Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

Autore: Renato Pilutti (page 2 of 181)

Stupidaggini, Cretinerie, Imbecillità, Idiozie, Castronerie elevate all’ennesima potenza dai giornalisti, ad esempio: a) “Questa Segreteria creerà seri problemi a Meloni”. Con queste parole la neo-segretaria del PD Schlein ha dato il via ufficiale al nuovo organismo direttivo, che è composto da… 21 persone; b) ci assumiamo sempre “oneri e onori”, è il continuo inutile refrain di Salvini, che ripete forse ignaro, non tanto della noiosità, quanto della banalità del detto reiterato: quando il “dir politico” è scarso, inutile, perfino indecoroso; c) RADIO-WEB-TELE-TRAGEDIE: 1) guerra in Ucraina, 2) migranti naufragati in mare, 3) condominio crollato a Marsiglia, 4) scontro frontale a Cremona, quattro morti, 5) misterioso omicidio sul Gargano, 6) gruppo di persone che fanno un picnic travolte da un ubriaco che esce di strada con un Suv (notizia, sempre la stessa, data consecutivamente per tre giorni al punto che sembra triplice), 7) neonato abbandonato alla Clinica Mangiagalli di Milano, 8) le analisi ematochimiche mi sono andate bene (pardòn, è una buona notizia!)

L’attuale Segreteria del PD corrisponde, più o meno, numericamente, a come era composto l’Ufficio Politico del Praesidium del Soviet Supremo fino al 1989. Aspetto questo di cui forse la stessa Schlein, che allora aveva appena quattr’anni forse non è stata resa edotta, né – sempre forsitan – lo ha studiato dopo.

Praesidium

Dunque: il compito di una minoranza è senz’altro quello di fare-opposizione, in democrazia, in ogni democrazia. Questo è previsto dalle norme costituzionali, per cui se non fosse riconosciuto e rispettato, verrebbe meno un caposaldo della democrazia.

Infatti, una delle ragioni per cui in Russia, in Turchia, in Egitto e in diverse altre “democrazie formali” non è consentita un’opposizione libera, è proprio questo aspetto che ci permette di definirle non più democrazie, ma, con orrendo neologismo, demo-crature, cioè termine costituito da una una crasi fra democrazia e dittatura. O Auto-crazie.

In Italia, grazie alle tragiche prove subite nel secolo scorso (il fascismo), e alla sapienza dei Padri costituenti, ciò non è possibile, per cui, se pure nei limiti dell’agire umano imperfetto, da noi esiste, vige e vive un sistema democratico parlamentare vero.

Torno alla frase schleiniana riportata nel titolo. Non posso che essere d’accordo che l’opposizione faccia l’opposizione con la massima competenza e decisione, e, ad esempio, contribuisca a smascherare e a cassare le eventuali stupidaggini che qualche personaggio “governativo”, in questi primi sei mesi, ha già iniziato a proporre, come l’idea dell’on. Rampelli, di FdI, peraltro vicepresidente della Camera dei Deputati, di multare chi usi parole inglesi. Per salvaguardare l’italiano come lingua basta fidarsi e seguire le indicazioni dell’Accademia della Crusca, che interviene puntualmente e con la massima competenza. Siano i linguisti a proporre il da farsi, non un parlamentare, che per sua natura ha di solito conoscenze abbastanza generiche, se non scarse, sui vari temi.

L’opposizione intervenga sui temi importanti, criticando con decisione il Governo, ma anche formulando proposte alternative e realistiche, spendibili sotto il profilo politico e finanziabili correttamente. Ad esempio, sul superbonus 110 mi sarei aspettato qualcosa di più serio da parte del PD, non una pedissequa elettoralistica sequela di quelli che pensano il denaro si faccia con il ciclostile, intendo i “contian-grillini”. Eppure nel PD ci sono fior di amministratori, a partire da Bonaccini (e da De Luca, da Sala e da Lorusso), che ha perso la partita con la segretaria per la guida del partito. Chissà perché? Anch’io lo davo e lo volevo vincente. Si vede che non ho il polso della situazione.

Si tratta però di vedere se creare problemi al Governo coincida con il creare problemi all’Italia, Nazione o Paese, comunque la si voglia chiamare. In questo caso, cara segretaria, nel mio piccolo mi troveresti avverso e inimico. Anche se non sono della parte politica che attualmente ci governa tutti, proprio in base al risultato elettorale regolamentato dalla Costituzione della Repubblica.

Eviterei di fare come ha fatto qualche suo predecessore (Letta), di andare a sput.nare l’Italia all’estero, quando andò da Scholz a metterlo in guardia sull’incapacità di Meloni ad “essere-europea”. Ad esempio, specialmente quando si tratta di problemi serissimi come quello delle migrazioni o dei sistemi fiscali. Mi chiedo, peraltro, quanti voti possa portare tale sput.mento alle elezioni successive.

Danni certi all’Italia, di sicuro.

