Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.
San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).
Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.
Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.
Babbei e babbee
Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.
Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.
Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.
Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.
Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.
Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.
Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.
Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?
Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.
Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.
Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.
Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.
Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.
Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.
Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.
“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino“. (Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, annunciò in questo modo la rinunzia al Ministero papale il 28 febbraio 2013.)
Parto da questa dichiarazione per parlare un po’ di Joseph Ratzinger, studioso e docente di Teologia tra i più importanti della contemporaneità, presbitero e vescovo, e infine pastore per otto anni, dal 2005 al 2013, della Chiesa universale: uso quest’ultimo aggettivo, perché dice perfettamente il senso e il significato etimologico dell’aggettivo “cattolica”.
Serve innanzitutto un po’ di storia ecclesiastica: prima di lui solo questi altri papi si sono “dimessi” (qui utilizzo un termine molto impreciso), o sono stati – più spesso – “licenziati”, anzi eliminati dal potere politico, a volte in situazione ambigue, se non estremamente negative:
papa Ponziano si dimise perché condannato ad metalla, cioè ai lavori forzati, nelle miniere in Sardegna da Massimino il Trace nel III secolo d. C.;
papa Silverio fu spogliato del suo abito episcopale nel 537 e condannato all’esilio nell’isola di Ponza;
agli inizi del 1045, papa Benedetto IX fu cacciato da Roma e sostituito da papa Silvestro III; quindi con l’aiuto della sua famiglia e dei Crescenzi il 10 aprile 1045 tornò papa per poi vendere, per 2000 librae, la dignità pontificale al presbitero Giovanni Graziano, suo padrino, che così divenne papa Gregorio VI; lo stesso, su pressioni dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III di Franconia, fu invitato a confessare l’acquisto finanziario del Papato e ad abdicare dopo appena un anno; siamo nel periodo nel quale il papato era oggetto di dispute (talora infami) tra i principi e i nobili romani e l’Imperatore germanico;
papa Celestino V, Pietro di Morrone, inesperto nella gestione amministrativa della Chiesa (era stato monaco per tutta la vita), rinunciò il 13 dicembre 1294 con una bolla, che si dice fosse stata redatta dal cardinale Benedetto Caetani, che gli succedette con il nome di papa Bonifacio VIII;
papa Gregorio XII, il 4 luglio 1415 rinunziò all’ufficio di Romano pontefice al fine di ratificare, per intervento dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, con il Concilio di Costanza la fine dello Scisma Avignonese d’Occidente.
Ripeto e sottolineo: la rinunzia di papa Benedetto XVI è radicalmente e completamente diversa dalle “cessazioni” sopra riportate.
Le NORME CANONICHE
Il giurista Giovanni Bassiano sosteneva che la rinunzia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere», cioè “che il papa possa cambiare religione oppure possa cedere per malattie, invecchiamento e troppa responsabilità”.
Il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Bassiano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.
Le Decretali di papa Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, cioè per un’ignoranza teologica, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit», cioè “colui che il popolo udì dare scandalo”) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinunzia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, cioè “zelo di una vita migliore”, già ritenuto ammissibile da altri canonisti.
Nell’immediatezza della rinuncia di papa Celestino V, altri interventi di canonisti, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, i teologi parigini della Sorbonne Magister Godefroid de Fontaines e Magister Pierre d’Auvergne, avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Jacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una horrenda novitas, avendo favorito le successioni degli “anticristi” Bonifacio VIII e Benedetto XI.
Successivamente alla rinuncia di Celestino V, papa Bonifacio VIII emanò la Costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917, sotto papa Benedetto XV.
Il Codice di Diritto canonico, o Codex Iuris Canonici, del 1983, al Libro II “Il popolo di Dio”, parte seconda “La suprema autorità della Chiesa”, capitolo I “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”, contempla la rinuncia all’ufficio di romano pontefice.
Can. 332 § 2. Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.
«Can. 332 – §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.»
La BIOGRAFIA
Joseph Ratzinger nasce in un paesino bavarese sul fiume Inn nel 1927 in una famiglia modesta. Studia per diventare sacerdote, ma non si ferma, perché va avanti fino a un difficile e profondo Dottorato in Teologia sul concetto di Amore-Caritas-Agàpe in sant’Agostino. A un ufficiale nazista che gli chiede, lui giovanetto diciassettenne arruolato di forza nella guardia contraerea, che gli chiede che cosa vorrà fare da grande, alla sua risposta “Il prete“, ribatté “Non ci sarà posto per i preti nel nostro mondo“.
E’ professore, prima nel seminario di Frisinga e poi ordinario di Teologia sistematica e fondamentale a Bonn, a Tubingen e infine a Regensburg, Ratisbona. Lo sorprende la nomina a arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di papa Paolo VI e il cardinalato che gli conferisce, quasi contemporaneamente, lo stesso papa Paolo; dai primi anni ’80, papa Woytjla lo vuole alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, il ruolo che ispirò al quotidiano Il Manifesto, quando Ratzinger venne eletto papa dopo la morte di Giovanni Paolo II, una (impertinente) definizione, che potrebbe anche essere non dispiaciuta all’interessato, vista la sua affezione per gli animali domestici, e per i gatti in particolare: “Il Pastore Tedesco“. Ricordo che anch’io sorrisi, perché avevo letto di un uomo incline anche all’ironia, oltre che appassionato di musica classica e dei felini domestico-selvatici.
La TEOLOGIA
Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo vede i teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger tra i principali protagonisti, assieme a papa Paolo VI. Appena trentacinquenne, Joseph Ratzinger accompagna il cardinale arcivescovo di Colonia Frings come teologo esperto, e lavora assiduamente nelle commissioni che redigono le due massime Costituzioni conciliari, la Lumen gentium, tematizzata su ciò che la Chiesa è, il Popolo di Dio (cf. art. 1) e la Gaudium et spes, per analizzare e dialogare con il mondo nuovo che già Giovanni XXIII aveva iniziato a comprendere.
Coloro che amano le semplificazioni e non amano la complessità, cioè i pigri, attribuiscono a questo periodo una posizione semplicisticamente progressista al giovane teologo, quasi a collocare sulla opposta polarità la teologia del Ratzinger cardinale custode della fede e poi del papa Benedetto.
Non è così, perché non può essere così. In realtà, Ratzinger ha mantenuto l’agostinismo fondamentale della sua formazione nella la centralità della Caritas, Amore di Dio per l’uomo, cui il Creatore dona ciò che gli permette di comprendere il creato e di adempiere al mandato su di esso. Ratzinger, in questo modo, colloca la teologia nella tradizione culturale dei suoi tempi, accogliendo in essa anche i lasciti “laici” delle riforme intellettuali e culturali date nel tempo, e che, sempre nel tempo, la Chiesa ha fatto proprie. L’allora cardinale non è estraneo, al contrario!, alle scelte e alle dichiarazioni del suo predecessore sugli errori della Chiesa nei confronti di Galileo e della filosofia successiva, pur mantenendo al centro, come solido baluardo intellettuale, la Tradizione del pensiero agostiniano e tommasiano.
Anche ciò che è stato l’evento di Ratisbona, quando (era il 2007) papa Benedetto ebbe ad esprimersi – in quella Università dove aveva insegnato – sotto un profilo teologico-storiografico sull’Islam, e citò una polemica tra l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo e un teologo musulmano persiano sul profeta Mohamed e sulla tendenza autoritaria dell’islam. Allora fu una errata traduzione e trasmissione ai media della lectio papale a generare gravi polemiche con il mondo musulmano, che poi cessarono quando papa Benedetto approfondì il dialogo inter-religioso, parlando con il Gran Muftì di Istanbul e con il Rettore dell’Università Al Hazar del Cairo, e con altri leader musulmani. Forse “qualcuno” avrebbe dovuto aiutare il Papa a tarare il suo discorso in modo meno accademico e più pastorale, da Papa. Benedetto XVI, purtroppo, non aveva “aiutanti” del livello del cardinale Agostino Casaroli, che invece papa Woytjla ebbe a disposizione. E questo dicendo, desidero lasciare intendere anche ciò che deve essere inteso.
Ratzinger, ovviamente, era ben conscio che anche il cristianesimo per quasi due millenni non è stato esente da autoritarismo e confusione con il potere politico. Non ha mai avuto bisogno il professor Ratzinger che gli si spiegasse “Porta Pia, Roma 1870”! O che fino all’elezione di Pio X, papa Sarto, le potenze cattoliche, come l’Impero Austro-Ungarico ebbero voce in capitolo nell’elezione del Pontefice.
Da un punto di vista della fede, Benedetto XVI non ha mai proposto altro che questo insegnamento, valido per ogni uomo di buona volontà, sia per il credente, sia per l’agnostico e l’ateo: “Vivi etsi Deus daretur…, cioè vivi come se Dio ci fosse”, oa anche “come se Dio non ci fosse (non daretur)”, da cui si comprende bene come l’etica della vita umana e sociale deve essere aperta fraternamente all’altro, anche solo in base all’umana sapienza, che però la Fede illumina e sostiene.
La FILOSOFIA
Nutritosi della filosofia cristiana, a partire da Agostino e Bonaventura da Bagnoregio, ma non disattento alle filosofie contemporanee, Joseph Ratzinger si è mosso teoreticamente soprattutto sui temi del relativismo e del nihilismo, così diffusi e presenti nel pensiero, ma soprattutto negli stili di vita contemporanei. Su questo, papa Benedetto ha ripreso la posizione filosofica di papa Woytjla, che era imbevuto di un tomismo aperto alla fenomenologia di Husserl, e anche all’esistenzialismo cristiano di un Maritain e di un Mounier, non trascurando nemmeno Heidegger e Jean-Paul Sartre. La “lotta” ratzingeriana al relativismo non ha mai avuto nulla a che fare con il rifiuto della scienza moderna, che anzi è stata da lui ritenuta il dono di Dio sviluppato nel tempo dell’uomo. Fides et Ratio, Fede e Ragione, come ali per una capacità di usare tutti i beni dello spirito donati dal Creatore.
Il professor Ratzinger non confondeva certo il “relativismo” filosofico innervato di scettico cinismo di certe visioni economico-politiche del nostro tempo, con l’esigenza di comprendere e di studiare che tutto-è-in-relazione, dall’infinitamente piccolo delle particelle sub-atomiche (papa Benedetto era un ottimo lettore di saggi di fisica e di genetica), alle strutture più grandi: l’uomo e le cose della natura e del mondo. Il tema della complessità era vicino al suo modo di intendere l’uomo, nella sua conformazione antropologica ed etica, e quindi era tutt’altro che un conservatore reazionario! Questo giudizio, ripeto, appartiene solo ad osservatori pregiudizievoli e intellettualmente pigri.
Non è mai stato un conservatore né tanto meno un reazionario. Per lui l’illuminismo è stato generato dal Vangelo, così come tutti i saperi contemporanei. Difensore della Fede e della Ragione.
I TESTI
Non serve ricordare qui tutti i suoi testi accademici, sempre originali e profondi, salvo magari il trattato Io credo, che utilizzò nel corso di teologia fondamentale tenuto a Tubingen, ma non posso non citare la biografia storico-teologica di Gesù di Nazareth, in tre volumi, che ho letto con piacere, perché unisce la serietà dei fondamenti storico-critici relativi alla figura del Maestro nazareno, che è Gesù il Cristo, a una scorrevolezza narrativa che serve ad invogliare alla lettura anche chi specialista o interessato alla teologia non è. Il papa racconta Gesù con precisione, affetto e rispetto per i documenti cui fa riferimento, e per i fondamenti dottrinali della Teologia cristiana.
Le Encicliche: Deus Caritas est, Spe salvi e Caritas in Veritate. Papa Benedetto torna ancora nelle due encicliche al tema dell’Amore-Carità, che diventa il Nome di Dio stesso e anche la misura della qualità del rapporto tra gli esseri umani, come si legge nella Prima Lettera di Giovanni apostolo. Chi mi conosce sa quanto ci tenga, nel mio lavoro e nelle mie docenze, a parlare di Qualità relazionale: ebbene, ho trovato e trovo spesso in queste due Lettere di papa Benedetto ispirazione e suggerimenti che vengono colti anche da persone di formazione prevalentemente tecnica, le quali, però, riescono a percepire l’afflato umano che deve esserci e vivere nelle comunità, in tutte le comunità, comprese le “Comunità di lavoro”, che sono le aziende moderne.
Un altro aspetto è quello del valore dell’amore fisico tra gli esseri umani, tra l’uomo e la donna. Ebbene: proprio, voglio dire, alla faccia di coloro che collocano Ratzinger su una posizione retrograda, costoro leggano bene la Deus Caritas est, cioè Dio è amore, là dove troveranno riferimenti teologici e pratici al Cantico dei cantici, che è un esplicito poema erotico, interpretabile certamente con la chiave letteraria dell’allegoria poetica, e quindi rinviano all’amore di Dio per il suo Popolo e di Gesù per la Chiesa, che è il Popolo di Dio, ma anche, esplicitamente, all’amore umano e a un uso della dimensione sessuale, rispettosa, completa e arricchente per la persona.
Sotto il profilo pastorale, Benedetto XVI è stato presbitero e vescovo, ricomprendendo in questo ruolo anche il papato, che si sostanzia storicamente e canonicamente nella guida della Diocesi di Roma, ed è stato un buon Pastore, sempre attento e rispettoso per le scelte di chi ha incontrato per strada. Fu colui che, prima denunziò e poi combattè ogni deformazione morale presente anche nella Chiesa, a partire dalla pedofilia, che lui definì crimine.
Certamente diverso da chi gli è succeduto sul soglio pontificio, o nel “ministero petrino”, lavoratore nella vigna del Signore, come lui stesso si definì, presentandosi al balcone di San Pietro una mattina di primavera di diciotto anni fa.
