Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

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C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate

Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.

Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.

Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.

C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.

Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei MykoianMig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.

Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?

Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).

Et de hoc argumento, satis.

Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?

In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.

E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.

Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.

Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.

Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!

E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.

Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?

Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.

Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.

Continuo con le domande…

E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).

Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?

Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?

Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.

Il radicalismo “sbagliato” e quello “giusto”

Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.

Giulio Alessio


Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.

In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.

Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.

Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.

Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.

Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).

Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.

Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.

I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:

  • la completa separazione tra Stato e Chiesa;
  • il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
  • la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
  • l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
  • l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
  • l’abolizione della pena di morte;
  • la tassazione progressiva;
  • l’istruzione gratuita e obbligatoria;
  • l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
  • il suffragio universale per uomini e donne;
  • un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
  • sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
  • la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!

Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).

Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.

I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.

Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.

Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.

Francesco Saverio Nitti

Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.

Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.

Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.

Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.

Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).

Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.

Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.

Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).

Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.

L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.

Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.

Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!

Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.

Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.

Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.

Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.

NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.

Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate alla struttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.

Nessuno escluso, caro lettor mio.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

Per scrivere questo pezzo traggo ispirazione da “Mellog”, programma di Radio 24, egregiamente moderato da Gianluca Nicoletti (“Mellog” è – si può dire – l’alter ego qualitativo, a mio avviso – di quella schifezza morale de “La zanzara”, quest’ultima trasmissione evidentemente pensata e programmata per l’80% della “gaussiana” d’Italia, che io sostengo essere quella adatta agli “intellettivamente indifesi”, condotta e “moderata” (per dire) da due signori che fanno penosamente finta di litigare (ma questi due professionisti pensano veramente che, e sia pure quello-che-è il tipo di pubblico che li ascolta e che telefona facendosi spesso sbeffeggiare e insultare dai due conduttori, almeno qualcuno di tra quel pubblico non si accorga della loro quotidiana pantomima?), Parenzo per la sinistra e Cruciani per la destra, la trasmissione per la “pancia dell’Italia”, come spiega Cruciani, nel silenzio assoluto dell’editore Confindustriale, al cui attuale Presidente ebbi perfino a scrivere una “Riservata-Personale”), che ogni dì (parlo di “Mellog”) propone un civile dibattito su temi di societas fatti di ethos, di politica, di cultura e di economia. Un tema tra altri, attualissimo, sulla microcriminalità metropolitana; la domanda: come ci si deve comportare con le scippatrici seriali delle stazioni, organizzate in bande di minorenni? Le tre ipotesi proposte da Nicoletti alla discussione e alla scelta dei radioascoltatori: a) reagire ai tentativi di furto con destrezza, anche rudemente (come peraltro è già capitato), che è risultata “la più votata”, b) denunziare i fatti alle autorità di polizia, già sapendo che nulla accade alle protagoniste organizzate per piccole bande, dopo una prima identificazione, c) suggerire al legislatore nazionale e al governo cittadino di mettere a punto degli apparati telematici atti ad impedire che le furfantelle entrino nelle stazioni di treni e metrò per dar vita alle loro “imprese”…

Un bel trilemma.

Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.

Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.

Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.

Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.

“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».

Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».

Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».

Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”

Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?

Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.

Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?

Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.

E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.

L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).

La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.

Plausibili e plurime ragioni per le quali si può affermare che, in base a un articolato e fondato giudizio, l’Impero Romano è stato la più grande (nel senso del valore umano e morale), importante e lungimirante struttura politica, culturale e sociale di tutta la Storia umana

A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.

Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.

Lucio Anneo Seneca

A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.

La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.

Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.

Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.

Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.

Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.

Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.

Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.

La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.

La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.

Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.

Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.

Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum (copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).

Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).

INAUDITE STUPIDAGGINI A BOLOGNA! …e bravo “compagno” sindaco! Il termine “patriota” tolto dalle vie di Bologna che, secondo Lei, sarebbe la città più progressista d’Italia. Sono allibito ma non meravigliato, perché la idiotissima “cancel culture” alligna proprio (con mio sommo dispiacere) anche nel partito oramai ulteriormente orientato alla ZTL (cioè votato prevalentemente da (o “a”, tanto è quasi la stessa cosa) chi abita nelle Zone a Traffico Limitato, che non è detto condividano l’operato del signor Sindaco, anzi ho notizie di prima mano proprio dalla ZTL di quella nobile Città a me carissima, ed ecco che proprio non è la stessa cosa il “da” o l'”a”!, che così non è; si preoccupi, Sindaco, si preoccupi…)

Per non sbagliarmi citerò – virgolettando – l’articoletto pubblicato oggi, 11 Marzo 2023, sul Currierun de Milan.

“(omissis) …prova a riscrivere la toponomastica: il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini “partigiano” o “partigiana” e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine “patriota”.

Bologna, via la parola “patriota” dalle strade dei personaggi della Resistenza: “Saranno definiti partigiani”

La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità (chissà perché? ndr), ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. E’ lo spirito (idiota, ndr) del tempo: sui social ci sono parlamentari di FdI che postano la foto di Meloni augurando una “buona giornata ai patrioti”, ma la risposta non sta nel cancellare la parola sotto ai nomi di chi ha combattuto il nazifascismo.

Per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Nievo…, ndr), e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: “Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi“. Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia, non serve pasticciare con la storia.”

Condivido e sottoscrivo ogni parola e ogni riga dell’articolo qui riportato, aggiungendo solo che, veramente, ogni giorno che viene pare avere la sua sorpresa inadeguata, quand’anche ridicola, e a volte, come in questo caso, storicamente e moralmente offensiva. Chissà se vi sarà qualche buona persona, e intelligente, della sinistra bolognese, che si voglia opporre a questa autentica imbecillità. Dico subito che c’è, io so che c’è!