Sulla riforma fiscale, a mero titolo di esempio, l’opposizione potrebbe smetterla di recitare solo la parte della lotta ad evasione, elusione et similia, accettando che non si può attribuire quel vizio immorale meramente ai lavoratori autonomi, professionisti e imprese, che pagano aliquote proporzionate ai redditi lordi, perché oramai si fattura tutto da decenni, se si è onesti. Le sacche di furbetti vanno smascherate e sanzionate, ma senza ideologismi e categorizzazioni moralistiche. Le tasse NON-LE-PAGANO solo i lavoratori dipendenti, lo impari il PD, magari facendosi aiutare dalla Lega delle Coop, che si intende di imprenditoria.

Vengo un po’ ai titoli para-giornalistici che si susseguono, nel titolo:

a) sempre di più si sente parlare in tv e sui media vari di guerra in Ucraina confondendo aggressore ed aggredito. Certamente il conflitto ha origini lontane, ma l’inizio delle ostilità più virulente è recentissimo; i numeri di attacchi (a proposito, quando parlano di attacchi intendono colpi sparati o vere e proprie azioni unitarie che prevedono l’utilizzo di molti proiettili? Nella guerra aeronautica si definisce “attacco” l’azione di un solo cacciabombardiere, mentre nel conflitto di terra un attacco è plurimo per mezzi, uomini, armi e munizioni usate), morti e feriti variano al variare del tg e del giornalista parlante, così come i mezzi a disposizione e il numero di munizioni;

b) capitolo migranti: lasciando da parte qui le riflessioni etiche, geo-politiche, strategiche, economiche e diplomatiche, non si capisce bene quando parlano di ricerca e soccorso e dicono 3000 persone, e poi parlano di 800, e poi di 1200, e di 600 e infine di 400, si debba ritenere i 3000 la somma del tutto o si tratti solo di un addendo;

c) sul palazzo crollato a Marsiglia si sente dire di sei morti e x dispersi il giorno 9 aprile, il 10 aprile si sente ripetere la notizia come se fosse crollato un altro palazzo a Marsiglia, l’11 di nuovo la medesima notizia senza specificare che si tratta di un fatto accaduto due o tre giorni prima;

d) stesso fenomeno si osserva nel racconto degli incidenti stradali con morti: il primo giorno c’è la descrizione dei fatti, il giorno successivo si ascolta il medesimo servizio senza specificare che si tratta di un repetita, il terzo giorno di nuovo un richiamo che non fa ben capire che si tratta sempre dello stesso incidente di cui alle cronache di due giorni prima;

e) misterioso omicidio sul Gargano, o in Lombardia o in Veneto, accaduto o scoperto il giorno x, stessa notizia e medesime interviste il giorno y, idem con patate il giorno z, per cui l’ascoltatore, che non è tenuto a una conoscenza approfondita della scienza statistica, magari memorizza che vi sono stati tre omicidi;

a volte accade stessa cosa con le morti sul lavoro, che certamente vanno monitorate e vanno garantite tutte le sicurezze, ma mai nessuno che dica mai che rispetto a trenta anni fa i morti sul lavoro per anno si sono dimezzati (2000 vs 1000), e quindi il mega trend è comunque positivo. Non occorre qui dire che a chi capita capita, e il suo dolore è tutto il dolore del mondo, ma le notizie vanno contestualizzate;

f) gruppo di persone che fanno un picnic travolte da un ubriaco che esce di strada con un Suv (notizia, sempre la stessa, data consecutivamente in tv per tre giorni, in modo tale che sembra triplice, cioè accadute per tre volte);

g) neonato abbandonato alla Clinica Mangiagalli di Milano, bene: ascolto il Direttore prof tal dei tali, che si esprime con grande rispetto e proprietà espressiva sul caso; successivamente appare a video una neonatologa che aggiunge anche la sua tenerezza femminile; tertium, si presenta alle telecamera un neonatologo che parla in questo modo: “Si preme questo pulsante che alza la paratia, si inserisce il bambino e poi si chiude, fatto. In quaranta secondi al massimo“. Tutto contento e sorridente, senza accorgersi di aver parlato di un essere umano come di un pacco di immondizia. Resto esterrefatto, incredulo, anche perché la sua collega aveva spiegato che i quaranta secondi servono anche ad un eventuale ripensamento della madre, che comunque, come ben specificato dal Primario, potrebbe sempre farsi viva per riprendersi il proprio bimbo. Medici tutti e tre, ma “persone umane”, solo due.

h)…e, per finire questa carrellata, una notizia buona: l’ultimo mio esame emato-chimico di controllo ha dato esito buono, peraltro come tutti i controlli fatti dopo il debellamento (che spero perpetuo) del tumore ematologico che mi aveva colpito sei anni fa. Nessun tg ha dato la notizia (ovviamente, perché privata e non di interesse pubblico). Di notizie del genere è però pieno il mondo, ma è come se questi fatti non ci fossero, perché ciò che fa-notizia (vendibile con la pubblicità in mezzo), solletica e a volte solluchera il pubblico è la mala notizia, non quella buona.