Anche il nome che scelse diciotto anni fa, Benedetto, ha a che fare con due ispirazioni, la prima è quella di san Benedetto da Norcia, fondatore di molto dell’Europa e Patrono del nostro continente, la seconda per ricordare papa Benedetto XV, che, allo scoppio della Prima Guerra mondiale parlò, anzi, gridò di “inutile strage”.
Costante compagno di via – per nove anni – di papa Francesco, e perfino suo protettore dai detrattori di quest’ultimo.
Se come teologo è stato profondo e sottile, a volte difficile, sotto il profilo umano e spirituale Joseph Ratzinger è stato mite, umile, gentile e profondo, un uomo di Dio e del mondo.
Rivendico lo spazio mentale politico e culturale di una sinistra, di un socialismo democratico che possa fare a meno dell’elenco di persone che ho citato nella seconda parte del titolo, recuperando le figure elencate nelle prima parte.
Tristan Tzara
Da anni mi annoio ascoltando e leggendo parole e testi di persone che si collocano “a sinistra” nello schieramento cultural-politico italiano, ma in realtà sono esempi di mero snobismo chiccoso.
Non ho nulla da condividere con l’elenco delle persone collocate “a sinistra” nel titolo.
Ho tutto da condividere con i lavoratori, gli imprenditori, gli studenti, i colleghi che conosco e con i quali collaboro e con-vivo nel lavoro e nella cultura.
…e con gli artisti e gli studiosi del primo elenco, che forse piacciono individualmente a quelli/ e del secondo elenco, ma ciò non basta, non vi è la proprietà transitiva. Un esempio: se a Cirinnà piace Breton, non è detto che siccome a me interessa Breton, mi piaccia Cirinnà. Chiaro?
Mi fermo qui, perché l’articolo è tutto o quasi nel titolone, la cui struttura mi convince sempre più.
A corredo e documentazione scientifica del precedente post sullo stesso tema (o quasi), ho la grazia da parte dell’autrice, professoressa Anna Colaiacovo, carissima collega di Phronesis e valorosa docente di filosofia, di pubblicare questo saggio.
Nel mito, Narciso è un giovane bellissimo, che suscita passione
negli altri, ma non è in grado di ricambiarli in alcun modo. Innamorato della
propria immagine, muore perché non può congiungersi con essa.
Narciso deriva dal termine greco Nàrke, può essere tradotto con torpore (pensate a narcotico): Narciso è
totalmente narcotizzato dalla propria immagine. Il termine allude al sonno, ma anche alla
morte (il narciso era un fiore molto utilizzato nei riti funebri).
Innamorata di Narciso è la ninfa Eco che, punita da Era perché con le
sue chiacchiere la distraeva dai tradimenti del marito, poteva ripetere
soltanto le ultime parole pronunciate dall’altro. Eco si consuma d’amore per
Narciso al punto che di lei rimane
solo… l’eco. Eco e Narciso si corrispondono: totalmente chiuso agli altri,
Narciso ama la propria immagine riflessa nell’acqua. Non può farlo se non
immergendosi in essa, e quindi morendo.
Completamente assorbita dall’altro, Eco non è più nessuno.
I Greci proibivano all’uomo l’uso
dello specchio, le donne ne avevano l’uso esclusivo. Perché? Lo specchio rischiava di bloccare gli uomini
in se stessi, mentre sappiamo bene che
nella Grecia antica spettava agli uomini occuparsi della sfera
politico-sociale, aprirsi agli altri , mentre alle donne invece era riservata
la casa e, in particolare, il gineceo. Le donne potevano uscire solo in
particolari occasioni, durante le cerimonie religiose. Le donne avevano
necessità dello specchio per prepararsi allo sguardo maschile, dovevano guardarsi
prima di essere oggetto dello sguardo dell’uomo. La donna esiste come riflesso
dell’altro ed Eco la rappresenta.
Narciso muore giovane. Alla sua nascita il vate Tiresia aveva previsto
per lui una lunga vita, a una condizione però: Se non conoscerà se stesso. Il Conosci
te stesso, quasi un paradigma della grecità, viene rovesciato. É
paradossale che Narciso muoia per conoscersi, ma il punto è: per conoscere che
cosa? Il riflesso di sé, l’essere nulla.
Lacan: Lo stadio dello specchio
Nel processo di costruzione
dell’identità, lo stadio dello specchio (studiato da Lacan) è un passaggio
fondamentale. L’essere umano, quando nasce, non è dotato, come gli animali, di
istinti che garantiscono l’adattamento
al mondo esterno. La relazione con il mondo, tra l’ organismo e l’ambiente, è
mediata dall’immaginario. Il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, di fronte a uno specchio, all’inizio
cerca di afferrare l’immagine che gli
appare, come se si trattasse di un oggetto reale. Poi si rende conto che è
un’immagine. Infine che è la sua immagine, diversa dalla madre che è con
lui. In una fase in cui non ha ancora la padronanza del proprio corpo
e si vive come frammentato, il piccolo acquista una prima consapevolezza di sè
come un tutto unitario (la propria immagine unificata) attraverso lo sguardo
dell’altro, perché è questo sguardo che conferma che è lui.
Ed ecco allora
la pietra angolare dell’identità: Ho bisogno dell’altro per diventare
me stesso. Ed è un processo cognitivo e affettivo insieme.
Ma chi sono io? Per
dire IO abbiamo bisogno di raddoppiare noi stessi, abbiamo bisogno di un
soggetto e di un oggetto: “Laddove mi vedo, non ci sono, dove ci sono,
non mi vedo”. (Lacan)
Da un lato c’è un
corpo-pulsionale, la grande ragione del
corpo (Nietzsche), dall’altro l’io immagine.
Ognuno di noi deve
confrontarsi con questo doppio e con un’immagine di sè che è intima e nello
stesso tempo estranea.
L’illusione
narcisistica consiste nel tentativo (disperato) di far coincidere noi stessi
con la nostra immagine e nel non
riconoscere all’altro da noi una realtà autonoma. Nel mito, infatti,
Narciso, del tutto insensibile all’amore di Eco, muore perché sprofonda
nell’acqua cercando di congiungersi con
la propria immagine.
Nel processo di costruzione
dell’identità, la fase narcisistica è fondamentale, ma va superata attraverso
lo sviluppo della capacità di entrare in relazione con l’altro. Occorre
riconoscere che l’altro ha una vita separata dalla nostra, che non è
semplicemente un oggetto preda del nostro narcisismo e non è neppure qualcuno
in cui ci annulliamo completamente come avviene in un film geniale come Zelig (1983) di W. Allen.
Una rappresentazione
letteraria di Narciso
Il mito ci indica una strada che viene percorsa nella letteratura da
altre figure che incarnano il narcisismo. Prima fra tutte: Don Giovanni (o
Casanova). Sono figure che attraggono molto, come accade
spesso con i narcisi.
Chi è Don Giovanni?
“Don Giovanni è invece fondamentalmente un seduttore. Il suo amore non
è psichico ma sensuale, e l’amore sensuale secondo il suo concetto non è
fedele, ma assolutamente privo di fede, non ama una ma tutte, vale a dire
seduce tutte. Esso infatti è soltanto nel momento, ma il momento è
concettualmente pensato come la somma dei momenti, e così abbiamo il seduttore”.[1]
Secondo Søren Kierkegaard, Don Giovanni è un esteta. L’etimologia
della parola rinvia al termine greco “aistesis” che significa sensazione.
L’esteta è colui che vive nell’immediatezza del desiderio, Non sceglie mai, perché la scelta è
quell’atto che porta al superamento dello stadio estetico e genera
l’individualità e la personalità morale.
Don Giovanni, nelle sue numerose varianti letterarie, conquista tante
donne. Pensiamo alla lista che il servo Leporello esibisce nella famosa “aria
del catalogo”, nel primo atto dell’opera di Mozart, su libretto di Da Ponte. É
il desiderio ad avere un effetto seducente sulle donne anche se, poi, Don
Giovanni utilizza la finzione e usa l’inganno per far sì che la realtà si
pieghi ai suoi voleri. In realtà Don Giovanni, che è un camaleonte e diventa
i personaggi che recita, coltiva l’illusione dell’onnipotenza e non conosce
limiti; non può abbandonarsi al sentimento perché rischia di perdersi.
Narciso non consegna la propria immagine al
confronto con l’altro. Caravaggio lo rappresenta mentre contempla la propria
immagine nell’acqua, ed è un’immagine immersa nel buio; Don Giovanni non svela
la propria identità: Donna folle!
Indarno gridi: chi son io tu non saprai!, canta all’inizio del dramma
giocoso di Mozart. Rivelarsi, infatti, andare autenticamente verso l’altro
espone alla rottura del guscio
narcisistico. E che cosa si nasconde dietro quel guscio? Il volto
nascosto di narciso è, secondo Julia Kristeva[2],
la depressione.
Chiariamo meglio questo punto. Nel momento in cui
ognuno di noi si lascia andare all’amore si trova in una condizione di estrema
vulnerabilità: ci si scopre indifesi, in balia dell’altro, esposti al rischio
di fallimento e di sofferenza. Mantenerci aperti alle esperienze emotive,
abbandonarsi alla fluidità del sentimento significa abbandonare tutte le
corazze difensive e esporsi alla possibilità del tradimento e al dolore a esso
connesso.
I narcisisti non sono disposti a correre questo
rischio. Perché?
A
un livello superficiale il narcisista si presenta come una persona dominante,
sicura di sé, di successo. In realtà è
fondamentalmente un insicuro che non è in grado di affrontare la paura di
doversi riconoscere e accettare come una persona inadeguata e vulnerabile e
che, proprio per difendersi da questi sentimenti per lui inaccettabili, esprime
una continua esaltazione di sé.
Attualità
La
modernità liquida
Riprendiamo il discorso su Narciso volgendolo verso l’attualità.
Possiamo dire che il tempo in cui viviamo educa al narcisismo, che è uno dei maggiori
problemi dell’epoca contemporanea. Vediamo perché. L’età moderna inizia con il
tramonto dell’ordine medievale, il rifiuto di ogni autorità trascendente e
l’esaltazione dell’individualità. Individualità che significa libertà e
responsabilità. Pensiamo a Cartesio, il padre della filosofia moderna. Parte
dal dubbio, un dubbio che diventa radicale per arrivare poi alla prima
certezza: cogito, ergo sum. La ragione si autolegittima, non ho bisogno di
nessuno, neppure di Dio per affermarlo. L’io diventa consapevole della propria
esistenza e della potenza della propria volontà. Siamo di fronte a un Io
prometeico, con una profonda stima di sé, che in vari modi caratterizzerà i
tempi moderni, in particolar modo l’illuminismo e lo sviluppo dell’economia
politica. Prometeo come simbolo dell’orgoglio umano che con lo sviluppo della
scienza e della tecnica infrange i limiti della natura per produrre progresso e
ricchezza.
La prima fase della modernità, quella solida, era fondata su istituzioni durevoli e stabili, su un
controllo razionale dello spazio e del territorio, sulla negoziazione dei
diritti. Dal punto di vista dell’individuo, era basata sulla fiducia:
nelle proprie capacità (posso imparare a fare qualcosa), negli altri (ciò che
ho appreso mi viene riconosciuto) e nelle istituzioni, nella loro stabilità
(garantiranno che ciò che ho costruito nella mia vita varrà anche domani). Il
pilastro di questo modello (secondo Bauman, endemicamente esposto al rischio di
totalitarismo) era la razionalità, ovvero la fiducia nella capacità
umana di conoscere e controllare, attraverso la scienza e la tecnica, il corso
degli eventi e di indirizzarlo verso il progresso (considerato l’unico
motore della storia).
L’esistenza di uno spazio pubblico, il luogo deputato alla discussione
politica, testimoniava la presenza di una società civile in cui i cittadini
potevano far sentire la propria voce e partecipare così allo sviluppo
collettivo.
La società della modernità liquida, la nostra, è caratterizzata,
invece, da una erosione della politica a scapito dell’economia: da leggi di
mercato spietate e da istituzioni che non sono in grado di regolarne gli
effetti (il mercato non persegue alcuna certezza, anzi prospera
sull’incertezza). Oggi dominano la precarietà e la sfiducia (tutti lo
sappiamo, basta guardarsi intorno) che Bauman ben rappresenta attraverso una
metafora: “L’insicurezza
odierna assomiglia alla sensazione che potrebbero provare i passeggeri di un
aereo nello scoprire che la cabina di pilotaggio è vuota”.[3]
La sfiducia nella politica e nella possibilità di cambiare il mondo
(poiché sappiamo che il vero potere, nell’età della globalizzazione, è
extraterritoriale e fluttuante), ci porta ad affrontare i problemi
individualmente e a ricercare la nostra autenticità
in un altrove che può essere il
cibo, lo shopping, il ballo…
Il consumatore ha preso il posto del cittadino e gli
spazi pubblici sono diventati i luoghi in cui scegliamo che cosa acquistare o
quelli in cui ci divertiamo.
La
cultura del narcisismo
In questa situazione quali spazi di autonomia può
avere l’individuo? E quali relazioni può stabilire con i suoi simili?