Lo so, in buona compagnia, non solo del Professor Luca Alessandrini, ma anche del Professor Giovanni Orsina, e di chissà quanti altri saggi cittadini bolognesi di quella sinistra democratica e gradualista di cui Bologna va giustamente fiera, come chi mi ha scritto in tema.

Mi chiedo anche se il saggio compagno Bonaccini abbia condiviso la scelta. Ne dubito fortemente. Forse lo condivide chi lo ha “battuto” alle primarie del PD, ma non ne sono del tutto convinto, perché attribuisco alla neo Segretaria qualche discreta facoltà di riflessione, se non altro perché giovane e senza zavorre mentali di sorta.

Con questa decisione, non so se il Signor Sindaco se ne rende conto, la destra, e Fratelli d’Italia in particolare, si possono fregare le mani, perché a questo punto possono annettersi completamente il concetto, il lemma, il termine, la parola, in definitiva la semantica storica di “Patrioti” italiani, comprendendo anche quelli tipo Mazzini, Garibaldi e Nievo, tentativo già fatto da sor Benito, non a caso sozialista romagnolo, prima del suo fascistismo fascista.

Se il Signor Sindaco sapesse chi mi ha scritto condividendo – in toto – la mia opinione, forse si farebbe qualche domandina.

Le quattro anatre

Guccini cantava “cinque anatre volano a Sud…”, io invece, in una mattinata marzolina ero nella grande piazza della città. Una della più grandi d’Italia, la seconda del Nordest dopo il Prato della Valle di Padova, a Udine: Piazza I Maggio, sovrastata dal leggendario Castello, che è una collina (residuo della morena glaciale di migliaia di anni fa) da cui si tramanda che il re unno Attila ammirò l’incendio di Aquileia. Leggende. Tutt’intorno ampie strade e palazzi, luoghi di convivio e per manifestazioni e passeggio di signore, di uomini e cani.

cinque anatre stanno…

Sullo sfondo stanno il nobile Liceo ginnasio della mia gioventù, la Basilica dedicata alla Madonna delle Grazie, che fece un’antica grazia e poi tante altre, custodita dai Servi di Maria, tra i quali qualche anno fa meditava e insegnava il Padre David da Coderno di Sedegliano. Poeta, predicatore. Così mistico ma a volte scostante, e perfino un po’ antipatico. Furlano, a tre e sessanta, come c’a si dîs.

A un tratto lo starnazzare improvviso di un uccello mi fa girare lo sguardo. Un’anatra selvatica marroncina, una femmina, svolazza per sfuggire all’assalto di tre coloratissimi maschi che, si vede, la “desiderano”. Commento con un passante: “Sono germani reali, i tre maschi sono fatti come noi umani maschi“. Ci si sorride.

Lo starnazzamento continua perché i tre maschi inseguono decisi la femmina che li distanzia con piccoli svolazzi. Lo straordinario accade subito dopo… Prima uno degli “anatri” comincia a staccarsi da gruppo e si ferma, poi un secondo, si ferma. Nel frattempo la femmina, volata avanti per una quarantina di metri, sta ferma. Allora, il terzo maschio, camminando lentamente ma con decisione si avvicina alla femmina, che lo sta aspettando! Raggiuntala, si mettono a camminare l’uno al fianco dell’altra, come un signore e una signora, verso di me che intanto li avevo preceduti.

Alle mie spalle nel frattempo stavano arrivando dei bimbi; si vedeva che erano un paio di classi delle elementari con le rispettive maestre. Mi rivolgo alle due signore dicendo: “Buongiorno maestre, posso spiegare ai bambini che cosa ho appena visto“. Il loro sorriso mi dà la parola. I bimbi mi guardano, mi ascoltano attenti e nel contempo si accorgono dei due volatili che si stanno avvicinando.

Non finisco di spiegare che già i piccoli e le piccole hanno in mano i telefonini e con gridolini di meraviglia si mettono a fotografare i due animali, che paiono mettersi in posa.

Il gruppo si ferma, commenti, parole, qualche starnazzo, ma quasi “gentile”, da parte dei due uccelli che sembrano molto interessati all’incontro. I bimbi osservano con interesse il dimorfismo sessuale tra i due animai e chiedono alle maestre: “Perché il maschio è più bello della femmina?” Infatti il “germano” è multicolore e di un verde cangiante sul collo, mentre la “germana” è (solo) di un marroncino diffuso. Le maestre esitano a rispondere, poi lo fanno con qualche imbarazzo: “Perché i maschi devono interessare le femmine, farsi scegliere, e allora madre natura li ha resi più appariscenti…, così possono avere più possibilità di trovare una compagna e di far nascere i paperini…” Silenzio. Chissà cosa passava per ognuna di quelle testoline. Forse un paragone con gli esseri umani, forse.

Quando ero bambino come loro, sette/ ottenne, non sapevo bene come nascessero i paperini, e neppure come venissero al mondo i bambini.

Me ne vado pensando che io sono nato e vissuto tra gli animali da cortile, non nel pollaio, ma contiguo al pollaio, e per me vedere galline, anatre, oche, tacchini e conigli, e anche il maiale, era il quotidiano, e per quei bambini no.

Un mondo cambiato, in qualche modo non in meglio.

La misura della disperazione, la forza della speranza

…nessuno può avere la precisa nozione della misura della disperazione, da un lato, e della forza della propria speranza, dall’altro, al posto di uno che sale sopra una carretta del mare, consegnando anche otto o novemila euro a chi gli promette di portarlo nella Tierra prometida, da terre di guerra, di miseria e di paura. Per più di mille miglia marine in pieno inverno e con il mare forza cinque, abbracciato ai propri figli piccoli e magari a una moglie incinta.