L’ultima riflessione che mi pare utile proporre in questa sede riguarda il fatto che non pochi ritengano vi sia in atto un grande complotto mondiale atto a controllare le menti, anche imbrogliando sull’informazione, senza minimamente peritarsi di svolgere o di far svolgere le necessarie inchieste/ ricerche, anche se a campione, per fondare scientificamente tesi che, fino a prova contraria, sono preconcette e spesso paranoiche.

Mi spiego: non si può mettere tutto in un calderone: guerra in Ucraina, crisi climatica, crisi energetica, pandemia, migrazioni, etc., come se facessero parte, appunto di un gigantesco complotto atto al controllo assoluto delle menti e dei cuori dei cittadini di tutto il mondo. Ciò non può darsi perché il pensiero democratico, anche se contrastato nelle e dalle autocrazie e dalle dittature, e i sistemi politici dove vige il suffragio universale, nonché la scolarizzazione che si è fatta sempre più di massa progressivamente in tutte le parti del mondo, costituiscono anticorpi sufficienti a contrastare queste semplificazioni pericolose e antiscientifiche.

Vigiliamo, cari lettori, vigiliamo.

Il mio augurio di Buona Pasqua, con il ricordo di Gesù Risorto, in sintonia e coerenza con la più grande Festa dei Cristiani, richiama i valori, le virtù, e i princìpi nell’agire umano in generale e in economia: le qualità spirituali che ispirano il “bene-dire” e il “bene-fare”

Forse mai come di questi tempi, il mondo-azienda è la cartina di tornasole della società contemporanea. La coeva crisi delle due maggiori agenzie formative, la famiglia e la scuola, affidano e quasi “rilasciano” al mondo del lavoro giovani spesso sconcertati, indifesi e privi di solidi punti di riferimento, come quelli che costituivano il nerbo dell’agire dei loro padri e nonni, valori esistenziali e lavorativi condivisi, come l’onestà, il rispetto reciproco, l’impegno, il senso di responsabilità e quello di appartenenza.

I media contribuiscono anche a fare una gran confusione sui termini e sui linguaggi. Proviamo a recuperarne il senso profondo e veritiero.

“Valori” è un termine “polisemantico”, cioè dai-molti-significati, usato e abusato di questi tempi. Potrebbe essere quasi sinonimo di “Principi”, e anche di “Virtù”.

Il lemma “Principi”, soprattutto se li si intende di tipo morale, si usa molto, mentre invece il termine “Virtù” è forse un pochino affidato alle nostre memorie giovanili se non addirittura infantili, quando sentivamo questo termine solenne a catechismo in parrocchia.[1] In seguito lo abbiamo pressoché dimenticato, perché utilizzato sempre meno, e noi stessi non lo abbiamo più utilizzato.

In quegli anni un po’ lontani avevamo imparato anche l’elenco delle Virtù, distinguendole tra quelle “cardinali”, cioè Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, e quelle “teologali”, che sono Fede, Speranza, Carità, non dimenticando quello dei sette vizi capitali, vale a dire Superbia, Invidia, Avarizia (o Cupidigia), Ira, Gola, Lussuria e Accidia.

Perché questa piccola lezione di catechismo teologico o di morale cristiana?

Perché il tema dei Valori, Principi e Virtù (e anche dei Vizi) è attinente a tutte le sfere della vita umana, ovviamente compresa la dimensione del lavoro, che di essa è parte assai importante. E a Pasqua ancora di più.

Proviamo a parlarne brevemente, citando solo le Virtù, i Principi e i Valori che più ci interessano sapendo che il Valore principale che voglio sottolineare, anche oggi, è quello del Lavoro, con la “L” maiuscola. Ma iniziamo (senza che la scelta appaia strana), da un vizio, il più taciuto, il meno conosciuto: il vizio dell’Accidia.

La parola, come tutte le altre che danno il nome a vizi e virtù, deriva dal greco antico: akedìa, che significa diverse cose: apatìa, svogliatezza, malinconia, malessere, pigrizia mentale, tristezza, mal stare, distrazione, cattiva volontà, e via definendo. Di questi tempi alcuni psicologi hanno deciso di chiamarla addirittura depressione.[2] Ma io non sono d’accordo, perché il termine medico-psicologico “depressione” rinvia a una malattia psichica, non ad atteggiamenti mentali e morali liberamente scelti dalla persona. Se così fosse non potremmo intervenire più di tanto, perché la malattia si deve curare, se non si è riusciti a prevenirla.

E dunque, questa accidia è un qualcosa che si può attribuire più ad atteggiamenti e comportamenti per i quali agisce anche la volontà umana. Leggiamo, per la cronaca, che decine di migliaia di ragazzi, dal lockdown in poi si sono fatti “prendere” da questo stato d’animo dal quale fanno una enorme fatica ad uscire, ed alcuni proprio non ce la stanno facendo e “sono in cura” da psicoterapeuti, psicanalisti e addirittura psichiatri. Avverto subito che quando un caso va in mano a questi  ultimi specialisti che, in quanto medici, sono anche adusi alla prescrizione di farmaci, la situazione è già – in qualche caso – preoccupante.