Se la precarietà è dappertutto e rende incerto il
futuro, il problema non è più quello di avere forze sufficienti per raggiungere
un obiettivo domani, ma nell’essere continuamente vigili sulle strade
percorribili (opportunità?), oggi. Privo di riferimenti certi, l’individuo deve
agire in tempi rapidi, sempre pronto al cambiamento, in un continuo calcolo di
costi e benefici. Ed ecco allora che l’identità personale prende la forma di
una continua sperimentazione. Secondo Christopher Lasch “le identità di cui si va alla ricerca ai nostri giorni sono quelle che
possono essere indossate e poi scartate come un abito”.[4] Da un lato,
rispetto al passato, abbiamo certamente margini di libertà e flessibilità più
ampi, ma, dall’altro, siamo esposti al rischio continuo di cadere nell’ansia da
prestazione, perché, sul piano concreto, le libertà sono limitate e il
singolo viene lasciato completamente solo, a tal punto che tende a percepire gli altri come ostacoli
per la sua affermazione. Se l’autoaffermazione, però, non si realizza,
l’individuo tende a colpevolizzarsi: non
sono stato capace. Da qui il rischio della depressione.
In un mondo di esperienze frammentate, gli individui hanno in comune
la tendenza ai rapporti discontinui, ai legami deboli, facilmente gestibili e
di breve durata, ma l’unico gestore dei legami – immaginate la rete di internet
con i relativi nodi – rimane il creatore stesso che ne ha il controllo e che
può cancellare l’altro in un istante. Naturalmente, però, tutti gli individui
hanno le stesse possibilità e da qui nasce una grande insicurezza.
Le relazioni, quando si creano, devono potersi sciogliere facilmente
perché sono viste come un impedimento verso altre opportunità, una limitazione
delle libertà.
Nella modernità liquida il soggetto, estraneo alla vita pubblica,
incapace di relazioni durevoli e di reale confronto con l’altro, tende a
investire le proprie energie emotive nel culto di sé, del proprio corpo e della
propria immagine. La libido è tutta concentrata su di sé e sottratta all’altro
da sé.
Il selfie: narcisismo o bisogno di
relazione?
Forse Steve Jobs non pensava, inserendo sui suoi smartphone la fotocamera frontale,
di dare avvio a comportamenti così compulsivi e diffusi come quelli che vediamo
quotidianamente. Fotografarsi e condividere le foto sui social network è
diventata, oggi, una vera e propria
mania.
Che cosa spinge persone di tutte le età
a farsi un selfie nelle condizioni e nei
luoghi più impensati? Che senso ha
fotografarsi durante un funerale
(è accaduto anche questo!) o in una situazione talmente precaria da mettere a
rischio la propria vita? Certo, in
questi comportamenti la componente narcisistica è molto forte, ma, accanto al
bisogno di rappresentazione di sé, c’è
un’esigenza altrettanto forte di condivisione sociale. Convivono il bisogno di specchiarsi e di testimoniare la
propria presenza agli altri.
C’è, in definitiva, un problema di
identità.
Nel tempo del capitalismo avanzato, il potere, come ci ha
insegnato Foucault, non si presenta più
in forma dispotica, ma entra nella vita e si insinua nei
meccanismi e nei procedimenti emotivi quotidiani. Si sviluppa all’interno di un fitto reticolo mobile e
concreto di rapporti, si
trasforma in un potere seduttivo apparentemente innocuo rispetto al
passato e prende la forma di
regole comportamentali interiorizzate dai singoli. Il potere agisce sugli
individui attraverso le “pratiche”, perché ognuno di noi diventa
quello che è attraverso quello che fa ogni
giorno, attraverso i luoghi che abita, i
gesti che compie, le relazioni che intreccia, i dispositivi che
utilizza.
I dispositivi (cioè qualsiasi cosa
abbia la capacità di determinare e orientare pensieri, gesti, comportamenti)
con cui abbiamo a che fare quotidianamente ci inducono ad agire in un
determinato modo, influiscono sul funzionamento del nostro cervello e ci
trasformano. I dispositivi informatici, ad esempio, stanno cambiando
radicalmente il nostro modo di vivere e
il nostro modo di vivere il tempo, dal momento che non esiste più
una netta distinzione tra tempo
del lavoro e tempo libero. Il mercato ci richiede di essere sempre connessi
e visibili ed è una richiesta che è ormai diventata una nostra esigenza.
Siamo soggettività che si pensano
libere e che in realtà rispondono
“liberamente” all’applicazione dei poteri.
La pratica del selfie, in particolare,
rivela molto del nostro tempo, di una fase storica in cui l’accessibilità e la
condivisione sembrano diventate un “obbligo” e
il confine tra pubblico e privato sfuma sempre più.
Ma rivela
soprattutto molto di noi, del nostro
bisogno ossessivo di esserci – IO CI SONO! GUARDAMI- che alimenta il
dubbio di non esserci, nell’attesa spasmodica di un like.
Prof.ssa Anna Colaiacovo
[1]
S.
Kierkegaard, Enten-Eller, a c. di A.
Cortese, vol. I, Adelphi, Milano 1981, p.163
[2]
J. Kristeva, Sole nero, Feltrinelli,
Milano, 1988
[3]
Z. Bauman, la solitudine del cittadino
globale, Feltrinelli, Milano 2000, pag. 28
[4]
C. Lasch, L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di
turbamenti, Milano, Feltrinelli, 1985, pag.24
Prima di tutto, il mio lettore può chiedersi l’origine del “nome” (ma credo la conosca) di questo atteggiamento-comportamento verso la vita propria e quella degli altri, che ha indubbiamente anche una connotazione nevrotica, come vedremo più avanti, citando i testi scientifici e letterari più accreditati, ed esemplificandolo con la proposizione di tre persone, di tre “figure” politiche italiane del nostro tempo: Berlusconi, Salvini e Conte. Non trascurerò di citare anche un testo biblico che ha profondamente a che fare con Narciso, il Qoèlet, l’Ecclesiaste. Vedremo in quale modo.
Intanto parto dal mito di Narciso, così come è riportato dalla tradizione letteraria greco-latina.
Narciso (in greco antico: Νάρκισσος, Nárkissos) è un personaggio mitologico della tradizione greca. Si tratta di un ragazzo molto bello, molto attivo nella caccia. Il suo carattere, però, è disdegnoso verso gli altri fino a uno spregio un po’ crudele. Come sempre, se abbiamo presente i racconti dei grandi poemi epici, gli “Dei” sono gelosi degli uomini che hanno particolari doti, per cui, anche nei confronti di Narciso, non sopportandone la “popolarità”, possiamo dire con un’espressione moderna, lo puniscono con la morte, che è quasi – nei modi in cui è avvenuta – una morte auto-inflitta dalla sua vanità: Narciso si specchia in un corso d’acqua, si compiace della bella immagine che vede, perde l’equilibrio, cade in acqua e muore annegato. Vien da dire che quell’atletico ragazzo non sapeva nuotare…
Già a questo punto verrebbe da dire che l’autocompiacimentovanesio fa perdere l’equilibrio mentale, o no?
Vi sono varie versioni del mito: una si trova nei Papiri di Ossirinco ed èattribuita a tale Partenio; un’altra nelle Narrazioni di Conone, datata fra il 36 a. C. e il 17 d. C, mentre le più note sono la versione di Ovidio, contenuta nelle Metamorfosi, e quella di Pausania, presente nella sua Guida o Periegesi della Grecia.
Si tratta di racconti di carattere morale, nei quali Narciso appare come un superbo insensibile, che perciò viene punito dagli dei, che gli rimproverano di non aver accettato nessun compagno, nemmeno Eros: un ammonimento ai giovani di quei tempi?
In dettaglio esaminiamo il mito greco: Narciso aveva molti innamorati, che lui costantemente respingeva fino a farli desistere dal… volerlo omosessualmente. Solo un giovane ragazzo, Aminia, non si dava per vinto, tanto che Narciso gli donò una spada perché si uccidesse. Aminia, obbedendo al volere di Narciso, si trafisse l’addome davanti alla sua casa, avendo prima invocato gli dei per ottenere una giusta vendetta, il cui compimento avvenne come sappiamo. Si tratta del racconto dell’immagine riflessa e dell’innamoramento (stupidissimo) di Narciso per se stesso e della sua mortale caduta in acqua.
Il racconto, però, nelle diverse narrazioni, ha due esiti finali: il primo è quello dell’annegamento, mentre il secondo racconta del suicidio con la spada da parte di Narciso, la stessa spada che aveva donato ad Aminia affinché si uccidesse. Dal sangue sparso di Narciso sarebbe nato dalla terra l’omonimo fiore.
Per chi ama il genere posso consigliare di leggere l’ampia versione ovidiana nelle Metamorfosi, dove il poeta narra anche della nascita e della vita del bel giovane, quasi, come si dice oggi, costruendo un prequel.
Interessante il fatto che, nel compiersi della tragedia finale, dopo alcuni interventi dei massimi dèi olimpici, fu la volta di… Nemesi (eccola qua!), che condusse Narciso alla sua “giusta” fine di superbo e vanesio.
Il romantico funerale fu celebrato dalla ninfe Naiadi e Driadi, che cercarono il corpo per innalzarlo sul rogo, ma trovarono “solo” il fiore omonimo. Struggente! (non scherzo).
Vi è però una contraddizione in questo racconto, perché il poeta greco Pamphos, prima che il mito fosse molto diffuso, scrisse nei suoi versi che quando Persefone fu rapita da Ade, stava raccogliendo proprio dei narcisi.
Narciso come fonte di ispirazione artistica
Il mito di Narciso è stato una continua fonte d’ispirazione per gli artisti fino ad oggi, sia nella pittura, sia nella musica, oltre che in altre narrazioni. Caravaggio, Nicolas Poussin, William Turner e Salvador Dalì, tra altri.
La letteratura contemporanea si è rivolta al mito di Narciso con John Keats, e soprattutto, direi, nelle opere filosofiche e letterarie di André Gidecon Il Trattato di Narciso, 1891, e Oscar Wilde, autore del celeberrimo Il ritratto di Dorian Grey. Né trascurabili sono alcuni personaggi “narcisiani” (e narcisisti) in Dostoevskij, come Jakov Petrovic Goljadkin ne Il sosia, 1846.
Anche Stendhal ne Il rosso e il nero (1830) propone nel personaggio di Mathilde un tipico carattere narcisista: dice difatti il principe Korasoff a Julien Sorel: “Guarda solo se stessa, invece di guardare voi, e così non vi conosce”.
In qualche modo, perfino Hermann Melville si riferisce al mito di Narciso nel suo romanzo Moby Dick, quando Ismaele spiega che il mito è la chiave di tutto, riferendosi alla questione se sia possibile ritrovare l’essenza della verità all’interno del mondo fisico.
In Italia troviamo Giovanni Pascoli: nei Poemi Conviviali egli dedica il poemetto I Gemelli a Narciso, traendo ispirazione dalla variante riportata da Pausania.
Per finire, cito anche Rainer Maria Rilke, che non trascura il tema del narcisismo in molte sue liriche, come fa anche Edgar Allan Poe… e Hermann Hesse (Narciso e Boccadoro), William Faulkner in Santuario, Paulo Coelho in L’alchimista… Pare proprio che Narciso sia pervasivo, a dir poco.
In Musica troviamo parecchie citazioni. Alcune: a Narciso è dedicato il secondo pezzo del trittico dei Miti op. 30 per violino e pianoforte, del compositore polacco Karol Szymanowski, License to Kill di Bob Dylan; il gruppo metal greco Septic Flesh ha inciso una canzone su Narciso (intitolata Narcissus) nel suo album Communion; il testo della canzone Reflection dei Tool è parzialmente incentrato sul mito di Narciso; altre canzoni inerenti al mito sono: Narcissus di Alanis Morissette, The daffodil lament dei The Cranberries e Deep six di quel narciso di… Marilyn Manson.
In Italia troviamo: Narciso, tratta dall’album Pierrot Lunairee del gruppo omonimo, La lira di Narciso, tratta dall’album Bianco sporco dei Marlene Kuntz, Parole di burro tratta dall’album Stato di necessità di Carmen Consoli, Una storia d’amore e di vanità di Morgan (Da A ad A. Teoria delle catastrofi), La Cantata del Fiore di Nicola Piovani, et alii...
Un degno finale di queste citazioni può essere il seguente: Pink Narcissus (1971) è un film di James Bidgood sulle fantasie di un ragazzo dedito alla prostituzione maschile.
Il “narcisismo” in Psicologia
Nel 1898 Havelock Ellis, un sessuologo inglese, usa il termine narcissus-like in un suo studio sull’autoerotismo, riferendosi alla “masturbazione eccessiva”, quando la persona diventa il proprio unico oggetto sessuale, essendone soggetto. Soggetto e oggetto insieme.
Nel 1899, lo psicologo tedesco Paul Näche è il primo studioso ad utilizzare il termine “narcisismo” in uno studio sulle “perversioni” sessuali, per come erano ritenute allora.
Nel 1911, Otto Rank pubblica il primo scritto che possiamo definire “psicoanalitico” specificamente centrato sul narcisismo, collegandolo alla vanità e all’auto-ammirazione superba.
E veniamo al clou di queste ricerche: nel 1914 Sigmund Freud pubblica il saggio Introduzione al narcisismo, nel quale sviluppa il significato del termine, con i concetti di narcisismo primario e di narcisismo secondario o protratto.
Da qualche decennio il narcisismo è considerato un disturbo della personalità come amore esagerato di un soggetto umano verso la propria immagine e per se stesso. Alcuni testi:
A pag. 191 del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali per la Medicina generale, edito da Masson in Milano nel 2004, poi aggiornato alcuni anni fa, ma senza sostanziali modifiche nei temi qui trattati, si leggono, all’interno del capitolo sui Disturbi di personalità, le seguenti considerazioni al punto F60.8:
DISTURBO NARCISISTICO DI PERSONALITA’. Un quadro pervasivo di grandiosità, necessità di ammirazione e mancanza di empatia (ecco!, ndr). Per esempio, il soggetto ha fantasie di successo o potere illimitati, crede di essere “speciale”, richiede eccessiva ammirazione, ha la sensazione che tutto gli sia dovuto, sfrutta le relazioni interpersonali, invidia gli altri (suggerisco di considerare il significato etimologico-morale del gravissimo vizio dell’invidia, ndr), ed è arrogante.