Cutro di Calabria

Si possono, però, avere idee sull’insieme del problema. Parto da una domanda: è possibile per l’Italia e per l’Europa accogliere una massa umana che fugge da disastri inenarrabili nel numero di svariati milioni di persone? Certamente, allo stato attuale, no. E dunque quale è forse il tema principale di questo aspetto e momento della storia del mondo? Mi pare si possa dire che è il modello di sviluppo e la distribuzione delle risorse, assolutamente iniquo tra le varie parti del mondo.

Le risorse sono a disposizione senza una razionale ed eticamente fondata modalità di attribuzione: dalle risorse energetiche, all’acqua potabile, al cibo, alla casa, ai presidi sanitari, al lavoro e quindi al reddito da lavoro. Molte parti del mondo, vaste zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America meridionale sono ancora strutturate sulla base dei residui storico-politici del primo colonialismo, o pervasi da un nuovo modello di colonialismo.

Francia e Gran Bretagna in primis, cui hanno fatto seguito moltiplicando la presenza e il potere economico-militare, gli USA, tengono ancora retaggi significativi dei loro domini coloniali formalmente passati di mano a governi locali. Un esempio: il FCA, cioè il Franco coloniale ha ancora corso nelle Repubbliche centroafricane, di tradizione francese e francofona. Un esempio nell’esempio: da soli trent’anni l’Alto Volta ha assunto la denominazione autoctona di Burkina Faso. Ancora: il Presidente Mitterrand negli anni ’90 poteva atterrare a Ouagadougou con una scorta militare tale da far rimanere nascosto in casa il legittimo Presidente della Repubblica Sankara.

Occorre dunque organizzarsi per un futuro che è già qui, demograficamente, socialmente, culturalmente, economicamente.

E ora una domanda: che cosa ci fa la Cina in Africa? Sta investendo miliardi di dollari in infrastrutture, fabbriche, porti, aeroporti, strade, aziende produttive, ingraziandosi le popolazioni e i politici locali, in paesi dove crea e finanzia lavoro. Paradossalmente bisognerebbe imitarla, ma a modo nostro, con il nostro modello (imperfettamente) democratico.

Che cosa ha fatto Angela Merkel a partire dagli inizi del suo mandato oltre una ventina di anni fa? Ha integrato in Germania circa quattro milioni di lavoratori turchi e dal 2011, quando è scoppiata la guerra civile in Siria ha aperto la porta ad almeno un milione di Siriani.

Altri dati, quelli demografici: in Italia abbiamo un tasso di fertilità per coppia di 1,2. Vale a dire che nel 2050 gli “italiani” saranno quattro milioni di meno… E noi continuiamo ad avere una legislazione che non consente un rapido inserimento giuridico nella “nazione italiana”, non solo a chi qui lavora da anni, ma nemmeno ai loro figli nati in Italia, che devono attendere il diciottesimo anno di età per “essere e soprattutto sentirsi” Italiani. Sul tema vi sono anche idee diverse, come quelle di chi non ritiene più molto importante sentirsi appartenere a una “nazione”, visto dove-è-ormai-andato-il-mondo negli ultimi decenni, preferendo un sentirsi “cittadino-del-mondo”, cosmopolita, se non apolide.

Di contro, la Francia, che sta facendo politiche attive per la famiglia da almeno trent’anni ha un tasso di fertilità per coppia di 1,85!

Forse allora occorre un progetto di due tipi e con due obiettivi, distinti ma conciliabili: a) una riforma delle normative per il riconoscimento della nazionalità italiana (e/o di altre Nazioni) che la renda possibile in tempi più rapidi, certamente con tutte le opportune garanzie culturali di “accettazione dell’Italia” in tutte le sue sfaccettature costituzionali di cittadinanza democratica e b) un progetto di investimenti colossale nelle nazioni, soprattutto africane, dove anche tradizionalmente, storicamente e anche logisticamente possiamo avere una voce in capitolo.

Il tema è, in generale, la distribuzione delle risorse, a partire da quelle energetiche, nel mondo, secondo principi – ancor di più – di razionalità, piuttosto che solamente di un’equità moralmente fondata.

Circa quanto accade in mare o su terreni aspri ed insidiosi, quali quelli della cosiddetta “rotta balcanica”, occorre rivedere le regole di ingaggio per il soccorso in mare, ma questo è solo uno dei temi e progetti.

Si parla di riforma dell’Accordo di Dublino, di contributo dell’Unione Europea per l’accoglienza. Tutto sacrosanto, ma non sufficiente…

Ciò che mi preoccupa è l’incapacità della sinistra italiana, ora che sta cercando di ristrutturarsi su una linea politica (opportunisticamente) radicale (Conte + Schlein + Landini), non riesca a contare veramente, proprio perché si sta spostando sempre più su posizioni che il-più-del-Paese non sceglie, basti osservare i risultati delle ultime elezioni, con questi tre racconti: a) di un fascismo redivivo, cosa assurda, su cui però occorre un comportamento diverso da quello del ministro Valditara e più consono, analogamente a quello tenuto dalla preside del Liceo classico Michelangiolo di Firenze, b) di una legislazione sociale che sarebbe liberticida e ingiusta (Jobs act), cosa non vera; c) di una prevalenza dell’attenzione ai diritti civili (lgbtq+) e scarsa attenzione a quelli sociali (Statuto dei Lavori).

Con la “linea di Firenze”, per modo di dire, non c’è molta speranza di costruire linee politiche che dialetticamente riescano a competere con una destra vincente, e ciò si riverserà anche sul tema macro delle migrazioni e sulle misure di grande politica sovranazionale necessarie, che sono da assumere con convinzione.

