziari significativi; c) riconversione, infine, descrive il più radicale processo di modifica dello status quo ante, poiché prevede una autentica rivoluzione perfino del prodotto/ servizio finora offerti. Un esempio è il caso di un’azienda che ha prodotto fino a un certo punto componenti in plastica, e in seguito si mette a produrre generi alimentari. L’esempio, molto radicale, calza perfettamente.
Nel processo di ri-generazione che sembra a questo punto necessario per evitare la degenerazione, si può prevedere ognuno dei tre processi sopra descritti nelle forme progressivamente di sempre più radicale modifica.
Non si fa fatica a tenere questo esempio così hard, così economicistico, per buono anche se messo a confronto con la dimensione antropologico-umanistica, psicologica e morale della persona. L’uomo stesso, in certe situazioni e momenti, ha bisogno di ri-generarsi, riorganizzando il pensiero, ristrutturando le proprie convinzioni e addirittura (ri)-convertendosi, al fine di compiere azioni maggiormente virtuose, epperò sapendole prima pensare. Siamo così alla metànoia, alla conversione, alla rigenerazione del cuore e della mente, in un momento come quello che stiamo vivendo, caro lettor mio!
Il cambiamento nella libertà della scelta, la libertà della scelta nel discernimento, sono i due processi della ragion logica indispensabili per ri-generare ciò che per le più varie ragioni può essersi nel tempo degenerato. Non si deve temere il cambiamento, pena un inevitabile processo di fossilizzazione e di decadimento.
Chi teme la ri-generazione è lo spirito pauroso, conservatore dell’inutile, di scarsa vista e pre-videnza, poiché il naturale flusso delle cose e della vita umana porta al cambiamento, sotto ogni profilo, da quello fisico a quello mentale. Chi non accetta questo percorso naturale è destinato a degenerare, senza possibilità di rimedio, subendo la volontà e le convenienze altrui. Il coraggio di cambiare è un coraggio naturale, tipico di chi vuole diventare-se-stesso, senza timore di mettersi in gioco, accettando il confronto con gli altri, che possono avere talenti e intelligenza superiore o inferiore, comunque di tipo diverso, e alla fine riconoscendo la possibilità degli altri così come la propria, di vivere e di crescere.
Il rischio della paura del cambiamento è presente in tutte le strutture organizzate, a partire dalle imprese economiche: colà spesso alberga il timore di cui sopra, che i vertici, se sono accorti, devono smascherare e togliere di mezzo, nell’interesse per il Bene comune, se questo è il condiviso Valore.
…ci sta regalando questo 20 “quasi” 20, ultimo anno del secondo decennio del terzo millennio, poiché sarà pienamente 2020 solo alle 24.00 del 31 Dicembre prossimo venturo. Ricordo la mia ira quando, in vista del e durante il Capodanno del 2000 molti si esaltavano per l’arrivo del Terzo millennio, e io ad affannarmi a dire che no, no e no, perché quello era l’ultimo Capodanno del Secondo millennio. Niente. Duri (di cervice) al pezzo dell’insipienza. Anche diversi laureati nel novero, pergiove! Perfino un dottore in matematica e informatica.
Ogni santa mattina, quando guardo fuori prima delle sette i rami e le foglie vibrano, scossi dal vento. Se esci e la temperatura sfiora i venti gradi, ti pare più bassa, perché l’aria è fresca, come nelle prime primavere della vita.
Una primavera che ci porta via Ezio Bosso, ma no, non ce lo porta via, semplicemente ora è in un “altrove” ancora più presente di prima, solo senza dolore. Il vento è come un messaggio che viene da molto lontano, specialmente il nostro Vento dell’Est, da pianure sconfinate, da oltre fiumi immensi come il Danubio e il Dniepr, forse anche dal Volga e dall’Ural. Si chiama buriàn, che diventa bora a Trieste, appena di qua del confine. confine
Ecco, è mancato Ezio Bosso, in questa primavera piena di vento, ma la musica vive per sempre. La sua musica e la musica in generale. La musica è come il vento, che viene e che va, “Il vento va e poi ritorna“, scriveva Wladimir Bukovskj affacciandosi sulla steppa dalle finestre di casa sua. Di là viene il buriàn che supera l’immensa pianura sarmatica e i monti Carpazi, per infilarsi poi nella Krajina furlana attraverso il Passo Zagradan sul monte Kolovrat, onusto di storia. E di poca gloria, per noi Italiani.