Ed inoltre: I soggetti con Disturbo Narcisistico di Personalità chiedono con insistenza attenzione ed ammirazione, ed inizialmente possono anche idealizzare gli altri, per poi disprezzarli se sono “guardati dall’alto in basso” o delusi. Possono essere comuni anche la ricerca del “miglior” medico e il richiedere una particolare attenzione. Il soggetto può avere difficoltà ad accettare o ad adattarsi alla diagnosi di una condizione medica generale, che trova incompatibile con l’idea grandiosa ed onnipotente che ha di se stesso.
Nel capoverso F60.4, a pag. 190-191, troviamo un’altra specifica del Disturbo di Personalità, quello Istrionico, che spesso è correlato con quello narcisistico. Ne possiamo constatare la presenza in due dei tre personaggi qui citati: Berlusconi e Salvini.
Leggiamo: DISTURBO ISTRIONICO DI PERSONALITA’. Un quadro pervasivo di emotività eccessiva e di ricerca di attenzione. Per esempio, il soggetto si sente a disagio quando non è al centro dell’attenzione, è inappropriatamente seduttivo da punto di vista sessuale, manifesta un’espressione delle emozioni rapidamente mutevole e superficiale, utilizza l’aspetto fisico per attirare l’attenzione, auto-drammatizza e considera le relazioni più intime di quanto lo siano realmente.
E inoltre: I soggetti affetti da Disturbo Istrionico di Personalità possono cercare di evitare o dimenticare sensazioni o idee “inaccettabili” o spiacevoli, come l’appuntamento con il medico o la gravità del loro stato di salute generale. Spesso si servono di manifestazioni emotive per controllare gli altri (per e. attirare l’attenzione, far prender agli altri la responsabilità della situazione, o fare in modo che gli altri “cambino argomento”).
Come si può notare, in tutti e due i casi esemplificati, si possono notare dei tratti di personalità molto specifici ed evidenti, presenti in molti soggetti, caro lettore, anche di tua e di mia conoscenza. Personalmente potrei fare un elenco di almeno una decina di persone narcisiste e/ o istrioniche da me sufficientemente conosciute, che talora occupano posizioni assai importanti nel mondo. Ovviamente, nell’ambito delle mie relazioni interpersonali.
E ciò vale per tutti gli esseri umani in tutte le nazioni e territori (capi di stato e di governo, capi politici e tribali), settori e ambienti (economia, finanza, scuola-università, chiese, ambiti militari, arte e spettacoli, etc.).
…e ora leggiamo un testo “classico” appartenente ai Libri sapienziali della
BIBBIA, nel Qoèlet (in ebraico קהלת, Qohelet, dal probabile pseudonimo dell’autore; in greco Ἐκκλησιαστής, Ekklesiastès, “il radunante, il convocatore”; in latino Ecclesiastes o Qoelet), scritto probabilmente nel III o IV sec. a . C.
Al I capitolo, possiamo leggere versi filosofici come i seguenti:
[2]Vanità delle vanità, dice Qoèlet,/ vanità delle vanità, tutto è vanità./ [3]Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno/ per cui fatica sotto il sole?/ [4]Una generazione va, una generazione viene/ ma la terra resta sempre la stessa./ [5]Il sole sorge e il sole tramonta,/ si affretta verso il luogo da dove risorgerà./ [6]Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;/ gira e rigira/ e sopra i suoi giri il vento ritorna. [7]Tutti i fiumi vanno al mare,/ eppure il mare non è mai pieno:/ raggiunta la loro mèta,/ I fiumi riprendono la loro marcia./ [8]Tutte le cose sono in travaglio/ e nessuno potrebbe spiegarne il motivo./ Non si sazia l’occhio di guardare/ né mai l’orecchio è sazio di udire./ [9]Ciò che è stato sarà/ e ciò che si è fatto si rifarà;/ non c’è niente di nuovo sotto il sole./ [10]C’è forse qualcosa di cui si possa dire:/ «Guarda, questa è una novità»?/ Proprio questa è gia stata nei secoli/ che ci hanno preceduto./ [11]Non resta più ricordo degli antichi,/ ma neppure di coloro che saranno/ si conserverà memoria/ presso coloro che verranno in seguito.
Evito qui una disamina esegetico-teologica del glorioso brano biblico, perché il suo senso e il suo significato teorici e fattuali sono evidenti. Giova solo ricordare come, anche sulla base di questo scritto antichissimo, il narcisismo possa essere considerato come un sorta di sottospecie della vanità, così come questo vizio è un prodotto di un vizio maggiore l’orgogliospirituale, parente stretto del vizio peggiore, che è la superbia, padre e madre di tutti i vizi. Mi pare non poco.
ECCO! e ora…
Alcuni “narcisi” italiani della politica
BERLUSCONI
Non è necessario spendersi molto su questo importante uomo dell’economia e della politica italiana dell’ultimo trentennio. Chiamato “sua emittenza”, si è occupato oltre che di edilizia (sulla tracce paterne), di comunicazione televisiva e di produzione cinematografica. Quasi trent’anni fa è “sceso in campo” in politica (come ama dire lui da sempre) e ha vinto spesso, diventato per tre volte capo del Governo, e continuando a governare – assieme a un paio di amici fidatissimi (Confalonieri e Galliani sopra tutti, e i figli “di primo letto”) – i suoi interessi economici. E’ diventato l’uomo del conflitto di interessi, e per la sinistra politica, salvo rari casi, non è stato ma “sdoganato”. Gravissimo errore di lettura della realtà fattuale.
E’ stato oggetto di molte attenzioni da parte delle Procure per i suoi non pochi “vizi” privati che lui ha tentato di far passare per “pubbliche virtù”. “Araba fenice”, è stato dato per morto in tre decenni almeno tre volte ed è “resuscitato”, si fa per dire. Anche oggi, nel 2022, una cospicua parte della politica liberal-conservatrice italiana non può fare a meno di lui.
Non aggiungo altro, se non sottolineare il fatto che tutto il suo agire è sempre stato caratterizzato da una sovraesposizione inaudita della sua persona, con una continua manifestazione teatrale di un istinto naturalmente istrionico ed egocentrico. Non serve dire altro.
SALVINI
Quest’uomo è un parvenù della politica localistica esplosa in Italia tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, sprovvisto, a differenza di Berlusconi, di ogni acclarata capacità di operare professionalmente in qualsivoglia settore lavorativo. Diplomato al liceo classico, non si è laureato e ha iniziato a fare politica a sinistra, nei centri sociali. Poi ha conosciuto altri due più o meno come lui, Bossi e Maroni (che comunque potrebbe fare l’avvocato e quindi è ben diverso da lui), e li ha soppiantati, avendo mostrato nei tempi kairologici giusti, la capacità di parlare al “popolo leghista”, che da meramente “Padano” lui ha saputo trasformare in “Nazionale”. Il suo merito, per dire, è stato quello di trovare i toni e i temi giusti per coalizzare legittime aspirazioni del “Popolo del Nord” attivo e produttivo, con la critica alla burocrazia “romana” e brussellense. Il suo “Lega – per Salvini” è riuscito a diventare anche il primo partito tra il ’19 e il ’21, salvo poi farsi superare dalla destra più vera, dalla non-amata Meloni.
La sua politica è riuscita ad andare d’accordo con tutti, perfino con i “grillini” da cui lo distanziavano molte prospettive, due governi, uno con e uno contro. E un terzo in compagnia di altri. Mica facile. Un elemento, però, lo ha obiettivamente avvicinato ai 5S: un populismo disordinato e contraddittorio, adatto, più che alla progettualità politica, alla ricerca del contrasto e dello sfascio sistematico del dibattito, con l’utilizzo di un linguaggio semplificato e banalizzante, con una postura non-verbale e para-verbale costantemente aggressiva e urlante. La Lega è ancora salva e salvata da altri dirigenti, di cui vanno apprezzati il senso civico e le capacità amministrative: parlo di Giorgetti, di Zaia e perfino di Fedriga. Grazie a Dio ve ne sono anche altri oltre a questi, nelle comunità locali, che in parte rimediano agli errori del cosiddetto, autodefinitosi “capitano”. E de che?
L’ultimo atto da “narciso” impenitente lo ha commesso in questi giorni con l’annunzio di un suo viaggio in Russia per parlare di pace con Putin. A che titolo? Lasciamo stare, ne ho già scritto qui.
Sotto il profilo della personalità, è proprio il narcisismo istrionico a costituirne la cifra comunicativa e anche morale. Come narciso-istrione, Salvini è un autentico campione.
CONTE (non-Antonio e non-Paolo, che nei loro campi sono eccellenti!).
Su Conte Giuseppe vorrei spendere solo due righe, ma non sono uno stenografo, oppure dovrei saper scrivere in ebraico. Mi accingo. Conte è un avvocato pugliese, di ufficio romano, che quattro anni fa è assurto agli onori di tutto. Dal nulla mediatico a capo del Governo. Sinceramente non ho mai capito neanche quanto “grillino” fosse o sia. Nulla lo apparenta al piglio terzomondista da barzelletta di un Dibattista, e neppure alla seriosità delle “grilline”, che imparano lezioncine a memoria per apparire politiche serie. Secondo me, Grillo lo stima molto poco, ma fa di necessità virtù, e lo tiene.
Se continua così, il prossimo anno il suo partito (posto che sia ancora suo) percepirà il giusto premio dall’elettorato illuso e deluso del 2018: dico il 15% per caritas patriae.
Ho già a sufficienza commentato in questo sito, il suo (per me) insopportabile timbro vocale, a di più la scarsissima capacità di argomentare riflessioni che siano, sia comprensibili, sia non banali, sia provviste di contenuti. E qui mi fermo.
Sotto il profilo del nostro tema, l’ex capo del Governo è uno di quei “narcisi” che non privilegiano l’istrionismo, perché prefierono la falsa modestia. E questi mi fanno ancora più nervoso degli altri. Sopporto meglio l’istrione di quanto non sopporti il falso modesto, della cui tipologia umana ho scritto recentemente in un altro articolo.
Finisco citando altri due, di differente natura hominis, mentis experientiaeque: Beppe Grillo e Matteo Renzi. Sul secondo mi limito a dire che, nonostante sia un valoroso (ehm) narcisista, ha una capacità politica di proposta di tutto rispetto, per cui si trova nell’elenco solo per questa caratteristica deleteria che in (buona) parte lo limita come persona e in efficacia politica.
Grillo, invece, ha contribuito a fare danni enormi all’Italia: basti pensare al reddito di cittadinanza, che è una misura costosa, inutile e demotivante sotto il profilo morale ed esistenziale. Potrei dire di più, ma l’articolo è già troppo lungo, e perciò qui mi fermo veramente, concedendomi un’ultimissima osservazione:
ove e quando il lemma italiano “successo”, per i citati “narcisi” riesca ad acquisire un’accezione più verbale e letterale che metaforica (socio-politico-economica relativa al potere acquisito), potrà iniziare un loro percorso individuale di rinascita (redenzione) morale.
E mi spiego: “successo” dovrebbe tornare ad essere ciò che in origine è, il PARTICIPIO PASSATO del verbo succedere.
Last but not least, utilizzo con il suo permesso un piccolo brano della professoressa Anna Colaiacovo, collega di Phronesis, che in un saggio sul narcisismo ha scritto:
“Narciso deriva dal termine greco Nàrke, può essere tradotto con torpore (pensate a narcotico): Narciso è totalmente narcotizzato dalla propria immagine. Il termine allude al sonno, ma anche alla morte (il narciso era un fiore molto utilizzato nei riti funebri).”
Bene, il rischio per i narcisi, anche per quelli su cui ho scritto sopra, è anche quello di un definitivo intorpidimento intellettuale. Contenti loro…
Il ridicolo equivoco interpretativo dei concetti proposti da Domenico Quirico su La Stampa di Torino – qualche giorno fa – sul tema del tirannicidio, derivante da una traduzione non so se volutamente scorretta o dalla volontà di cercare un casus belli per litigare con l’Italia, ha convinto l’ambasciatore russo in Italia a denunziare alla Procura di Roma una sorta di incitamento al delitto tramite stampa, quando invece, se il titolo del pezzo ha posto in maniera ipotetica la plausibilità di uccisione del presidente Putin per fermare la guerra di aggressione in Ucraina, il contenuto era chiarissimamente contrario a quella scelta violenta.
Perciò mi pare utile parlarne qui ampliando il discorso ai fondamenti del pensiero teologico e filosofico, sia orientale, sia occidentale.
Partiamo dal termine: tirannicidio deriva dal termine greco tyrànnos.
Pisistrato
Il termine “tiranno” è di origine greca e significa letteralmente “signore”; Erodoto nelle Storie usa il termine τύραννος (týrannos) (cf. Storie III, 80-82), che vuol dire “signore della città”. In seguito le cose cambiano, anche alla luce del pensiero platonico e aristotelico, che pongono la questione della legittimità del potere e della sua costituzione.
Tiranno è innanzitutto il termine attribuito a qualcuno che conquista il potere e poi lo mantiene in maniera egemonica, in qualche modo dispotica, autarchica, e a volte anche con modalità repressive e violente. Un altro termine pressoché equivalente è “dittatore”. Con il termine “tiranno” nell’antica Grecia dei secoli VII e VI avanti Cristo si definiva chi colui che si impadroniva del potere con modalità rivoluzionarie, opponendosi al sovrano o al politico in carica per tradizione o per elezione. Spesso il nuovo “capo” era sostenuto dal popolo, che soffriva per una gestione del potere precedente divenuta insopportabile.