È bene dunque intervenire subito, ma in altri modi, il primo dei quali è un’analisi seria del caso e l’avvio di un dialogo trasparente e rispettoso con l’interessato. Proseguiamo ora con altri valori (principi o virtù).

La costanza e la perseveranza sono altri due nomi che descrivono virtù/valori del lavoro. Cerchiamo – nel quotidiano – di utilizzare questi termini, invece del modaiolo resilienza, che è una parola dell’arte metallurgica malamente metaforizzata, che suggerirei proprio di non usare in contesti relativi alle persone che lavorano.

Ancora, ricordiamo altri valori (principi o virtù). La fortezza, o coraggio può essere un ausilio necessario per l’impegno in azienda, moralmente previsto nel rapporto equo e giusto tra prestazione e retribuzione, così come è indispensabile per affrontare prove ardue che la vita ci presenta, come malattie, lutti, difficoltà nello studio e lavorative.

Il menefreghismo è un altro sentimento negativo molto diffusa che si coglie di questi tempi… si tratta di rassegnazione? Di stanchezza? Comunque lo si riscontra in giro, e abbastanza spesso.

Che fare del menefreghismo? Se lo si constata, non si può stare inerti, perché anche questo è un segnale di disagio e di perdita del senso generale delle cose e, ancora una volta, dei valori, come quello del lavoro. Ecco che qui viene utile far capire la differenza sostanziale e concettuale fra “lavoro” e “posto di lavoro”, in questo modo: l’azienda non dà “posti di lavoro”, ma “lavoro”, vero, sostanziale, fatto di commesse, di processi, di organizzazione, di gestione di macchine e persone. Il “posto di lavoro” deriva solamente dal “lavoro” che, se non c’è, e deve essere un lavoro di valore (ecco che torna il termine valore, e la sua catena ordinata, sia moralmente sia economicamente), non può assolutamente fornire “posti di lavoro”! Smascheriamo dunque questo equivoco, soprattutto con chi lavora di malagrazia e con menefreghismo!

Andiamo avanti con il ragionamento. Non dimentichiamo che la responsabilità di ogni lavoratore (così come quella dell’imprenditore), si connette in modo organico con una nozione corretta del concetto di libertà in questo senso ed espressione:  la Libertà è “Volere ciò che si fa, non Fare ciò che si vuole.

Ogni lavoratore è libero di… essere responsabile, non di-non-esserlo. E questo si chiama obbligo morale!

Un altro difettuccio antropologico “Friul-Veneto” è la gelosia professionale, che spesso alligna soprattutto nei lavoratori “anziani” ed esperti, che forse vivono inconsciamente o implicitamente l’antica paura dei popoli “sottani” (sottoposti a nazioni dominanti, come è stato storicamente per Mille anni, prima sotto Venezia e poi sotto gli Asburgo)[3] di morire di fame, perché superati in abilità e forza da colleghi più giovani. Anche su questo bisogna essere vigili e parlarne apertamente, da un lato dando fiducia a chi lavora da tempo in azienda, e dall’altro incoraggiando i giovani, mediante la formazione e un uso ponderato della delega di crescita, sul quale progetto devono essere d’accordo anche gli anziani, in quanto persone di riferimento professionale.

Eccoci dunque con un vademecum pratico che dovrebbe stare nel cassetto e nell’agenda di ogni “Capo” di tutti i livelli (dal Capoturno all’Amministratore delegato!), per poterlo trasmettere ai collaboratori ogni giorno, in ogni momento e situazione, al FINE di conseguire il Bene comune che è costituito da un lavoro buono e redditizio, i cui risultati possano essere condivisi mediante il fondamentale principio-valore virtuoso dell’Equità, che significa “A CIASCUNO IL SUO SECONDO GIUSTIZIA  E MERITO”.

Buona e serena Pasqua del Signore Risorto, a voi e alle vostre famiglie.


[1] Quello che ci veniva impartito, ancora ia tempi delle elementari, in parrocchia e risaliva ai precetti voluti da Papa Pio X, il venetissimo Papa Giuseppe Sarto, di Riese Pio X, appunto.

[2] Cf. Manuale medico diagnostico pratico per le malattie mentali V, Editore Masson.

[3] Con il solo intermezzo del Patriarcato di Aquileia, che comunque spesso annoverava Patriarchi-Principi di origine germanica.

Tra destra e sinistra attuali, che sono per ragioni differenti, forze “sbandate”, una vera forza riformista è utile

La destra di governo attuale è composita e differenziata. Non è la mia “patria politica”, non lo è mai stata e mai lo sarà. La mia patria politica, finché vivrò, sarà sempre quella che ho scelto quasi dall’uso di ragione. Dicevo a mia zia Enrica, che mi interpellava fin da bambino sul tema politico (incredibile dictu!), che mi sentivo… socialista. Mia cugina Lucina, sua figlia, famiglia benestante, si diceva liberale.