Qualche idea sul Partito Democratico dopo il Congresso. Espongo le ragioni per cui ritengo la segretaria neo eletta inadeguata, impreparata, inutilmente aggressiva, e forse un po’ “pericolosa” per un PD riformista e socialista democratico. Lei sembra piuttosto – per il momento – la mèntore di una specie strana di “Partito radicale di massa” (chissà quanto grande possa essere questa “massa”), però senza il carisma di Marco Pannella. In sintesi, e ad esempio, non mi pare sia in grado di spiegare “come” proporre un nuovo “patto sociale” (neanche si ritenesse un novello Jean-Jacques Rousseau), e dove si possano trovare le risorse per sostenerlo, perché, delle due ipotesi obbligate l’una: o 1) si aumenta la spesa pubblica o 2) le tasse, e ambedue le soluzioni sono improponibili, antipopolari e poco attraenti per l’elettorato, se non quello vicino ai 5S, i quali ritengono, con le loro proposte, che il denaro si possa fabbricare con la macchinetta. Un altro “progetto” si sente aleggiare dalle sue parti: portare la settimana lavorativa da 40 a 32 ore, pagate 40: se lei vuole (non sa, probabilmente, neanche quello che vuole) distruggere la seconda industria europea, che produce la gran parte del PIL italiano, questo fatto nefasto accadrà. Ma non accadrà, perché le forze sociali e chi, anche nel PD, ha uso di ragione, glielo impedirà. Che disgrazia: da uomo di sinistra mi tocca sentirmi – in qualche modo – garantito da un governo di destra. Che malinconia! Infine, propongo due opinioni filosofico politiche diverse tra loro, e infine la mia

La beatificazione in vita della giovane donna (ricordo ai miei cari lettori che la Chiesa, prima di procedere a una beatificazione istruisce un lungo e complicato procedimento per esaminare la biografia del “candidato” alla beatitudine pubblica, e poi agli onori degli altari, la santificazione, che inizia ben dopo la morte dello stesso/a, nonché testimonianze plurime di persone che lo/a abbiano conosciuto/a bene, e infine un avvenimento che si possa definire plausibilmente “miracoloso”, in capo al/la beatificando/a) è già in corso (si vede che l’attuale mondo PD si ritiene più competente – sul tema – della bimillenaria Santa Madre Chiesa), ma…

vedere dalle parti della segretaria neoeletta vecchi arnesi immarcescibili come Franceschini, di quarantennale anzianità parlamentare, ministro più volte, suo predecessore come segretario nazionale (tra i dieci succedutisi dell’ultimo quindicennio), o il greve Bettini de rroma, già illustra in qualche modo alcuni aspetti della “grande novità” schleiniana.

Hovvìa! (per dirla alla fiorentina), siamo al nuovo!

…peccato che non ci sia più Walter nei dintorni

Se ho capito bene, sintetizzando le sue priorità paiono già essere le seguenti: a) attenzione primaria al mondo Lgbtq+ dove i temi generali delle famiglie comunque declinate, anche “arcobaleno”, non sono focalizzati se non genericamente, e prevalentemente orientate verso i contenuti del Disegno di Legge Zan (grazieadio mai approvato), che, così come è potrebbe prefigurare la figura di un reato d’opinione perfino nell’ambito di questo mio testo; b) ambiente e clima, ma non si capisce in che senso, modo e utilizzo delle risorse; c) diritti senza doveri (questi ultimi mai da lei citati, ma è un costume a sinistra, ormai da anni, da dopo che finirono i tempi dei grandi compagni Enrico Berlinguer e Pietro Nenni e, se si vuole, anche Claudio Martelli); d) conflitto russo-ucraino su cui dovrà esprimersi, ora che è esposta al giudizio interno ed esterno dei suoi e degli altri… etc.

Ho già scritto qualche settimana fa che questa giovine signora avrà visto e interloquito in tutta la sua vita con meno lavoratori e imprenditori di quanti ne incontri io in un giorno solo. Ed è tutto dire, quando la si sente già pontificare su qualcosa che non conosce, se non pochissimo, per ragioni anagrafiche e biografiche, se si sa qualcosa di lei.

E c’è da sperare che non sposi del tutto anche la cancel culture e il politically correct

Parto con la mia riflessione critica e filosofico politica dai processi di formazione dell’attuale “personale politico” dei partiti in vista di un’entrata nelle istituzioni elettive. Ricordo ab initio, per i lettori più giovani, come si selezionava chi era interessato alla politica fino a un paio di decenni fa o poco più: chi voleva fare politica si avvicinava a una sezione di partito di paese o di quartiere cittadino; dopo avere partecipato ad alcune prime riunioni, si dava disponibile a volantinare, attaccare manifesti, partecipare ad assemblee e comizi; successivamente poteva venire proposto come candidato/a alle elezioni dei comitati di circoscrizione (nelle città), e successivamente alle elezioni di un consiglio comunale. Se poi l’aspirante ad una attività politica manifestava qualità, poteva venire nominato/ assessore fino ad essere anche eletto sindaco. Oppure. seguendo un altro percorso, ma anche proseguendo nel primo, poteva essere candidato ai consigli provinciali, regionali e perfino in Parlamento (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica).

La prosecuzione della carriera poteva arrivare in seguito anche a un Sottosegretariato o a un Ministero, e infine alla Presidenza del Consiglio e/o della Repubblica, oppure, dalla nascita dell’Unione europea, a deputato del Parlamento di Strasburgo o componente degli Organismi di Bruxelles.