Lo racconto in molti modi questo percorso del vento. Lo ho raccontato e lo racconterò ancora, mio caro lettor paziente.
Lo ho incontrato ieri pomeriggio su qualche rettilineo della Bassa furlana dove andai in bicicletta, fidandomi del controllo dei dolorini e della resa dei muscoli. Ho rivisto le sorgive acque dello Stella, l’Anaxum latino di Plinio, con tutte le sfumature del verde, color naturae pictus, sorpassando famigliole e pedoni viandanti. Li ho salutati tutti, ricevendo in cambio un sorriso, diversamente da qualche mese fa, quando ognuno andava muto e diritto per la sua strada, disattento al suo simile che gli veniva incontro.
In montagna ci si saluta sempre, man mano che cresce l’altitudine, e la fatica e gli erti sentieri selezionano gli esseri umani. Un giorno fui sulla cima di un monte, il dolomitico Averau, che era ripido da dove lo avevo salito, una ferrata lungo un camino di circa 400 metri, e comodo, accessibile perfino alle automobili, dall’altra parte. Là in cima vi era un rifugio e signore in pelliccia a prendere il sole. Non ebbi cuore di salutarle. Mi facevano pena. Snobismo il mio, o il loro?
E’ cambiato anche il silenzio, più pieno, quasi come in un deserto di verde e di acque correnti. E queste giornate infinite contengono tutto quello che vuoi fare: scrivere, parlare, muoverti, comprare qualcosa, telefonare a qualcuno che non senti da tempo, dialogare con i mezzi telematici che fan risparmiare lavoro e fatica. Giorni lunghissimi di maggio, in attesa di giornate ancora più immense, quando giugno prelude all’estate.
Osservare Venezia nello splendore ineguagliato della sua storia, e le piazze di Napoli e il Duomo mediolanense, possente, bianco come un angelo di pietra. Ascoltare Francesco che si ricorda di tutti, uno per uno, mestiere per mestiere, vita per vita, fatica per fatica. Ricordarsi di due ricorrenze: i 50 anni dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori che il ministro Brodolini volle e il prof Giugni redasse.
Morì poche settimane dopo il compagno Giacomo e fu immediatamente accolto nel paradiso dei giusti, secondo il mio parere di teologo/ filosofo eticista. Un ateo cristiano, come molti uomini e donne buoni; i cent’anni dalla nascita di papa Karol di Polonia, da Wadowice, il coraggio, la determinazione, la testimonianza. Papa Wojtyla ci mostrò la dignità della vita, quella fine di marzo 2005, appeso al Crocifisso, mentre il cardinale Ratzinger, con in mano la Croce, il Venerdì Santo denunziò la sporcizia presente nella Chiesa stessa, Sancta et Maculata, Sancta et Meretrix, sulle tracce di sant’Agostino; così come lo stesso, da papa Benedetto, ci mostrò la dignità del lavoro, dell’impegno responsabile (ingravescente aetate, ricordo ancora quell’ablativo assoluto che scosse molti, vale a dire, ad sensum, “essendo il lavoro di pastore sempre più faticoso da sopportare alla mia età“), e lui, da lavoratore della mente e della cultura non voleva essere sopportato come un peso. Preferì il ritiro della preghiera, primo compito del pastore di anime.
Penso che anche il quotidiano comunista Il Manifesto, che lo aveva salutato, quando fu eletto, come “Pastore tedesco”, volendo significare in metafora che quell’uomo era un custode rigoroso, anzi rigido, della Tradizione, del Depositum fidei, e del Magistero della Chiesa, ebbe modo di apprezzare quella decisione ispirata a una profonda umiltà e senso di responsabilità personale.