Il tiranno, dunque, a quei tempi non era un usurpatore tout court, perché talora governava senza stravolgere sostanzialmente le leggi e le istituzioni preesistenti. Inoltre ricopriva personalmente e affidava a suoi fidi le maggiori magistrature, promuoveva lo sviluppo dei commerci, delle opere pubbliche e dell’agricoltura, generalmente nell’interesse del popolo sottomesso ed in contrapposizione ai privilegi dell’aristocrazia. I nomi dei più noti “tiranni” intesi in codesto senso: Policrate di Samo, Clistene di Sicione, Pisistrato di Atene e Dionisio di Siracusa, che chiamò perfino Platone per avere da lui consigli. Storia che non finì molto bene, forse perché i tiranni di tutte le epoche preferiscono gli yesmen, non persone di cultura libera e più vasta della loro. Anche oggi è così.
Si può dire che il tiranno moderno non assomiglia più di tanto a quei tipi di tiranno. L’accezione del termine è molto cambiata nei secoli.
La tirannide come categoria politica e forma di governo è stata trattata nella cultura occidentale, per la prima volta in maniera rigorosa, da Platone nel dialogo Repubblica.
Proprio con il pensiero di Platone e di Aristotele inizia una riflessione sulla tirannide e sulla sua legittimità, laddove il potere del tiranno sia acquisito senza la ricerca di un consenso tra i cittadini, e quindi di una sorta, oggi diremmo, patto costituzionale tra cittadini, ovvero, di contro, sia acquisito a seguito di un processo di corruttela e di scorretto acquisto di consensi.
La tirannide era ritenuta ad Atene un disvalore assoluto e generava paura nei più, timorosi di non avere più la possibilità di discutere dell’esercizio del potere politico, in rappresentanza degli interessi generali. Si tenga sempre presente che gli “interessi generali” di allora non si riferivano a un suffragio universale, bensì al diritto di una significativa… minoranza di capifamiglia possidenti: da questo novero erano esclusi meteci ed iloti, cioè i capifamiglia poveri del contado e le persone pervenute dall’esterno.
Molto interessante è il fatto che il personaggio “tiranno” era oggetto di molta attenzione da parte dei tragediografi, che con il teatro riuscivano a trattare un tema molto arduo e pericoloso per la stessa vita di chi lo trattava.
È proprio sulla scena teatrale infatti che la paura e il disprezzo per il tiranno vengono vissuti con immediatezza, è sulla scena che la tirannide appare sempre meno una soluzione politica e si trasforma in una dimensione umana, in una caratterizzazione di una figura etica e psicologica.
La critica alla figura del tiranno aveva lo scopo di evitare che un singolo cittadino avesse nelle sue mani tutto il potere, dispoticamente. Durante la Guerra del Peloponneso, scoppiata tra Ateniesi e Spartani, il grande Aristofane pronunzia la seguente frase: “Per cinquant’anni non ne ho mai sentito il nome (del tiranno, ndr) e ora va più del pesce conservato.”
Si pensi che l’accusa di tirannide fu formulata anche a Pericle, ed è tutto dire. Tucidide scrive di lui in questo modo: “Era una democrazia a parole, ma di fatto si trattava del potere del primo cittadino“. Erodoto propone una delle prime descrizioni della tirannide (cf. Tripolitikòs lògos ), nella quale si esprime elogiando la democrazia (ovviamente intesa secondo l’idea dei tempi, cf. supra),e criticando la tirannide. Ecco le sue parole: “Come d’altronde il potere di uno solo potrebbe essere cosa conveniente se gli è lecito fare ciò che vuole senza renderne conto? (…) Dai beni che ha a disposizione gli nasce la prepotenza, mentre l’invidia è connaturata all’uomo fin da principio.“
Il tiranno di cui si parla è empio, sfrenato, diffidente e sospettoso, avido, molto simile alla figura che descriverà Platone ne La Repubblica qualche decennio dopo. E’ molto interessante la descrizione erodotea, perché mette in evidenza anche gli aspetti psicologici della “nascita” del tiranno, il quale può anche essere, di per sé, un uomo buono e virtuoso, ma, messo nelle condizioni di esercitare un potere inusitato e grandioso, può cambiare radicalmente diventando arrogante, prepotente, protervo fino all’esercizio della violenza come metodo di agire quotidiano.
Non si possono non riconoscere in questa descrizione i tratti psico-morali dei tiranni che abbiamo storicamente conosciuto nell’ultimo secolo, il XX. La disponibilità di ogni bene e di ogni potere produce in lui la prepotenza (hybris).
Platone, invece, va oltre. Egli vede nel tiranno l’esempio di un essere umano abbandonato dalla razionalità e quindi disponibile ad ogni sorta di eccesso e di agire negativo verso gli altri, i cittadini.
Inoltre, la rappresentazione del tiranno approfondisce anche altri aspetti di questa figura, che sono molto attuali! Si pensi al sentimento della paura, che non solo il tiranno provoca negli altri, ma che egli stesso prova, intuendo di poter in qualsiasi momento perdere la propria posizione ed essere abbattuto, anche perdendo la vita, magari ucciso da chi subisce la sua prepotenza, che può ordire complotti e congiure per liberarsi dal tiranno. Pisistrato e i suoi successori sono gli esempi eponimi della modalità di governo tirannica di quei decenni, in Grecia, una modalità che ha i tratti della tirannide autoreferenziale e finalizzata solo nel suo mantenimento, ma anche i tratti di una tirannide che potremmo definire paleo-populista, perché si opponeva all’aristocrazia dei “migliori” (àristoi) cittadini.
Forse che questo non echeggia qualcosa di contemporaneo? A me ricorda un pochino l’unovale uno dei grillini, o il vociare scomposto del “salvinismo”. Lo scrivo neppure tanto sommessamente. Grillo (Conte no, perché troppo flaccido) e Bossi/ Salvini potrebbero anche assomigliare a controfigure del tiranno populista.
Aristotele nel V capitolo della Politica individuò tre tipi di tiranno:
il capopopolo o demagogo, che acquisisce il potere ergendosi a difensore degli umili; (un “salvini”?)
l’ex magistrato, che fonda il suo potere assoluto partendo da una base istituzionale; (un “di pietro”, meno male che non ce l’ha fatta)
il monarca o l’oligarca degenerato, che non sopprime ed anzi aumenta i privilegi dell’aristocrazia. (Putin, proprio lui!)
Aristotele ricorda che e prime due tipologie di tiranno furono molto diffuse nella Grecia continentale, mentre la terza invece, molto più rara, si sviluppò solo nelle città dell’Asia Minore, ad esempio i satrapi persiani e poi i diadochi di Alessandro il Grande.
Dimenticavo: nelle situazioni in cui nell’antica Grecia di discuteva di democrazia e tirannide, ebbe anche posto un concetto che cercava di descrivere una forma embrionale di democrazia: l’isonomia, cioè una forma di governo che potesse avvalersi di leggi equilibrate e giuste (ìsos – nòmos).
Infine, solo per completare il lessico di questi temi ricordo un altro modo di dire una figura tirannica o dittatoriale, nella Grecia antica era autarca, dal greco àrkes, comando e àrkein, comandare.
GREGORIO PALAMAS
E ora vengo a Gregorio Palamàs (in greco Γρηγόριος Παλαμάς, Grigòrios Palamàs; 1296-1359), che è stato un monaco cristiano ortodosso, e in seguito arcivescovo.
Monaco del Monte Athos nella Penisola Calcidica, si può definire teologo e mistico, e fece carriera, diventando Arcivescovo di Tessalonica (che è la moderna Salonicco, come è noto ai miei lettori, ma non a diversi politici di alto ruolo e di basso livello).
L’esicasmo, cioè la “preghiera del cuore”, costituisce il fulcro della sua teologia mistica, che egli spiegò approfonditamente nell’opera Filocalia, titolo molto utilizzato tra i teologi dell’Oriente cristiano classico, a partire da Origene. E’ Venerato come santo dalla Chiesa ortodossa (nella cui liturgia la seconda domenica di Quaresima è appunto chiamata Domenica di Gregorio Palamàs), mentre è ricordato liturgicamente nella Chiesa Cattolica Melkita e e nelle Chiese Cattoliche Orientali di rito bizantino in comunione con Roma. La sua festa cade il 14 novembre.
Iniziò i suoi studi di retorica e di filosofia con Teodoro Melchita, manifestando ottime qualità che gli avrebbero potuto aprire una brillante carriera nel funzionariato imperiale (ecco che già qui si può osservare come nell’oriente cristiano si coltivavano i talenti adatti a sostenere il potere civile), ma lui non si sentiva portato, in quanto vedeva nella vita monastica l’ambiente spirituale che sentiva più affine alla sua anima di credente.
Si ritirò, dunque, sul Monte Athos sotto la guida spirituale dell’egumeno (priore) Teolepto, che lo introdusse alla “preghiera del cuore”, di cui l’esempio classico così suona: “Gesù, Figlio di Dio Onnipotente, abbi pietà di me, peccatore“, da ripetersi come le avemarie del rosario e come i novantanove nomi di Allah nell’Islam, in sequenza instancabile, come un mantra buddista. Legàmi sovra-religiosi indubbi.
Gregorio non si è mai ritenuto un pensatore, un filosofo o un teologo in senso accademico. Per lui la cultura ha una sua funzione ma la pratica cristiana e la visione di Dio è qualcosa di assolutamente superiore. Gregorio scrive nella Filocalia:
«È una conoscenza più alta di quella sulla natura, dell’astronomia e di tutta la filosofia attorno ad esse, non solo sapere Dio e che l’uomo conosca se stesso ed il proprio ordine ma pure che il nostro intelletto sappia la propria debolezza. […] Infatti l’intelletto che conosce la propria debolezza ha trovato anche da dove può giungere la salvezza, avvicinarsi alla luce della conoscenza ed assumere una sapienza vera, che non si dissolve con questo secolo.»
Commenta scrivendo che avrebbe potuto scrivere in modo retorico per stupire i suoi ascoltatori ma, invece, ha ritenuto opportuno evitarlo. Leggiamo ancora, dalla sua opera citata:
«La conoscenza della sapienza profana come potrà cacciare fuori dall’anima tutta la malvagità creata dall’ignoranza, se a far questo non basta neppure la conoscenza dell’insegnamento evangelico? […] Neppure la conoscenza del Dio che ha creato queste cose [il mondo visibile e quello invisibile], da sola non può giovare a nessuno. […] Vedi che la sola conoscenza, senza l’amore, non purifica affatto l’anima ma l’uccide. […] L’educazione profana serve alla conoscenza naturale, ma non può mai divenire spirituale, a meno che non accompagni la fede e l’amore di Dio, o meglio ancora, a meno che non sia rigenerata dall’amore e dalla grazia che vi si manifesta.»
Gregorio fu un grande estimatore di Dionigi l’Areopagita, filosofo e teologo neoplatonico, ma lui non lo scrisse mai, perché non voleva confondersi con i filosofi di professione (potremmo dire, sulle tracce di Agostino, che pure era debitore di Platone in molti concetti filosofico-teologici, come nel concetto di Dio come Bene in-sé), anche se si trattasse di quelli a lui più affini. Leggiamo ancora:
«[…] con la filosofia i conoscitori della natura e gli scrutatori delle stelle, che si vantano di sapere tutte le cose, non possono accorgersi di nessuna di quelle su elencate [le verità rivelate]. Essi ritennero che il sovrano dell’oscurità intellettuale [il demonio] e tutte le potenze ribelli sotto di lui fossero non solo superiori a loro stessi ma dèi. Li onorarono con dei templi, offrirono dei sacrifici ed assoggettarono se stessi ai loro rovinosissimi oracoli, dai quali ovviamente furono quasi sempre ingannati, attraverso sacerdoti senza sacralità e sudicie purificazioni che ispiravano un’abominevole presunzione, e profeti e profetesse che erravano il più lontano possibile dall’effettiva verità.»
Gregorio, in questo sulle tracce di Platone (ricordiamo gli agraphà dògmata del grande ateniese, cioè i non-scritti che avrebbero contenuto, anche secondo Aristotele, le idee più alte del Maestro), iniziò a comporre le sue opere quando ne fu costretto. Il suo pensiero si può trarre dagli scritti a difesa del modello di vita monastico e dalle pratiche spirituali dei monaci atòniti (del Monte Athos).
Palamàs, inizia a scrivere anche per contrastare le idee di un monaco-filosofo da poco giunto a Costantinopoli: Barlaam di Calabria.
Barlaam giunse a Costantinopoli apparentemente per motivi di fede, ritenendo che i greci avevano conservato una purezza cristiana persa dai latini. Uno dei suoi primi trattati, infatti, riguarda proprio la difesa di alcune posizioni di fede greche. Appena giunto nella capitale imperiale iniziò ad insegnare filosofia ricevendo attenzione e plauso di un’élite che stava riscoprendo i classici greci. Giunto alle sue orecchie che alcuni monaci facevano strane pratiche d’orazione nel Monte Athos, volle recarvisi per scoprire di cosa si trattava. Nell’Athos, probabilmente, ricevette una pessima spiegazione riguardo a tali pratiche e ne fu scandalizzato. Fece ritorno a Costantinopoli col fermo proposito di denunciare come demoniaco quanto aveva visto. Iniziò subito a diffondere le sue opinioni attirandosi l’attenzione di Palamàs.
Il santo dapprincipio fu mite e consigliò al suo interlocutore di limitarsi alla sola filosofia, tralasciando d’invadere un campo che non era di sua competenza. Barlaam non desistette e, con argomentazioni filosofiche, ripropose le medesime accuse in modo ancor più incisivo e convinto. Solo allora la polemica s’infiammò.