Provenendo dalla tradizione della destra classica post seconda guerra mondiale, cioè dal Movimento Sociale Italiano prima e da Alleanza Nazionale in seguito, Fratelli d’Italia è il più forte partito conservatore d’Italia. La leader Meloni lo ha portato in pochi anni dal 4% a poco meno del 30%, percentuali che la storia repubblicana, prima d’ora, ha riconosciuto solo alla Democrazia Cristiana, al Partito Comunista, a Forza Italia e al Partito Democratico. In una tornata anche alla Lega salviniana.

Forza Italia, dopo essere stata per un ventennio la principale forza conservatrice, si può dire di centro-destra, con l’invecchiamento del suo leader Berlusconi, ha iniziato un declino, di cui è difficile vedere l’inversione di tendenza.

La Lega è invecchiata precocemente, dopo i picchi della prima gestione bossiana e salviniana, che in due momenti diversi la hanno resa centrale per la politica italiana, dopo la scelta di essere un partito nazionale, non più solo “padano”.

Il PD schleiniano è molto diverso da quello che immaginava il suo primo fondatore Veltroni, perché a differenza di quello questo PD ha una vocazione chiaramente minoritaria, comportandosi come un partito radicale di massa, o partito dei “diritti civili” (semmai tutte le battaglie in tema possano dirsi “diritti”), dopo avere oramai quasi dimenticato da tempo quelli sociali. In una quindicina d’anni ha cambiato dieci segretari e più. Comments? Non vedo questo partito in grado di riprendere con un linguaggio adeguato ai tempi la tradizione riformista della sinistra storica del PCI migliorista, quello degli Amendola, dei Napolitano e dei Chiaromonte, del PSI turatiano, del “secondo” Nenni e di Craxi, e del PSDI saragattiano.

Il Movimento 5 Stelle è un partito improbabile, in quanto partito. Guidato da un parvenù senza storia, viene dalle piazze e dalla protesta, e negli anni ha fatto il pieno di persone senza arte né parte, cui spesso ha dato un reddito (non solo di cittadinanza) e un linguaggio fatto di slogan stantii prima che siano pronunziati, o detti in cattivo italiano. Con rare eccezioni come il deputato triestino e, forse, la ex sindaco di Torino. I due primattori della prima ora, i Di qualcosa (non ricordo più cosa) hanno fatto una ben triste fine, mentre il comico fondatore se ne sta rintanato nella sua lussuosa villa marina. Si pensi che la nostra disgraziata Nazione ha avuto negli anni scorsi un Ministro degli esteri come Di Maio. Cose marziane.

Un Terzo polo liberal-social-democratico – a mio avviso – è l’unica via plausibile in questo momento storico. Quello che si è nominato in questo modo pare però poco capace, almeno finora, di diventare un soggetto politico riformista decisivo. Vero è che alle Politiche del 2022 ha sfiorato l’8%, ma i due leader non sono mostri di simpatia: Renzi pare voglia fare di tutto fuorché il senatore (da oggi, 6 Aprile 2023, ha assunto la direzione del quotidiano Il Riformista), mentre Calenda sa di “pariolino” anzichenò. Capi di cosa? Così come sono messi, di assai poco.

Proviamo a ragionare. La destra ex fascista (paradossalmente quivi non comprendo Meloni) e quella leghista salviniana non sono riformisti, costituzionalmente. Le sinistre di Schlein e di Conte non lo sono, altrettanto, anche se per ragioni diverse. Lasciamo stare i frammenti dell’estrema.

Auspicherei un rassemblement che possa contare sui liberali di Forza Italia, sul Terzo Polo di Azione&Renzi e sui Dem delle aree di Del Rio e di Guerini. Una forza cristiano democratica e socialista, ideologicamente ed eticamente, direi addirittura ontologicamente riformista. Io starei lì, almeno per vedere se si può fare qualcosa.

Parole disgustose in libertà (La Russa) e vergogne insopportabili di un ex presidente americano (Trump)

Quando i politici parlano, specialmente se hanno rilevanti posizioni istituzionali, è bene che vigilino con cura, anzi con acribia, su quello che dicono, sulle parole che usano, sui giudizi che esprimono.

Ignazio La Russa è un politico di destra di lunga lena. Viene dalla gioventù universitaria missina del FUAN, poi dal Partito MSI, da Alleanza Nazionale e ora con Fratelli d’Italia, è al governo come Presidente del Senato della Repubblica. Ha fatto le sue battaglie di destra senza mai nascondersi. Umanamente è un tipo che si mostra come è. Interista doc, ha un carattere e modi da avvocato popolar-popolano. In questi giorni la ha fatta grossa, dicendo che la Resistenza, e quella romana in particolare, farebbe bene a non gloriarsi dell’attentato di Via Rasella del 23 Marzo 1944, perché colà morirono per l’attentato (afferma più o meno) alcune decine di veterani altoatesini, più che altro una banda militare, non un gruppo di spietate Waffen SS. A supporto della tesi negatrice della valenza resistenziale dell’attentato di Via Rasella, La Russa cita anche l’eroico sacrificio del brigadiere Salvo D’Aquisto, come esempio virtuoso, vicenda che qui non riprendo, perché conosciutissimo.