Ora, quale è stato il percorso di questa signora? D’accordo che i tempi, i mezzi e i modi sono profondamente cambiati dai decenni che partono dal Dopoguerra fino al Duemila, che la società è cambiata nella sua costituzione di classe in stratificazioni sociologiche assolutamente nuove. Non lo conosco bene, salvo alcune notizie trapelate sui media dopo l’esplosiva acquisizione di popolarità della “nostra”. Per me, che seguo la politica da prima che lei nascesse, è un mistero: la ho vista spuntare dal nulla come un fungo nell’umidità del bosco.

Prima di dire la mia propongo due posizioni antitetiche che ho registrato da parte di due amici filosofi. Il primo sostiene ironicamente che c’è addirittura da dubitare sulla sincerità di un eventuale suo giuramento di fedeltà alla Repubblica patria, nel caso in cui si trovasse a farlo dinnanzi al Presidente della Repubblica, ricevendo magari un incarico di Governo. Il secondo collega filosofo, proclamandosi apolide o perlomeno cosmopolita, non è interessato alla fedeltà alla Patria Italia, per cui non ritiene che sia indispensabile lo sia anche la suddetta. Questo secondo collega è addirittura sarcastico, nei toni. Il primo ironico, il secondo sarcastico, due modi certamente in qualche modo e misura filosofici di ragionare.

Io provo a stare sul pezzo in modo diverso: osservo le manovre susseguenti al congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione; presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e di sociologia politica da Lucia Annunziata [riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista], mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci a Berlinguer, e recuperando perfino [!!!] il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in “esilio”, termine giuridicamente improprio, ma evocativo di uno stato della situazione colmo di un grande malessere etico e politico. La tristezza continua a sinistra.

Poi ci sono i “vecchi” saggi, brave persone alla Cuperlo, che credono ancora al metodo correntizio, magari non à la Franceschini, che è una vecchia lenza democristiana, senza accorgersi che il possibile-mondo-di-una-“sinistra-possibile” [l’aggettivo non ha nulla a che vedere con il movimentino del simpatico Civati di Milàn] va da tutt’altra parte.

A guardare lo spettacolo, anche dopo il Congresso, vien da pensare immediatamente che pare il set di una commedia tragicomica tendente al grottesco. Su un lato ci sono coloro che non si limitano a criticare Renzi & Calenda, mentre dall’altra ci sono quelli, come la Segretaria appena eletta, che starebbero con Conte notte e giorno. Povero “Partito storico della sinistra”! Questi si chiamano Speranza, Provenzano, Bettini, ma anche Bersani che ha rinunziato alle fatiche improbe della prima fila. Dal loro punto di vista non si sono accorti che stanno correndo dietro a uno che è ontologicamente un “notabile democristiano fuori tempo massimo”. e di più non dico su un personaggio sul quale mi sono già esercitato troppo, e non a suo vantaggio.

Non è che i primi debbano accodarsi a Renzi & C., ma mi pare evidente che l’unica strada percorribile per una “sinistra possibile” sia quella capace di dialogare con la contemporaneità dei nuovi mezzi di comunicazione, con i “valori” delle ultime generazioni, che non hanno dimenticato la solidarietà e i sacri principi di eguaglianza evangelico-socialista, ma vogliono declinarla secondo il principio di equità, che è l’epicheia aristotelica.

Il principio di uguaglianza è da collocare solamente nel giudizio antropologico della struttura di persona, nella pari dignità di ogni essere umano, ma non nella struttura di personalità, che dice irriducibile differenza, unicità mia, tua, sua, caro lettore! Una sinistra che non si accorge che oggi i giovani desiderano rappresentarsi nella vita in modo diverso da come lo volevano i giovani anche solo di mezzo secolo fa, non può accostarli, e nemmeno portarli a condividere una lotta politica.

E questo lo spiegano la sociologia e l’antropologia culturale: oggi, il valore più importante percepito è la possibilità di essere sé stessi, non di essere uguali a tutti gli altri! Una sinistra capace di dialogare con il tempo attuale deve cominciare a capire che il valore principale non è l’uguaglianza, ma l’equità nella libertà. Ancora Aristotele e Tommaso d’Aquino. I signori sopra citati non studiano più [se mai hanno studiato]. Studino con umiltà la filosofia morale classica, dallo Stagirita fino a Kant, per saper declinare anche il principio del dover-essere-come-lo-richiede-la-realtà-fattuale-attuale, che non è quella di Marx, di Lenin e di Gramsci, ma neanche quella di Berlinguer e di Gorbacev.

Se una “sinistra possibile” vuole vincere di nuovo differenziandosi dalle destre al potere, soprattutto da quella salviniana, deve saper declinare valori ritenuti “di destra”, come il successo individuale e il non-collettivismo, con il rispetto dell’individuo-persona che non è ascrivibile a nessun operaio-massa modernamente declinato.

Non sto proponendo un relativismo etico all’americana, né un liberismo economico senza leggi regolatrici, che ritengo indispensabili, soprattutto a livello sovra-statuale [una UE vera!], ma uno sforzo di comprensione dei nuovi linguaggi che rappresentano un mondo nuovo, preoccupante per molti aspetti [clima, guerre, pandemie…], ma pieno di potenzialità straordinarie.

Una “sinistra possibile” non teme di concordare con la cultura politica di destra sul tema delle migrazioni, e si misura non sul ruolo delle ONG o su porti aperti o chiusi, ma sullo sviluppo del Sud del mondo, rischiando anche topiche ed errori. Un esempio, se il da me [e non dal PD, ahi ahi] rimpianto ministro Minniti [di sinistra!] ha fatto accordi con i Libici di dubbia efficacia e con esiti morali anche negativi, lo spirito della sua iniziativa di “lavorare in Africa” era giusto, corretto, eticamente fondato e politicamente lungimirante.