La polemica tra Barlaam e Palamàs ha un interesse che supera di molto il contrasto d’idee tra i due personaggi. Barlaam si può in un certo senso considerare un umanista, il rappresentante di una nuova sensibilità, di un modo nuovo d’osservare il mondo e le idee religiose. Come tale, egli dava un notevole peso alla filosofia neoplatonica (nella quale leggeva in modo particolare lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita). Barlaam traccia una netta distinzione tra il regno increato (Dio) e la mente umana in quanto tale. Egli formula una specie d’ “agnosticismo” per quanto riguarda la realtà divina in se stessa.
Ad esempio, siccome per lui, in definitiva, il regno di Dio è inaccessibile all’uomo, non ha senso alcuno il contrasto dogmatico tra Oriente ed Occidente sul Filioque nel campo della conoscenza secolare, pone Platone e Aristotele al più alto livello, al pari della Bibbia e dei Padri della Chiesa per la teologia. Per Barlaam è possibile «conoscere Dio solo attraverso il mondo creato mentre le affermazioni negative su Dio, espresse dallo Pseudo Dionigi, servono unicamente a determinare ciò che Dio non è». Barlaam pensava che, alla fine, lo studio e l’apprendimento fossero più importanti della preghiera e della contemplazionee. Coerentemente con ciò, riteneva una perdita di tempo sottratto allo studio lo stile di vita dei monaci atoniti, completamente incentrato sull’orazione esicasta, ossia su quella preghiera che, includendo particolari tecniche, era fatta nella quiete o “esichìa”.
Barlaam ridicolizzò i monaci esicasti definendoli “omphalompsychoi”, ossia persone che situavano la presenza dell’anima nell’ombelico. Barlaam si oppose agli esicasti, accusandoli d’essere messalianii e cioè di pretendere di vedere l’Essenza Divina con gli occhi del corpo, cosa negata persino da Platone.
Gregorio iniziò col difendere l’esicasmo e passò, in seguito, a ribadire che i profeti hanno un grado di conoscenza del divino che non si può minimamente paragonare a quello di un filosofo, giacché solo i profeti potevano realmente vederLo e sentirLo nel proprio cuore mentre il filosofo Lo poteva solo congetturare. Ciò che l’uomo poteva vedere di Dio non era il Dio in se stesso (la sua sostanza) ma i suoi effetti. Inoltre, l’uomo non può risalire a Dio dalla realtà creata poiché non vi è alcun paragone tra il creato e l’increato (il regno di Dio) (È qui la differente lettura che Palamas e la tradizione orientale hanno dello Pseudo-Dionigi). Non è possibile instaurare tra i due alcun genere d’analogia. Nonostante ciò l’uomo, per grazia, è in grado d’avere esperienza dell’increato e di entrare in comunione con Dio che gli si rivela. Nel sistema palamita è escluso alla radice l'”agnosticismo” barlaamita.
Nelle seguenti parole di Palamàs, in risposta a Barlaam, notiamo la sintesi di alcune sue posizioni che lo oppongono a Barlaam:
«Non è affatto utile né opportuno, anzi è invece fin troppo dannoso per tutti cercare nelle parole le cose superiori alle parole, gettare i misteri in pasto al popolo, affidare questi temi all’ascolto ed all’intendimento dei bambini, incitare i laici contro i monaci ed offrire motivi di non poca confusione alla Chiesa di Cristo.»
Queste parole mostrano la profonda differenza nella formazione dei due uomini: il primo, il filosofo Barlaam, aveva grande fiducia nella ragione, che poteva risalire a Dio dalle realtà create. Il secondo, Gregorio, ravvisava nella ragione dei limiti quando si trattava di parlare di Dio, dal momento che Egli è oltre tutto il concepibile e l’umanamente immaginabile. Il primo riteneva utile coinvolgere tutti, il secondo comprendeva che certi argomenti hanno bisogno di prudenza e di profonda formazione spirituale per essere abbordati. Il primo creava una distanza tra il mondo dei laici e quello dei monaci, quasi che questi ultimi fossero il retaggio di un’epoca oramai sorpassata. Il secondo non faceva alcuna differenza tra i due, dal momento che i monaci altro non sono che dei laici i quali vivono radicalmente le esigenze battesimali.
In merito alla questione della possibilità da parte dell’uomo di maturare la conoscenza del Dio trascendente e sostanzialmente inconoscibile, Gregorio distinse fra il conoscere Dio nella sua essenza (in greco ousia) e il conoscere Dio nelle sue “energie” (in greco energeiai), che si possono tradurre con “effetti”, “manifestazioni” o “attività”, per sgombrare il campo da equivoci che le moderne connotazioni esoteriche della parola “energie” possono addurre. Gregorio mantenne la convinzione che fosse impossibile conoscere Dio nella sua essenza (chi sia Dio in e per se stesso), ma mostrò la possibilità di conoscerlo nelle sue “energie” (conoscere che cosa Dio faccia e chi Egli sia in relazione alla creazione e all’uomo), dal momento che Dio si è rivelato nel Figlio suo. Nelle sue argomentazioni Gregorio si rifece ai Padri della Chiesa che lo precedettero, in particolare ai Padri Cappadocii al punto che, per alcuni, compie una geniale sintesi di tutto il pensiero patristico fino ad allora.
Le idee barlaamite furono definitivamente rigettate in due sinodi: uno del giugno e l’altro dell’agosto 1341, entrambi tenuti a Costantinopoli. In seguito alla sua condanna, il Calabro tornò in Italia, fu fatto vescovo di Gerace dal papa e, in seguito, ambasciatore papale a Costantinopoli per preparare un’unione tra la Chiesa greca e quella romana. Le trattative fallirono. Per breve tempo fu pure maestro di greco del Petrarca .
Il pensiero teologico di Gregorio Palamàs è intimamente connesso con l’esperienza cristiana e, quindi, con la mistica. La sua non è teoria o semplice filosofia né, tantomeno, un pensiero di matrice “neoplatonico” come sostengono alcuni. Tra il neoplatonismo e Palamàs c’è quasi un abisso. Palamàs è categorico: solo l’uomo spirituale può essere il trasmettitore di una tradizione spirituale che ha profondi legami con la tradizione dogmatica e ad essa rimanda costantemente. Un uomo che, sulla base della pura logica, presume di farlo conduce fuori strada. Costui viene definito “psichico”, ossia intellettuale. Gregorio ne ha chiara coscienza:
«Chi si fida dei propri ragionamenti e delle indagini compiute attraverso di essi, perché pensa di trovare tutta la verità con distinzioni, sillogismi ed analisi, non può né conoscere le esperienze dell’uomo spirituale né credere in esse. In effetti costui è psichico: ‘ma chi è psichico’, dice ‘non riceverà le manifestazioni dello Spirito’, né può farlo: quindi chi non le conosce e non vi crede, come potrà renderle conoscibili e credibili, confrontandosi con gli altri? Per questo se uno insegna sulla sobrietà senza esichìa, senza la sobrietà dell’intelletto e senza l’esperienza dei suoi effetti spirituali ed ineffabili, ma invece conformandosi ai propri ragionamenti e cercando in tutti i modi d’indagare con la parola il bene superiore alla parola, è chiaramente caduto in un’estrema follia e, nella sua sapienza, è davvero divenuto pazzo, in quanto ha scioccamente supposto di poter esaminare con una conoscenza naturale le manifestazioni che sono superiori alla natura e le profondità di Dio conosciute solo dallo Spirito.»
Gregorio Palamàs non ha fatto dei trattati sistematici di teologia, divisi per temi specifici. Quando si trovava davanti ad un problema urgente in cui era richiesta la sua risposta, componeva degli scritti. In questo modo, per risalire alla sua visione dell’uomo, all’antropologia, siamo costretti ad esaminare l’insieme dei suoi scritti. Per Palamàs, l’uomo è una realtà composta di realtà materiali (il corpo) e di realtà spirituali (l’anima e lo spirito). La sua antropologia è strettamente biblica e patristica. Tuttavia, egli quando mostra che l’uomo è fatto per Dio, indica precisamente che ogni sua parte e realtà possono deificarsi, corpo compreso. Palamàs afferma a tal proposito:
«Il piacere spirituale che dall’intelletto giunge al corpo, per nulla peggiorato per la comunione con il corpo, trasforma il corpo e lo rende spirituale, ed esso respinge i cattivi appetiti carnali e non abbassa più l’anima, ma si solleva con essa, fino al punto che l’uomo intero è Spirito, com’è descritto: ‘Colui che è dello Spirito è Spirito’. Ma tutto questo diventa chiaro solo nell’esperienza.»
L’uomo non può giungere a Dio con il pensiero razionale (la cosiddetta “dianoia”) ed è per questo che Palamas si oppone a Barlaam. Tuttavia, l’uomo può intuire la presenza divina con la parte più elevata della sua intelligenza intuitiva (il cosiddetto “nouss“). Il “nous” è una specie di “occhio spirituale” che dev’essere purificato per potersi accostare al divino, intravvederlo e goderne. Il “nous”, o intelletto spirituale, dopo essersi staccato da tutti i legami che lo ottenebrano (le passioni e gli attaccamenti mondani) viene calato nel cuore, ossia nella realtà più intima dell’uomo ed è lì che, nella grazia divina, viene deificato e risplende. La preghiera esicasta ha un ruolo importante in questa discesa del “nous” nel cuore. Risplendendo l’occhio interiore, anche tutto il corpo si trova nella luce. In questo senso i monaci esicasti interpretano il famoso versetto del salmo in cui il salmista dice: «E alla tua luce, vediamo la luce» (Sl 35,10).
«In contrasto con Barlaam, che cercava d’eliminare completamente la passionalità dell’anima [influsso neoplatonico], st. Gregorio Palamas non ha cercato l’annientamento di ciò che è legato al corpo (l’irascibile e il concupiscibile), ma, piuttosto, porlo al servizio del bene e dell’amore.»
(Staniloae Dumitru)
Il santo atonita ha un’antropologia particolarmente dinamica: ha un aspetto legato all’immagine di Cristo, nuovo uomo, e un aspetto trinitario. Riguardo a quest’ultimo, «alla luce della Rivelazione», la natura umana è «natura trinitaria dopo la suprema Trinità, poiché al di sopra di tutte, è fatta a sua immagine, composta da un intelletto (nous), dalla parola (lògos) e dallo spirito (pneuma)». Questo è l’ordine che deve conservare. È in questo che consiste la “bellezza” propria all’uomo preservata «attraverso la fede, la propensione e la disposizione a Lui».
L’antropologia palamita, riprendendo i percorsi classici ascetici dei padri del deserto, è animata da un profondo ottimismo, dal momento che all’uomo è data la possibilità d’essere ontologicamente dio, nella sua Grazia. Palamàs riporta, adattandolo ai suoi tempi, il famoso adagio di Atanasio d’Alessandria in base al quale «Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse dio».
Questo genere di antropologia ottimista non è molto condiviso in chi si muove con presupposti filosofico-tomistici (qui, infatti, non si parla di “nous”) ed è escluso nei presupposti del pensiero luterano (per i quali l’uomo può essere solo giustificato in quanto inguaribilmente peccatore e quindi distante da Dio).
Per Palamàs la storia della salvezza è un processo in continua realizzazione: Dio opera in ogni istante nel mondo attraverso le sue divine energie. Sono le divine energie che mantengono il mondo in vita, agiscono nell’uomo, lo convertono e lo attraggono a Dio. All’interno di questo quadro generale si situa la vita sacramentale: il fedele nel momento in cui assume i sacramenti (o misteri) partecipa in modo particolare a quelle divine energie che pervadono la realtà. La vita che Dio infonde attraverso l’azione sacramentale procede da Lui stesso e quindi è un atto increato: “Tutte le cose che ci sono state date e concesse in grazia da Dio – dice Gregorio – non sono pari, né ciascuna di esse è una creatura”.
Dio da’ realmente se stesso, non un suo effetto creato, punto che lo divide dalla visione aristotelico-tomista. Inoltre, il misticismo palamita non è sganciato dalla Chiesa, come se fosse un’attività individualistica ma fa parte della storia della salvezza stabilita da Dio nella Chiesa. Il centro di questa storia è Dio stesso che infonde le sue energie all’intero cosmo.
«[…] grazie alla partecipazione di questo pane divino [quello dell’eucaristia], non solo siamo attaccati, ma anche mescolati al corpo di Cristo, e diveniamo non solo un solo corpo, ma anche un solo spirito con Lui. Vedi che la smisurata grandezza dell’amore di Dio verso di noi interviene e si mostra attraverso la distribuzione di questo pane e di questo vino?.»
(Gregorio Palamàs)
Ma è bene sottolineare che, per lui, i sacramenti non sono e non saranno mai dei fini ma puri mezzi per giungere a Dio. L’asceta che non ha la possibilità di accedervi frequentemente, può comunque purificare se stesso attraverso le “lacrime di penitenza”. Palamàs esorta il suo popolo nei termini seguenti:
«Quindi, vi prego, non tralasciamo d’invocarLo con digiuni, preghiere, lacrime ed in tutti i modi, finché non ci si avvicini e ci guarisca.»
(Gregorio Palamàs, Omelia IX)
«Con un intenso dolore e pentimento e con le lacrime, vale a dire con il più drastico farmaco per l’espiazione “Dio non disprezzerà”, dice, “un cuore contrito ed umiliato”; e l’afflizione che piace a Dio attiva un pentimento senza pentimenti per la salvezza, e «colui che semina la sua preghiera nelle lacrime mieterà il perdono nella gioia.»