Quando si parla di cose del genere, in particolare, bisogna dirla giusta, altrimenti chi-la-sa-giusta, come uno storico di professione, fa presto a smascherare l’incauto, raccontando le cose coram populo (su Youtube si trova una bella video-conferenza del prof. Alessandro Barbero).

In quei mesi Roma, dopo ciò che accadde a seguito dei fatti dell’8 Settembre 1943 (in sintesi estrema: arresto di Mussolini, incarico di Governo a Badoglio, divisione in due dell’Italia, con il re fuggito al Sud e la neonata Repubblica di Salò al Nord, i Tedeschi che si sono impadroniti dell’Italia fino a Roma e oltre, sotto il pugno militare di Albrecht Kesselring, gli Alleati sbarcati, prima in Sicilia e poi ad Anzio e Nettuno, ma fermati da una robusta barriera corazzata della Wehrmacht, che era tutt’altro che allo sbando, Roma ogni giorno bombardata dagli Alleati, papa Pacelli prigioniero in Vaticano a fare la politica che gli sembrava opportuna, la Resistenza armata in tutta l’Italia occupata dai Tedeschi, etc.) era stata dichiarata “Città aperta” (vedere o rivedere il film omonimo diretto da Roberto Rossellini).

A Roma si registravano attentati e scontri quotidiani tra partigiani, tra i quali i più attivi erano i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) guidati da alcuni intellettuali del PCI che nel Dopoguerra avrebbero avuto ruoli di rilievo, come Antonello Trombadori, Franco Calamandrei figlio di Piero, e Carlo Salinari, insigne storico della Letteratura italiana (che si trovò di fronte agli studenti “rivoluzionari” del ’77 come Preside di Lettere a La Sapienza, ironia della Storia!) sotto la supervisione del dirigente comunista Giorgio Amendola, presente nei pressi anche un fumigante Sandro Pertini e il giovane Giuliano Vassalli, che fece fuggire lo stesso Pertini e Saragat, già condannati a morte, dal carcere Regina Coeli. La decisione di colpire un reparto germanico viene presa dopo un’attento studio di fattibilità, della logistica e delle modalità di azione.

Viene effettuato sapendo dei rischi che si sarebbero corsi, e anche della quasi certa vendetta tramite rappresaglia, peraltro atto previsto dai codici militari di guerra e anche dalla Convenzione dell’Aja. Guerra era, e non solo fatta di scontri tra armate, ma anche dalla sua versione a-simmetrica, di guerriglia urbana.

A Berlino Hitler e i generali Jodl e von Mackensen, in Italia l’ubriacone generale Meltzer, operativi il colonnello Kappler, capo della Polizia tedesca a Roma, assistente il colonnello delle SS Dollman. Kappler fece la lista pescando dai condannati a morte detenuti a Regina Coeli (assai pochi), da detenuti “condannabili” a morte (molti), Ebrei (non pochi), giovani e vecchi (in numero significativo). Gli diede una mano il Questore di Roma Caruso, compilando una lista contenente una cinquantina di nomi.

Arrivarono a 330, dieci ogni soldato tedesco morto per Via Rasella, anzi a 335, per un errore burocratico.

Li fucilarono con le loro pistole Mauser con un colpo alla nuca, uno a uno. E tutto il reparto di Kappler fu coinvolto. Poi fecero saltare gli ingressi delle cave di pozzolana Ardeatina. Caruso fu fucilato dopo un processo italiano post Liberazione. Kappler fu condannato all’ergastolo, e Priebke pure, anche se catturato anni dopo. Kappler riuscì anche a fuggire dalla detenzione di Gaeta e morì libero in Germania non molti anni fa.

Suggerisco la visione sul tema del bel film Rappresaglia, diretto da Pan Kosmatos nei primi anni ’70, con Richard Burton e Marcello Mastroianni.

Trump sarà accusato dalla Procura di New York di avere utilizzato soldini della sua campagna elettorale del 2016, quando vinse contro Hillary Rodham Clinton, per zittire una signora a cui si era accompagnato. Agli Americani sembra – moralmente – un peccato mortale, per dire, ma è ben poca cosa rispetto alle altre ipotesi di reato federale che pendono sulla sua testa: la prima è quelle di avere accusato il Governatore della Georgia di aver falsificato i risultati delle elezioni presidenziali a favore di Joe Biden, accusa respinta; la seconda di avere fomentato l’attacco dei suoi supporter a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.