Una “sinistra possibile” non tema di misurarsi su un tema controverso come il “reddito di cittadinanza” di matrice grillina, e accetti di selezionarne rigorosamente i beneficiari, smettendo di ululare, una cum travaglieschi borborigmi giornalistici, all’attacco ai poveri!

Il tema delle “stesse opportunità” di partenza, tipicamente “di sinistra”, se declinato in modo assoluto, è realisticamente assurdo. Bisogna invece creare le condizioni per un’istruzione accessibile ai massimi livelli per tutti… quelli che vogliono istruirsi. Per illustrare questo principio devo di nuovo ricorrere alla mia biografia personale e a un esempio esterno.

Quando la mia umile famiglia condivise con me che sarei andato al liceo classico [incredibile dictu per chi aveva solo la licenza elementare, come i miei genitori!], vi andai con profitto. Altri miei coetanei non ci andarono, a volte anche potendo economicamente farlo con facilità. In questo caso come si considerano le pari opportunità di partenza? Io, partendo da più indietro, sono andato più avanti. Che legge ho violato? Quella delle pari opportunità? Al contrario, io ne avevo di meno. E allora? La verità è che è antropologicamente insopprimibile l’irriducibile differenza della struttura di personalità singola.

Il mio bisogno, come quello degli altri coetanei, era quello di studiare; il mio merito è stato quello di aver studiato [e di continuare a farlo], mentre altri, pur potendolo fare, non lo hanno fatto. E’ di destra che io abbia raggiunto il livello accademico di due dottorati di ricerca? E’ di destra il merito acquisito con la mia fatica, con il coraggio dei miei e con l’aver io avuto molta forza fisica e psichica e salute?

No, non è né di destra né di sinistra, cari Schlein, etc., mentre i vostri detti e fatti sembra che vogliano farlo apparire tale, come quando avete polemizzato con la nuova dizione del Ministero dell’Istruzione e del Merito neo istituito, perché la parola Merito, che significa differenza antropologico-filosofica, vi fa paura, perché la ritenete di destra. Suvvia! Studiate, studiate.

Merito e bisogno vanno declinati assieme, come tentava di fare, inascoltato, il Ministro della Giustizia del governo Craxi, Claudio Martelli, a metà degli anni ’80.

Un altro esempio è quello di un grande imprenditore, della mia stessa classe sociale: egli partì per la Germania mezzo secolo fa, o poco più, come garzone gelataio, e oggi ha tremila e cinquecento dipendenti con un fatturato di oltre cinquecento milioni di euro, che lo hanno fatto diventare un gran signore, ma con il lavoro retribuito di migliaia di persone, lavoro che ha creato lui con i suoi valorosi collaboratori, dal più giovane dipendente all’amministratore delegato.

Cara Sinistra, caro PD e cara Segretaria, ce la fai a discutere in questo modo di come “essere sinistra” oggi senza aver paura di condividere valori che non sono storicamente nati nel tuo grembo, per poi declinarli con i tuoi? E magari anche il valore semantico, politico e morale della parola “Patria”, termine da te negletto, perché pensi che sia ancora fascista. Dai!

Se sì, se riesci a discuterne e a considerare in questo modo l’essere-di-sinistra-oggi hai speranze, altrimenti, lascerai il TUO campo di lavoro politico e sociale ai furbi populisti che si spacciano per sinistra e a quelli che saranno sempre voces sine fine clamantes, toto populo inutiles.

(Ripropongo qui un pezzo che scrissi a fine settembre 2022 dopo la sconfitta elettorale del PD)

Fèstina lente” ovvero “adelante, Pedro, pero con juicio…”, il latino e lo spagnolo in aiuto alla grande incertezza

…del maggiore partito della sinistra italiana dopo la sconfitta elettorale.

Mi ero ripromesso, dopo il titolo-articolo pubblicato lunedì 26 settembre 2022 post crash in ogni senso della politica italiana, di tornare sul tema.

Approfitto del fatto di avere ascoltato per due o tre ore in viaggio in auto gli interventi nella direzione nazionale del Partito Democratico, dove si è consumato un autò da fè impressionante del gruppo dirigente, un atto di auto accusa impregnato di un po’ di contrizione e di molta attrizione. Uso questi due termini teologico-morali, contrizione e attrizione per tenermi nel mood della riunione che, iniziata con la relazione del segretario Letta, capace di citare per due volte dei passaggi evangelici, è poi proseguita con altre citazioni di altri oratori, abbastanza a sproposito, sia delle Sacre scritture sia di espressioni in lingua greca e in lingua latina.

Per il PD tutto, una riflessione informativa: contrizione significa dolore e pentimento per il male compiuto come offesa a Dio stesso; attrizione è come dire dolore [anche se non tanto] e pentimento per il male compiuto, e non per avere offeso Dio, ma per paura della pena eterna dell’inferno. Una differenza radicale, tanto grande da far concepire teologicamente la contrizione come sufficiente per accedere al purgatorio, anche a fronte di peccati gravi e senza la confessione formale dei peccati, e l’attrizione come atteggiamento sufficiente per il perdono divino, ma solo dopo una confessione formale. Detto altrimenti, il peccatore contrito è atteso comunque dal purgatorio, il peccatore attrito può rischiare l’inferno.

Questo vale per la casistica canonico-penalistica classica. Che cosa c’entra con la direzione del PD? Vedremo più avanti: qui mi limito a dire che tutti/ tutte erano almeno “attriti/ e” per il male commesso di avere sbagliato, non solo la campagna elettorale, ma le politiche degli ultimi dieci o dodici anni, troppo confusamente “governativistiche” e poco attente ai bisogni del popolo, cui sono stati più attenti i populisti di destra e di sinistra. “Di sinistra” per modo di dire, visto che si tratta dei grillini.