(Gregorio Palamàs, Omelia XXVIII)
La sua teologia, dunque, pone un accento tutto particolare sul bisogno di purificazione dell’uomo, attività previa e contemporanea a tutto il resto. Una vita sacramentale che prescinda da queste basi finirebbe per rinnegare se stessa. Sembra, perciò, che Palamas conoscesse le critiche che, in tal senso, esprimeva san Simeonee il Nuovo teologo, proprio qualche secolo prima (XI sec.).
«Ogni prete, diacono e pure monaco, se partecipa alla grazia divina con tutte le condizioni previe stabilite dai Padri, allora è un autentico vescovo, anche se non fosse ancora fatto tale dagli uomini. Al contrario, chiunque non fosse iniziato alla vita spirituale, verrebbe falsamente ordinato, pure se la sua ordinazione lo stabilisse al di sopra degli altri, lo dirigesse e lo facesse comportare in modo arrogante.»
È solo considerando seriamente questa preminenza carismatica che siamo in grado di comprendere i termini apparentemente “anarchici” dell’ecclesiologia di Palamàs:
«Poiché, dunque, in Cristo Gesù non c’è né maschio né femmina, né greco né giudeo, ma tutti sono una cosa sola, secondo il divino Apostolo, “così in Lui non c’è né chi comanda, né chi è comandato”, ma tutti, per mezzo della sua grazia, siamo una sola cosa per la fede in Lui, e formiamo il solo corpo della sua Chiesa, avendo Lui come unica testa.»
(Gregorio Palamàs, Omelia XV)
Sempre la preminenza carismatica, che pone l’accento sull’esperienza, fa proclamare, ad esempio, la grazia sacramentale increata (mentre per il tomismo la grazia, pur soprannaturale, è definita “creata” coerentemente con i suoi presupposti filosofici)]. La Chiesa è veramente rappresentata da coloro che hanno esperito tale grazia.
È solo per questo, non per vana erudizione, che Gregorio ama citare le colonne della Chiesa: Dionigi Areopagita, Massimo il Confessore, Basilio Magno, Atanasio di Alessandria, Gregorio di Nissa e altri. Allora, scagliarsi contro i monaci (o ritenerli qualcosa di tutto sommato marginale o poco influente), per Gregorio, non è porsi contro un partito o una parte ma contro la Chiesa stessa poiché essi conservano, vivendolo, il deposito di fede di tutta la Chiesa. Il Tomo Sinodale di condanna a Barlaam, che risente dell’influsso gregoriano, dichiara significativamente:
«Se qualcun altro manifestasse di muovere contro i monaci una di quelle accuse dette o scritte da lui contro i monaci, “o meglio contro la Chiesa stessa”, o in generale di d’attacarli in tali questioni [sia] sottoposto alla stessa condanna […] anche lui sarà scomunicato e tagliato fuori dalla santa cattolica ed apostolica Chiesa di Cristo e dalla comunità ortodossa dei cristiani.»
La Chiesa, quale comunità dei santi divinizzati, rappresenta la garanzia del retto cammino. Gregorio afferma:
«Ho un nugolo di martiri insieme al quale sarò condotto all’incontro col Promesso; ho una squadra di giusti, coi quali otterrò la superiore resurrezione; farò parte della Chiesa con i confessori della fede; sarò nel numero dell’assemblea dei primogeniti; parteciperò di doni ed onori immortali.»
(Gregorio Palamàs)
La funzione sacerdotale, nella Chiesa, ha un ruolo medicinale. Il sacerdote, oltre ad amministrare le medicine della Grazia, ossia i sacramenti, dev’essere in grado di conoscere il cammino che porta a Dio, e precedere i fedeli in esso. In caso contrario, come affermerebbe pure Simeone il Nuovo Teologo, non trasmette il carisma apostolico. Il suo ruolo non è, dunque, di puro insegnamento ma di testimonianza vivente.
«Nella sua omelia per il giorno di Pasqua, Gregorio Palamàs esorta ciascun cristiano, dopo aver partecipato alla divina liturgia domenicale, di cercare assiduamente qualcuno che, imitando gli apostoli, rinchiusi il giorno della crocefissione, viva per lo più isolato, nel silenzio con il Signore immerso nella preghiera esicasta e nella salmodia, conducendo una vita irreprensibile. Questo cristiano deve accostarsi a lui, entrare nella sua casetta come se fosse un luogo celeste pieno della potenza santificante dello Spirito Santo […] e interrogarlo su Dio e le cose divine imparandole con umiltà e richiedendo l’aiuto della sua preghiera”.»
Il concetto monastico e carismatico di Chiesa espresso da Palamas influisce fortemente ancor oggi nell’Oriente cristiano mentre l’Occidente esprime un concetto piuttosto istituzionale e legale.
E’ questo un dilemma etico/giuridico, che ci accompagna fin dall’antichità, col quale si sono cimentati filosofi ed artisti, laici e religiosi, massoni e gesuiti, santi e peccatori, rivoluzionari e lacchè del potere.
DEL TIRANNICIDIO
Da Luciano di Samosata a Cicerone, da S. Tommaso d’Acquino a Lorenzino dei Medici, dalla rivoluzione inglese a quella francese, da Mazzini ai regicidi anarchici, da Tolstoi alle rivoluzioni del XX secolo, e fino ai giorni nostri, non si è mai smesso di ragionare sul tirannicidio, questo gesto di extrema ratio del “diritto di resistenza”.
Ma il tirannicidio è giustificato oppure no ? E’ solo da comprendere o è anche da condividere ? E’ sempre da condannare o dipende dai casi ? Serve a qualcosa o è inutile, o addirittura controproducente ? E’ sufficiente essere eletto dal popolo sovrano per non essere un tiranno o è sufficiente non essere eletto per non diventarlo ?
La dottrina cattolica, ad esempio, distingue tra il “tiranno per usurpazione” (tyrannus in titula, cioè che ha preso il potere illegalmente) ed il “tiranno per oppressione” (tyrannus in regimine, cioè che abusa del potere che ha ricevuto legalmente).
Uno dei riferimenti più datati attribuito a Cicerone che oltre ad affermare che “chi sfugge alla giustizia nei tribunali deve attendersi di trovarla nelle strade” dice anche che “Bellum est in eos qui Judiciis coerceri non possunt” ovvero “facciamo la guerra a coloro contro cui nulla può la legge” .
Ma il riferimento più esplicito sul vero significato del tirannicidio, uno dei testi che meglio spiega se sia lecito o meno uccidere un tiranno, o un dittatore, lo si trova nel Commento alle sentenze di Tommaso d’Aquino (cf. anche mio articolo del 3 marzo u.s.).
Ed è opportuno citare qui uno dei passi più significativi del testo, riferito all’oggetto del nostro approfondimento: “Colui che allo scopo di liberare la patria uccide il tiranno viene lodato e premiato quando il tiranno stesso usurpa il potere con la forza contro il volere dei sudditi, oppure quando i sudditi sono costretti al consenso. E tutto ciò, quando non è possibile il ricorso ad una istanza superiore, costituisce una lode per colui che uccide il tiranno ”.
E quest’ultimo passaggio è spiegato così dal Prof. Aldo Vendemiati : “Se il tiranno è un feudatario, si può ricorrere all’imperatore per rimuoverlo. Ma se non esiste un imperatore, il tiranno va ucciso”.
Questo pensiero va ben oltre rispetto a ciò che scriveva il giurista e filosofo Ugo Grozio nel De Jure belli ac pacis : “Un re che si dichiara apertamente nemico del suo popolo, e che abdica così al suo potere, sia da combattere fino alla fine”.
Qualche anno prima Giovanni di Salisbury , ragionando sul diritto di tirannicidio, affermava che “non soltanto è permesso ma è anche equo e giusto uccidere i tiranni . . . e in quanto immagine di malvagità, il più delle volte va addirittura ucciso” potendosi sostenere il principio fondamentale della difesa sociale e che, per analogia, è “dunque possibile considerare come se fosse una legittima difesa personale ”.
Nel 1414 Claudio Fleury fa la “telecronaca” delle numerose sessioni di una Assemblea tenutasi in Francia a partire dal 30 Novembre, presso l’Università di Parigi, sugli scritti di Giovanni il Piccolo che citava tutti i casi di tirannicidio della Bibbia e sosteneva la tesi che “Ciascun tiranno deve e può essere lodevolmente e per merito ucciso da qualunque suo vassallo e suddito in qualunque forma ”.
E ancora: “E’ lecito a ciascun suddito senza niun mandato o comandamento, secondo la legge morale, naturale, e divina, di uccidere o far uccidere ogni tiranno . . . non solamente è lecito, ma è onorevole, meritorio parimente . . . ”
E sono citate dall’autore una serie di uccisioni a partire da quella di Lucifero a quella di Finees, figlio di Eleazaro, che uccise Zambri, di Giuditta che uccise Oloferne, di Joab che uccise Abner , e molte altre ancora.
Parole forti su questo argomento, sulla necessità di uccidere i tiranni, sono scritte dal gesuita Juan de Mariana nel 1599: “Riteniamo che si debbano tentare tutti i rimedi per rinsavirlo prima di giungere a un punto estremo e gravissimo. Ma se ogni speranza fosse oramai tolta e se fossero in pericolo la salute pubblica e la sanità della religione, chi sarà tanto povero di saggezza da non ammettere che sia lecito abbattere il tiranno con diritto, con le leggi e con le armi ?”
Ed infine non si può non citare quanto scrive Maximilien Robespierre : “Quali sono le leggi che la sostituiscono allora ? (ndr: la Costituzione) Quelle della natura, quella che è alla base della stessa società: la salvezza del popolo. Il diritto di punire il tiranno e quello di deporlo dal trono sono la stessa cosa . . . il processo al tiranno è l’insurrezione, il suo giudizio è la caduta della sua potenza, la sua pena quella che richiede la libertà del popolo”.
Ma è sorprendente ed inaspettato trovare, e leggere, quanto scritto in un documento relativamente recente, nella Costituzione conciliare del 1965 Gaudium et Spes : “Dove i cittadini sono oppressi da un’autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino di fare quelle cose che sono oggettivamente richieste dal bene comune e sia perciò lecito difendere i propri diritti contro gli abusi dell’autorità”. Autore: Paolo VI
Ma in una società complessa, di capitalismo avanzato, può esistere la figura del tiranno oppure il “potere” è spersonalizzato ed ogni membro della classe dirigente può essere subito rimpiazzato ?
Spesso il dibattito si è intrecciato e confuso con quello della lotta armata, la clandestinità, il terrorismo ma se teniamo distinti i due piani, come fece l’Alfieri , possiamo arrivare alla conclusione che, anche se talvolta può esistere una congiura, il tirannicidio, il più delle volte, è frutto di iniziative individuali ed occasionali; rientrano, invece, in una categoria “mista” gli attentati subiti da Luis Carrero Blanco nel 1973 e riuscito, da Anastasio Somoza Debayle nel 1980 e riuscito, da Augusto José Ramón Pinochet Ugarte nel 1985 e non riuscito.
Di solito il tirannicida va, o vorrebbe andare, a colpo sicuro, ammazza, o cerca di ammazzare, il tiranno o, al minimo, un suo strettissimo collaboratore.
Qualche anno fa il dibattito si è riacceso a proposito della “guerra preventiva” contro l’Iraq; qualcuno ha giustificato l’aggressione e l’invasione con la necessità di eliminare Ṣaddām Ḥusayn ʿAbd al-Majīd al-Tikrītī ; tale interpretazione non è condivisibile perché il tirannicidio, oltre ad avere le caratteristiche sopra specificate, deve essere compiuto “dal basso”, da un suddito, dall’oppresso, comunque da una vittima del tiranno, da qualcuno che ha subito il suo potere.
Di solito si afferma che il “terrorista di oggi è lo statista di domani” .
Per l’impero britannico George Washington era un terrorista, per l’impero austro-ungarico terroristi erano i carbonari e la Giovine Italia, per gli occupanti tedeschi erano terroristi i partigiani, negli anni 1930-1940 Yitzhak Shamir, uno dei padri della patria israeliana, era un terrorista responsabile di attentati anti-arabi ed anti-britannici tra cui, nel novembre del 1944, l’omicidio del rappresentante inglese in Egitto Lord Walter Edward Guinness, barone Moyne.
Per buona parte della sua vita Nelson Mandela è stato definito “terrorista” anche da un leader di governo europeo come Margaret Thatcher.
Allo stesso modo si può dire che il regicida/tirannicida all’inizio viene considerato un “folle” ed un “criminale” per poi essere ricordato come martire, eroe e precursore dei tempi.
A partire dal VI secolo a.C., ad Atene, diverse statue di bronzo celebrarono il tirannicidio compiuto da Armodio e Aristogitone a danno del tiranno Ipparco.
Gaetano Bresci, autore dell’attentato a Umberto I° , è celebrato come eroe e vendicatore dei proletari e viene commemorato da una statua a Carrara .
Sferzante e pieno di tragico realismo è quanto scrive James Connolly : “Per le vie di Milano cento donne della classe operaia vengono uccise con la baionetta o a colpi di arma da fuoco, stringendo al seno i loro bimbi affamati mentre la buona società riserva loro un trafiletto di giornale. Una imperatrice è pugnalata in una strada di Ginevra e, apriti cielo, l’Umanità ne è sconvolta ! Sarà forse l’impietosa mano della storia a rovesciare la procedura dedicando a quell’olocausto di lavoratrici un intero capitolo in quanto martiri dell’umanità e confinando l’assassinio dell’imperatrice in una nota a piè pagina”?
Dissacrante e cinico può essere giudicato quanto scritto da Lenin : “In verità quanto accaduto al re del Portogallo è solo un incidente sul lavoro legato al mestiere di re . . . Da parte nostra ci limitiamo ad aggiungere che una sola cosa ci dispiace: che il movimento repubblicano in Portogallo non abbia regolato i conti con tutti gli avventurieri in modo sufficientemente aperto e deciso”.