Ora, si tratta di vedere se, addirittura, come potrà accadere, la vicenda Stormy Daniels si possa rivelare quasi una semi bufala, Trump potrebbe addirittura trarre un vantaggio in termini di popolarità, ponendosi come un perseguitato da una giustizia secondo lui “politicizzata”, e in particolare nel caso newyorkese, dove il Procuratore è il democratico (nero) Bragg. Si sa che negli USA i Procuratori dello Stato vengono eletti dal popolo, ed operano in un sistema “duale” nel quale fungono da contraltare dell’avvocato dell’imputato, con il Giudice che è parte chiaramente terza. In Italia dovremmo imitare questo sistema, a mio avviso.

In contemporanea con i fatti di cui sopra, quasi a fare da controcanto fastidioso (per me), registro le cazzate degli imbrattatori di monumenti cui dà una sorta di sinecura politica la segreteria del PD Schlein, incomprensibilmente e improvvidamente.

A sinistra sarebbe bene evitare di impantanarsi nell’apertura totale al politicamente corretto, ma non so se ce la faranno, i capi, come la citata giovane politica.

Grave, deludente, demotivante, escludente gente come me. Basta.

Della maternità. U.S.A.: “pro-life”, “pro-choice”, “pro-voice”. Care signore, care donne e mamme vi scrivo

In queste settimane/ mesi negli USA ferve un dibattito distinto e delineato su tre posizioni: la prima, detta pro-life, concerne la scelta per la vita, assolutamente contro ogni ipotesi di interruzione di gravidanza; la seconda, chiamata pro choice, riguarda la scelta libera che può portare anche all’interruzione di gravidanza; la terza, definita pro voice, si riferisce al diritto di ogni donna di fare una scelta libera, senza condizionamenti e/o manipolazioni che la costringano in qualche senso, in qualsiasi senso.

In Italia c’è addirittura – come sempre – ancora più confusione e polemica politica e mediatica. La stampa, i media in generale e la politica, al di là delle legittime e anche utili differenze di opinione, registrano una sostanziale incapacità teorica, culturale, di affrontare il tema (che è anche problema, si tenga conto della differenza semantica tra i due termini – problema che dice inciampo, difficoltà e tema che dice argomento– che spesso sono erroneamente utilizzati come sinonimi).

E’ difficile, quasi impossibile, ascoltare o leggere opinioni fondate su riflessioni di carattere antropologico e morale, riflessioni capaci di collocare il tema della scelta di abortire, di non abortire, o di ottenere un figlio in qualsiasi modo, in una cornice di ragionamento completa, che tenti di tenere in considerazione tutti gli aspetti connessi, da quelli riguardanti le scelte valoriali e morali individuali, passando per quelle culturali e politiche, fino a quelle relate al tema demografico e al tasso di fecondità nazionale, e alla sua formidabile differente distribuzione nel mondo, ad esempio tra Europa e Asia/ Africa.

La valenza etica di queste tematiche è immensa, come si può ben concordare, mentre l’argomento può essere trattato in diversi modi, da quello prevalentemente accademico e scientifico ivi comprendendo gli aspetti medici, giuridici, politici e sociologici, a quello etico e valoriale, fino al modo più dialogico ed empatico. Ed è il modo che in questa sede ho scelto, ovviamente “sullo sfondo” delle mie convinzioni etiche, per affrontare il tema, al fine di non attizzare – se pure nel mio piccolo – il fuoco sulla polemica, assai facile in questi casi.

Proverò a scrivere una lettera a ciascuna delle donne o madri che si riconoscono in ciascuno dei tre “modelli” sopra distinti.

Cara signora che hai deciso di abortire, e che sei tormentata nel cuore e nella mente… ti sono vicino come un fratello. Ti sono vicino, perché sei una persona, che vale come me e come ogni altra persona umana di questo mondo. Ti sono vicino perché immagino che tu non stia molto bene con te stessa, che tu sia pensierosa su di te, su chi ti è vicino e sulla scelta che hai deciso. Immagino che decidere possa essere stato per te molto difficile. Penso che tu sia stata tormentata per diversi giorni fino a che, per qualche motivo che neppure mi permetto di chiederti, hai deciso… Ho sentito da voci circostanti che una delle ragioni della tua decisione è stata anche questa: “come fai a mettere al mondo un bimbo in un mondo del genere?” Mi chiedo: in che mondo? Forse che i “mondi” precedenti, magari quelli del XX o del XIX secolo, erano migliori?

Cara signora che hai deciso di tenere il tuo bambino, e già pensi agli impegni grandi che ti toccheranno per anni… ti sono vicino come un fratello, perché so quanto sia difficile tirare su un figlio. Ti sono vicino perché immagino quanti momenti di sconforto incontrerai e quanto stanca moltissime sere sarai. Sono con te perché sei una sorella nella genitorialità, di questi tempi difficili, in una situazione che non ti aiuta sempre a pensare al futuro con equilibrio e con un ragionevole grado di fiducia. Ti sono vicino nella speranza di potercela fare e nella fede che ciò accadrà. Vedi come qui si citano due delle tre virtù teologali, fede e speranza, perché la carità, la terza, non finisce mai, in quanto è sinonimo dello stesso amore che ci hai messo nella scelta di avere un figlio e di tirarlo su, finché sarà compito tuo.