C’è chi ha tirato fuori di nuovo le “agorà [!!!] democratiche“, nonostante, se si vuole usare correttamente il greco, si debba scrivere “agorài“, perché l’espressione è plurale. Mi sono affaticato a scriverglielo due o tre volte a “contatti PD nazionale”, ma si vede che, o non leggono, oppure la cosa non gli sembra importante. Possibile che non vi sia nessuno in quei luoghi che abbia fatto uno straccio di liceo classico? Una volta da quelle parti c’era il professor Alessandro Natta, oggi ci sono invece le Serracchiani et similia.

Altra perla odierna, peraltro pronunziata da una delle migliori intervenute, la Ascani. A un certo punto ha esclamato una cosa del genere: “…dobbiamo essere saggi, come suggerisce il detto latino festìna lente, con l’accento sulla “i”, mentre si deve scrivere e dire fèstina lente, con l’accento sulla “e”.

Anche qui, è importante questa cosa? poco, molto?… dico, rispetto al quasi deserto propositivo della riunione, su cui arrivo subito. Se si vuole essere seri, e seeri non à la Calenda, ma à la Marco Aurelio, sarebbe bene rispettare anche le nostre madrilingua, e non usarle a sproposito.

Di più: Pollastrini, una “storica” dell’antico Pci, a un certo punto ha detto con enfasi che “ci vuole uno spirito santo” [al minuscolo perché noi laici… alla faccia dei cattolici del PD, che però probabilmente poco conoscono dello Spirito Santo come terza Persona della SS. Trinità, Dio Unitrino]. Figurarsi la Pollastrini. Dimenticavo, lei intendeva lo “spirito santo” [rigorosamente minuscolo!] come “partecipazione popolare”.

Su questo potremmo anche disquisire e fors’anche [pur se solo in parte] convenire, perché, teologicamente, lo Spirito Santo “soffia dove vuole” e pertanto può senz’altro “soffiare” sulla partecipazione popolare, visto che la Chiesa è il Popolo di Dio [cf. Lumen Gentium I, Roma 1965].

Naturalmente provvederò a inviare alla direzione del PD una copia di questo pezzo e i riferimenti bibliografici per una, se non necessaria, opportuna acculturazione specifica, se si vuole persistere nelle citazioni filosofiche e scritturistiche.

Vengo al dunque. Innanzitutto l’analisi del voto. Solo Letta prova a farla con una sufficiente dovizia di supporti logici e di argomentazioni, oltre al cavalleresco tirarsi indietro come segretario, virtù presente in pochissimi altri di quel consesso. Certo, gli spettava, ma almeno mostra una onestà intellettuale di cui gli altri / le altre sono nella maggioranza (degli interventi che ascolto) privi/ e. Non uso lo schwa, IMBECILLI! [qui mi rivolgo ai tifosi/ e di questa idiozia].

Si sbaglia Letta, a parer mio, però, quando prova a ri-sostenere che la colpa del fallimento del “campo largo”, che doveva comprendere tutti, da Renzi & Calenda a Fratoianni, e forse a Ferrando e Marco Rizzo, e soprattutto i 5 Stelle, è da attribuire al furbo capo di questi ultimi. No, caro Letta: è sbagliato il concetto e il progetto. Non puoi far ragionevolmente convivere Renzi & Calenda con Fratoianni [e mi fermo qui], se quest’ultimo ha sempre votato contro il Governo Draghi. Ma come fai solo a pensarlo? Già Prodi sbagliò clamorosamente quando onorò di credibilità il Bertinotti che lo pugnalò “senza se e senza ma” [ridicolo sintagma che il perito chimico di Torino si attribuì orgogliosamente, così come con altrettale sentimento si gloriò talvolta di non avere mai firmato un accordo]. Repetita quoque non juvant [se proprio si vuole ostinatamente usare il latino].

O il PD è capace [non lo è stato finora], sperando che lo sia in futuro, di proporre una politica riformistica complessiva dove possano armonizzarsi diritti & doveri sociali [dimenticati dal PD da oltre un decennio] e civili [privilegiati dal PD da altrettanto tempo, peraltro senza successo, scimmiottando una sorta di partito radicale di massa], oppure non avrà futuro, perché sarà sostituito del tutto, “a destra” dal duo liberal-riformista R & C, e “a sinistra” da quel dandy-falsodemocristiano di Conte e codazzo cantante. Senza che con questa citazione di destra e sinistra sia un modo per con-fonderle. Ma oggi non bastano questi due poli: piuttosto si esige di distinguere tra culture politiche populiste che sono sempre più rossobrune e culture politiche dell’intelligenza, della competenza e della ragionevolezza.

Non ho ascoltato chiarezza sul piano programmatico, mentre già il Partito deve fare i conti con le fughe in avanti di chi si auto-candida alla segreteria come De Micheli o Schlein [pure!]. All’improvviso, come la canzone di Mina. La “gente” [chissà se De Micheli si ritiene “gente” o benaltro dalla gente] non ha il senso delle proporzioni, a volte.

Quale il tema? Come si può sintetizzare un riformismo realistico e capace di leggere i “segni dei tempi”. Eppure non è difficilissimo. Equità sotto il profilo fiscale, NON aumentando tasse in alto, ma equilibrando le aliquote alle categorie produttive, diciamo fino a 150.000/ 200.000 di reddito annuo, che è lo stipendio di un dirigente industriale bravo e responsabile, che deve essere alleato del riformismo. Si tratta della borghesia intelligente e produttiva che anche Marx apprezzava moltissimo, ma sembra che i suoi mezzi nipotini non la capiscano. Mi spiego meglio: non sto parlando dei vacanzieri di Capalbio, che sono bene rappresentati anche nel PD, ma di chi opera nell’economia reale, non nel terzo settore privilegiato degli influencer e del giornalismo televisivo, che è uno dei settori più deleteri di questi ultimi anni.