E restano distanti e contraddittori i giudizi, la “memoria divisa”, sugli avvenimenti di Piazzale Loreto e sulle diverse versioni e ricostruzione dei fatti che ancora oggi, nonostante i numerosi studi effettuati, restano ancora parzialmente dubbi e nel mistero.
Ed oggi ?
Oggi non esiste più il nuovo principe ma il nuovo despota collettivo, la casta; l’attentato al tiranno di ieri è cosa molto meno complessa della lotta alla casta di oggi, anche perché questa non ha una sola testa, ma mille teste e come una piovra estende i suoi tentacoli in ogni strato della società.
Non basta il complotto o l’atto isolato, ci vuole una complessa opera collettiva, articolata e ben organizzata.
Molto altro si potrebbe scrivere e tanto si potrebbe dibattere su questo argomento, anche riferito alle più quotidiane vicende della nostra vita spicciola e professionale, ovviamente solo metaforicamente e non riferibili a re o tiranni; lo scopo di queste poche righe era quello di offrire lo spunto per ulteriori riflessioni personali anche nell’ambito delle proprie vicissitudini.
Quanto da me scritto in questo saggio non ha la pretesa di costituire un itinerario teorico di verità, ma certamente di documentata riflessione. Ciò mi permette di rispondere a una domanda che mi è stata fatta e che probabilmente può essere nel cuore implicitamente di qualche lettore: “Chi sono quelle persone che ho citato nei vari ruoli per dire, affermare, decidere, etc…?”
E’ semplice: (ha titolo di essere citato in una ricerca scientifia) chi variamente opera nella storia umana, le cui vicende vanno analizzate con acribia e precisione documentale e non ideologicamente. Se si parla di teologia non si può applicare lo statuto epistemologico dell’ateismo militante, proprio perché l’ateismo è una ideologia. Lo statuto epistemologico dell’agnosticismo, invece, non si scontra con l’onestà intellettuale della ricerca. L’ateismo professato con astio, sì.
Concludo: la dottrina cattolica prevede il tirannicidio con chiarezza, quella ortodossa, no. E Putin che cosa è? Un tiranno? Conclusione retorica a una domanda retorica.
La pòlis era la città nell’antica Grecia e nei territori influenzati dalla cultura ellenistica, e la politica era, ed è rimasta, la teoria e la prassi del governo-della-città.
La politica è un’arte, Aristotele sosteneva che fosse la più alta nell’ambito dell’agire umano. Platone riteneva che il governo della pòlis dovesse essere affidato ai filosofi, perché più saggi e sapienti rispetto agli altri, artigiani o soldati che fossero. La politica, storicamente, è stata sempre un’attività richiedente qualità e conoscenze vaste e consolidate, in ogni tempo e luogo.
Pertanto, ragionando con la mentalità nostra, nella situazione odierna, chiedendomi se la proposta di Platone fosse oggi utilmente applicabile, resterei molto scettico, proprio per la conoscenza diretta che ho dei filosofi di oggi. Ovviamente di alcuni di essi, ma in un numero sufficiente per ritenere che non sia proprio il caso di “obbedire” a Platone.
Al governo devono dedicarsi persone che hanno dimestichezza con le esigenze sociali, dell’economia, della sanità, della formazione, non solamente della filosofia: piuttosto, la filosofia dovrebbe informare della sua modalità sapienziale e conoscitiva delle “cose dell’uomo” soprattutto la dimensione etica dell’agire politico, che è individuale e sociale nel contempo.
In particolare, la Filosofia morale dovrebbe sempre ispirare la Politica e il Diritto.
Certamente i filosofi della politica, à là Norberto Bobbio o Pietro Scoppola, sono indispensabili per suggerire il fare una buona politica, ma non gli farei governare un’azienda o un ente locale, sia d’accordo o meno su ciò un ex sindaco come Cacciari.
Un amministratore deve avere senso della concretezza, della praticità, dell’efficacia, pur dovendosi ispirare a valori, princìpi e virtù morali.
Si pensi che oggi, e fino alle nuove elezioni politiche (sperabilmente nel 2023), il partito di maggioranza relativa è una forza che sostiene come fondamento teorico-pratico, l’assurdo, insensato e pericoloso principio teorico-pratico dell’uno-che-vale-uno, in quanto nessuno potrebbe a giusta ragione ergersi a maestro o capo in luogo di altri, ovvero, per meglio dire, ciascuno, indifferentemente, quale sia la sua preparazione ed esperienza, potrebbe fare il leader in qualsivoglia situazione o temperie. Pazzesco!
Ora, se è vero che tale affermazione, cioè di uno-che-vale-uno, può avere senso se si pensa alla dignità di ogni persona, qualsiasi sia il suo stato personale, economico, sociale, etc., è estremamente folle applicarla all’agire concreto, all’assunzione o all’attribuzione di responsabilità, alla programmazione e alla gestione di grandi progetti politico-economici che richiedono un utilizzo intelligente e competente di risorse, conoscenze tecnico-organizzative e abilità gestionali di prim’ordine.
Solo a guardare il desolante e desolato panorama dei votanti-Mattarella di qualche giorno fa, vien da dire che l’abbiamo scampata bella a superare i cosiddetti governi guidati dall’avvocatodel popolo (bum!).
Ciò che annoia al punto da intorpidire di stanchezza la mente è la permanenza di commenti e affezioni ai sopra citati.
Ma andiamo oltre, perché il su nominato “presidente” del Movimento 5S è stato nientificato da un tribunale civile in questi giorni, e ciò è per me un regalo di compleanno che si aggiunge a una sconfitta dell’Atalanta (che NON E’ una dea!) dell’antipatico Gasperini, sconfitta che spero si reiteri prossimamente. Due regali che valgono come una raccolta delle sinfonie di Beethoven dirette da von Karajan.
Restiamo sulla destituzione per legge del supposto “presidente” dei 5S Conte. Lui, pronto a sottolineare di essere avvocato (mi pare imprudentemente, stante la situazione), sostiene che la sua leadership non può essere abbattuta da carte bollate, perché essa si basa sui valori e sui princìpi. Ebbene, sì, caro avvocato, la sua leadership può essere resa nulla da una sentenza.
Un consiglio: se ne faccia una ragion giuridica, ma ancora prima una ragion logica, e politica, se ci arriva. E altrettanto rifletta, se vuole (gli sarebbe utile, penso, perché non so quanta audience ottenga ancora con questi modi aggressivi e insultanti, che usa sempre con tutti, come se lui fosse il maestro di vita e di pensiero, per eccellenza), il suo maggior supporto, cioè il direttore di un quotidiano, che non nomino, per pura noia e per fastidio insuperabile.
Mi piacerebbe guardare in faccia i geni (che paghiamo noi) che trovano i tempo di proporre le idiozie di cui sopra, per vedere se hanno il lume dell’intelligenza negli occhi.
Costoro sono gli stessi che anni fa suggerirono ai politici di non accettare nella Costituzione europea che si citassero le origini generative dell’Europa stessa nelle culture ebraico-greco-latina-cristiana e, aggiungerei, illuminista, perché l’illuminismo settecentesco, quello inglese (J. Locke), francese (Diderot, Montesquieu, Voltaire, D’Alembert), tedesco (Kant) sono filiazione, anche se indiretta, dei valori evangelici.
Da dove vengono fraternité, egalité, liberté, se non dall’insegnamento gesuano delle Beatitudini? Eterogenesi dei fini? Sì, ma solo storicamente, perché Vangeli e Filosofie illuministiche sono state azioni diacroniche del pensiero umano. E potrei continuare ad libitum.
Proviamo a ragionare. Primo: hanno da fare così poco quei funzionari, da affaticarsi su tematiche inesistenti? Secondo: vorrei fare un’inchiesta breve, a campione, tra i cento musulmani che conosco sulla dizione “buon Natale”: ebbene, per la conoscenza che ho, sono certo che tale augurio non disturba nessuno. Infatti, io sono solito augurare anche a loro “buon Natale”, sapendo che loro conoscono Issha (cioè Gesù di Nazaret), che è per la tradizione islamica il più grande dei profeti ante Mohamed.
Agli stessi io auguro, quando è il suo tempo, “buon Ramadan”, e loro mi rispondono “grazie”, con un sorriso, perché vedono che sono sincero.
Altrettanto chiederei sui presepi, anzi lo ho già fatto qualche anno fa: lo chiesi almeno a una decina di genitori musulmani, che mi risposero, più o meno: “Ma per noi Maria e Gesù di Nazaret sono da venerare”.
Ricordo agli ignorantoni di Bruxelles che Maria di Nazaret è la donna più citata nel Corano, più di Kadijia e Fatìma (moglie e figlia, rispettivamente, di Mohamed). Con ciò non voglio minimizzare le differenze tra islam e cristianesimo. Chi mi conosce sa che sono un teologo che queste cose sa bene.
Altra cosa: forse che i londinesi sono stupidi, essendosi dati un sindaco anglo-pakistano, Sadik Khan, sindaco che si comporta come un baronetto della regina?
E allora, a che cosa serve un’iniziativa come quella del vademecum del “parlare politicamente corretto”? A cambiare, a migliorare qualcosa?
Infine, mi duole che anche su un tema del genere la politica si divida tra “conservatori” e “progressisti”: Lega contraria e PD possibilista. Ma che è? Forse che conservare qualcosa di bello, come le espressioni classiche della nostra lingua e cultura è di destra? Allora “conservare” il Foro romano, le antiche basiliche, le moschee di Gerusalemme, i buddha millenari, Michelangelo e compagnia è di destra?
Andiamo! La divisione tra le persone umane, da un punto di vista individuale è tra intelligenti e meno, tra colti e meno, tra laboriosi e meno, tra onesti e non onesti intellettualmente, in base alla “struttura di personalità” di ciascuno, mentre tutti, proprio tutti, hanno pari dignità, maschi, femmine, trans, alti, bassi, grassi, normolinei e magri, mangioni e anoressici, bambini, giovani, vecchi, ricchi e poveri, neri, gialli e bianchi. E tu, caro lettore, aggiungi chi vuoi che io abbia inavvertitamente dimenticato in questo elenco.
Per quanto mi riguarda, se fossi cieco, sordo e/o muto, vorrei essere definito “cieco, sordo, muto”, perché ciò che conta è come ci si rapporta con chi ha queste disabilità, senza paura dei termini propri delle stesse.
Bene: i funzionari di Bruxelles sono incolti, stupidi e vili. Oppure solo gente che teme anche la propria ombra. Minimi.
Paolo, dirigente di Unindustria di Pordenone, è un ingegnere e un uomo creativo, umanista nel senso più ampio del termine. Un amico che stimo sotto tutti i profili, per la sua simpatia e competenza professionale. Quest’anno mi ha invitato a tenere una relazione a un convegno dal titolo molto sibillino, oltre che classicamente retorico “Infortuni ragionevolmente prevedibili: esistono ancora?”.
Gli interventi degli altri relatori sono stati vari ed equilibrati, certamente integrati e integrabili: quello del sociologo professore all’Università di Trento, Massimiano Bucchi, autore di diversi volumi tra cui il recente edito da Rizzoli Sbagliare da professionisti. Storie di errori e fallimenti memorabili, del giudice Antonio Lazzàro, uomo di grande esperienza giuridica, della Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di Luxottica ingegner Ambra Ambroset, e dello psicologo vicentino Antonio Zuliani, esperto di “psicologia sociale delle catastrofi”.
Duecentocinquanta tecnici e studiosi in una grande sala della Fiera di Pordenone. Conferenza valida anche per crediti di aggiornamento per gli ingegneri, i periti industriali, i geometri e i responsabili del servizio di prevenzione e protezione aziendali. Mancavano del tutto o quasi i capi azienda intesi come primi azionisti e titolari. Certamente non erano i primi invitati, ma anche se lo fossero stati, a mia esperienza, ne sarebbero venuti pochi, molto pochi. Quale la ragione? Ebbene, costoro, per ruolo e self consciousness sono troppo convinti che non gli serva stare insieme a molti altri, precipuamente di ruoli tecnici ed operativi, in quanto loro “comandano” ed essenzialmente sanno già tutto, o quasi tutto, proprio perché… comandano.
Infatti, salvo qualche virtuosa eccezione spesso a me nota, il loro retro-pensiero è questo “se io ho inventato questa azienda e altri no, anzi lavorano per me, vuol dire che io sono diverso e non ho bisogno di studiare come loro“, non capendo che studiare fa sempre bene, perché apre la mente e fa capire come, studiando, ci si accorge di avere sempre bisogno (socraticamente) di studiare ancora e ancora e ancora, perché la scienza e la sapienza non hanno confini, non hanno limiti.
Ho provato a proporre un contributo a modo di meta-intervento filosofico, e ho ritenuto di svolgerlo in questo modo…
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"Gentile Lettrice, Caro Lettore,
LA FILOSOFIA E' UN SAPERE ANTICHISSIMO E MODERNO CHE SERVE A RIFLETTERE SUL SENSO DELLA VITA E DELLE COSE;
SERVE A INQUADRARE TEMI E PROBLEMI CON LOGICA E CHIAREZZA;
SERVE QUANDO SI STA BENE E, ANCHE DI PIU', QUANDO SI STA MALE;
SERVE A TUTTE LE ETA';
SERVE PER LA RAGIONE E PER IL SENTIMENTO;
SERVE...
Se vuoi, se ne senti il bisogno puoi scrivermi (eagle@qnetmail.it) o telefonarmi (339.7450745), anche per fissare un incontro"
PhD - Prof. Dott. Renato PILUTTI, Filosofo pratico (ex L. 4/2013, Associazione nazionale per la Consulenza filosofica Phronesis) e Teologo
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