Il card Ratzinger riuscì anche a farmi mandare un apprezzamento e un plauso quando ricevette il mio libro sull’Eros nella Bibbia, non per iscritto, ma tramite un messaggio Whattsapp. Ricordo che fu lui, così anziano e “tradizionalista” secondo molti, ad inaugurare l’account twitter “pontifex”, alla faccia di chi lo ritiene un mero passatista. Non è così: chi ha buona volontà, legga le sue chiarissime Lettere encicliche Deus Caritas est e Caritas in veritate, per capire chi è veramente quest’uomo colto e umile. E la biografia in tre volumi di Gesù di Nazaret, lettura per tutti.
Questa è la mia primavera piena di vento, che passa ogni giorno diverso che il buon Dio ci manda.
È morta una signora qualsiasi, Elisabetta seconda di Windsor Gotha
L’ingiusta damnatio memoriae di Bettino Craxi
Segnali di vita, nonostante tutto
Le miserie della politica attuale
Il senso e il valore della vita
Prof. Renato Pilutti – L’Homo philosophicus ai tempi del Covid e dopo…
Renato in dialogo filosofico con le anatre
…e la Vita continua
Saluto ai colleghi di Phronesis
L’AMORE È UN’IMPRESA FENOMENALE
Riflessioni mattutine sulla politica
SORGIVE SORGENTI
LA FASE DUE IL FILOSOFO
LA PRASSI FILOSOFICA – Prof. Stefano Zampieri
AUTOCONSULENZA – Prof. Giorgio Giacometti
unità e distinzione nella relazione
cos’è la consulenza filosofica
Cos’è la consulenza filosofica – Dott. Neri Pollastri
Intervista
L'intervista completa si trova tra i video
Manifesto per la filosofia. La petizione per inserirla in tutte le scuole: ‘così si apre la mente’
"Gentile Lettrice, Caro Lettore,
LA FILOSOFIA E' UN SAPERE ANTICHISSIMO E MODERNO CHE SERVE A RIFLETTERE SUL SENSO DELLA VITA E DELLE COSE;
SERVE A INQUADRARE TEMI E PROBLEMI CON LOGICA E CHIAREZZA;
SERVE QUANDO SI STA BENE E, ANCHE DI PIU', QUANDO SI STA MALE;
SERVE A TUTTE LE ETA';
SERVE PER LA RAGIONE E PER IL SENTIMENTO;
SERVE...
Se vuoi, se ne senti il bisogno puoi scrivermi (eagle@qnetmail.it) o telefonarmi (339.7450745), anche per fissare un incontro"
PhD - Prof. Dott. Renato PILUTTI, Filosofo pratico (ex L. 4/2013, Associazione nazionale per la Consulenza filosofica Phronesis) e Teologo
PUBBLICAZIONI
Renato Pilutti – L’uomo e l’altro
Renato Pilutti – Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto
Renato Pilutti e Fulvio Comin – RIZKO
LA SOGLIA DEL PENSIERO
Cronache dall’Humanovirus
Lettere sull’umanismo
Della libertà
Recensione “DELLA LIBERTA'”
Davide Ubizzo
La Verità della Parola e la Parola della Verità
Gli occhi del bosco
Recensione de “GLI OCCHI DEL BOSCO”
prof. Stefano Zampieri
El cielo no tiene frontera
IL CANTO CONCORDE (Del trovatore inesistente)
LA PAROLA E I SIMBOLI NELLA BIBBIA PER UNA TEOLOGIA DELL’EROS
“LA GROTTA DELLE DUJE BABE” e altri racconti
"LA GROTTA DELLE DUJE BABE"
e altri racconti
Si, bene, ciao! Dall’Homo Videns all’Homo Sapiens
Comunicare stanca (chi comunica e chi ascolta)
L’eros come struttura ermeneutica per la comprensione del senso
Discorsi in diagonale
Il filo trasparente di Sofia
Per una critica dell’io-centrismo cosmico
La sapienza del koala
Gente e Lavoro – la Fatica quotidiana e la Passione di Speranza
L’uomo e l’altro – Le Ragioni di un Progetto di Consulenza Filosofica
Educare all’Infelicità
Il viaggio di Johann Rheinwald
Alla ricerca del bene
In transitu meo – liriche 1968 – 2004
Il senso delle cose – parole e dialoghi per riflettere