Circa il Reddito di cittadinanza, invece di seguire a papera i 5S [cf. esperimento di etologia di Konrad Lorenz], recuperare il Reddito di inclusione selezionando le posizioni dei percettori e obbligandoli a considerare seriamente le offerte di lavoro. Politiche attive del lavoro fatte da chi le sa fare, cioè le società di somministrazione, non dai fantasiosi navigator, opera del Dimaio vincitore delle povertà e tritato dalla sua stessa ambizione, senza senso della misura. La sorte lo ha collocato finalmente dove meritava di stare da tempo, l’oblio.

Il PD dovrebbe saper parlare di diritti civili senza allinearsi al mainstream [dico e scrivo ancora una volta, ahi ahi Letta!] della scuola materna obbligatoria dai tre anni di età, del D.D. L. Zan, che, così come è congegnato, prevede il reato di opinione. Io, socialista autentico e antico, ho scritto cinquanta volte che la maternità surrogata [evitando l’espressione atroce di “utero in affitto”] è un abominio morale e socio-culturale, così come quasi lo è l’adozione da parte di coppie omosessuali, per ragioni educazionali e socio-culturali. Per queste affermazioni, in base allo “Zan” potrei essere denunziato da qualche anima bella, inquisito da qualche giudice ecumenico e condannato. Ma siamo impazziti?

Sono esempi di come il PD si è perso, non è stato più né socialista né cattolico democratico. Posso continuare.

Sulla pace e la guerra. Senza fumisterie incomprensibili, il PD dica tutto insieme che l’Ucraina, aggredita, deve essere sostenuta fino al raggiungimento di una situazione che la metta in sicurezza, evitando qui di parlare di Crimea e/o Donbass sì, Crimea e/o Donbass no, ma chiarendo che la pace la pace la pace su cui ululano Conte e altri non si ottiene se non da una onorevole posizione di autodifesa. Non vada in piazza il PD su una “piattaforma” grillina” o vagamente pacista. Potrebbero svegliarsi i partigiani della pace in sonno da cinquant’anni, perfettamente “sovietici”, a volte ingenuamente nascosti anche in mezzo ai cattolici.

Il PD smascheri chi si attribuisce ogni merito di qualsiasi cosa, come ancora si azzardano a fare i 5 STELLE CHE HANNO PERSO – RISPETTO AL 2018 – CINQUE MILIONI DI VOTI, e parlano come se il 25 settembre avessero vinto, su questo aiutati da giornalisti e giornaliste almeno superficiali [tipo la Manuela Moreno di Rai 2 Post].

Non si vergogni [c’è qualche d’uno che comincia a vergognarsi, come fa Salvini, quasi, nel PD] di avere sostenuto il governo Draghi, che ha mostrato il volto buono e forte dell’Italia. Agenda o non agenda Draghi, l’Italia, con quest’uomo è stata più credibile e creduta nel mondo. Sulla lotta alla pandemia, sul tema della guerra e su quello energetico, anche Meloni, intelligentemente, e fregandosene di Salvini e dei suoi seguaci un po’ vigliacchetti [pensavo che Giorgetti avesse più attributi, mi sbagliavo], si sta collegando alle politiche del governo Draghi, con cui non vuole creare una cesura pericolosa, ma vuole proseguirne le parti più efficaci, per l’Italia.

C’è una grossa e profonda riflessione da fare sulla democrazia, sui meccanismi della rappresentanza in una società ipermediatizzata, su ciò che sia reazione e su ciò che sia conservatorismo… perché anche io sono progressista socialmente e nel contempo conservatore del bello italiano e della cultura. Reazione e conservatorismo non sono la stessa cosa, cari del PD! Troppi di voi fanno confusione, o per ideologia o per carenze culturali, di grazia!

Per la verità non ho ascoltato solo le cose più ovvie dai politici più politicanti [maschi o femmine che fossero], perché diversi interventi si sono distinti per lucidità e passione, ma, guarda caso, non tanto quelli dei “potentati” [e anche qui vi sono delle distinzioni da fare, ad esempio un Misiani non dice mai banalità], ma piuttosto gli interventi delle persone più “di confine”, come la calabrese Bossio o la italo-iraniana, di cui non ricordo il nome, che ha spiegato come il cambiamento stia avvenendo nella sua grande Nazione, non solo per la presa di posizione delle donne, ma ancora di più perché assieme con le figlie stanno scendendo in piazza i padri, con le sorelle i fratelli, con le mogli i mariti.

Analogamente, un partito che non tenga le donne nel loro giusto merito, non può cambiare, soprattutto se le donne non imparano a solidarizzare tra loro e se i maschi non la smettono con le “quote rosa”, WWF della distinzione di genere.

Infine, invece di continuare a demonizzare “la peggiore destra d’Europa” [lo ho sentito affermare anche oggi], il PD vada a vedere perché Fratelli d’Italia, con un gruppo dirigente piuttosto mediocre, a parte la leader, Crosetto e qualche altro, ha preso il 26% dei voti dati? Un 26% di imbecilli? Mi pare di no.

Io non la ho votata, ma non ho neanche votato PD, io che dovrei trovarmi lì di casa… Qualcuno se lo vuol chiedere? Gli interessa?

MI AUGURO CHE QUALCUNO CHE STA DA QUELLE PARTI ABBIA LA PAZIENZA (E ANCHE L’UMILTA’) DI LEGGERE QUESTO SAGGIO.

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