Cara signora che non sai ancora che cosa decidere, e stai valutando sballottata tra sentimenti contrastanti e parole che senti non sempre opportune ed equilibrate, consigli pro e contro, valutazioni su e per… ti sono vicino come un fratello, perché sei nell’incertezza. Ti sono vicino perché ascolti mille tesi che si scontrano e ti sconcertano senza requie, e lo devi fare perché vivi nel mondo come me e incontri tante esperienze differenti e anche contraddittorie. La ricerca della tua verità di vita, in questo momento, passa per la scelta se (provare ad) avere un figlio, o meno. Si tratta di una ricerca nella quale, mi permetto di dire per esperienza, occorre mettere davanti a sé con chiarezza tutto, positività e negatività che conosciamo di noi stessi, perché se il fine è quello di diventare genitore, nel momento in cui la nuova vita ti farà visita, dovrà essere messa al primo posto, nella tua vita. Non sempre, te lo dico con sincerità, io stesso sono stato in grado di rispettare questa Legge di natura, che è semplicemente umana.

Inoltre, due ultime brevi lettere voglio scrivere, la prima a una donna che vuole essere madre a tutti i costi, anche chiedendo a un’altra donna di diventarlo per lei, biologicamente, la seconda a quella donna che vorrà, dovrà (?) accettare di essere disponibile.

Cara signora che vuoi essere madre a tutti i costi, anche al costo di incaricare una tua simile a partorire per te. Qualche domanda. Sono d’accordo che se si adotta un figlio da un orfanotrofio lo si ama come se fosse proprio (esperienza della mia famiglia). Perché dunque desideri che nasca un bambino da un’altra, provenendo da due gameti altri, la cui origine sarà: per il “padre” tenuta rigorosamente nascosta, perché gamete deposto in un’agenzia specializzata, e circa la madre idem, anche se la “madre” accogliente dovrà certamente conoscere la “madre” donante. Che cosa potrà pensare un figlio nato da un’altra madre biologica e da un padre-gamete, nel momento in cui comincerà a farsi delle domande? Cara “madre-che-accoglie” il figlio d’altra, forse che nasconderai per sempre quanto accaduto, a tuo figlio?

Cara signora che “presti” (non voglio dire “affitti”) il tuo corpo per partorire per altri, che cosa te lo fa fare? Il bisogno? Un illustre giurista italiano ha scritto recentemente che la legittimità di una “gravidanza-per-altri” è moralmente analoga alla donazione di un organo sano a chi lo ha irrimediabilmente ammalato: un cuore, un fegato, del midollo osseo, per il citato giurista, sarebbero come un figlio nato da altra. Non sono d’accordo, perché un essere umano non è comparabile a un organo di un essere umano, perché è un vivente cosciente, mentre un organo è una sua parte, che non vive se non dentro l’intero.

In questo caso, filosoficamente, non si dà autosimilarità, vale a dire che la parte non rappresenta il tutto. E di conseguenza, a me pare, ciò sia un illecito morale e dovrebbe essere, per tutti, un illecito giuridico e quindi un reato.

La maternità surrogata o gravidanza per altri, o utero in affitto (horribile dictu, che rinvia alla legislazione sulle locazioni immobiliari) non può essere legittimata da alcuna aspirazione alla genitorialità, perché, diciamolo chiaramente: avere un figlio NON E’ un diritto, ma un desiderio che può diventare DONO.

Infine, il tema delle adozioni è una delle connessioni pratiche e operative a quanto sopra trattato. Quando un bambino deve venire al mondo o è già venuto al mondo, innanzitutto DEVE essere (comunque e in ogni caso) riconosciuto e registrato. Sull’adozione di coppie omosessuali ho già scritto più volte e non mi ripeto. Dico qui, ancora una volta, che non la condivido, per ragioni che ho spiegato in altri scritti.

Si tratta di un “eroe” del giornalismo o anche (un pochino soltanto, però) di un gran parac.(adutista)?

Il 27 Marzo 2023 è mancato all’improvviso Gianni Minà, si legge, di un male cardiaco.

Lo conoscevo di fama televisiva e giornalistica fin da quando ero ragazzino. Visibile, inconfondibile, particolare, quell’ometto dal baffo furbetto e dal capello lunghetto. Dalla voce, anch’essa, inconfondibile.

La pietas per chi non c’è più viene prima di tutto. Quando muore qualcuno, chiunque, si fanno sempre i bilanci orientati al bene, alle capacità, all’unicità, all’eccezionalità del defunto. Ed è normale. Quando la morte accade, come insegnava Epicuro, non c’è più nient’altro… di chi chi muore. Solo un corpo che non ha più vita, il suo soffio, la coscienza, il pensiero. Quello che Rovelli spiega essere quasi l’effetto del vento solare e di altre “cose” fisiche. Mah, solo questo? Boh.

Ed è ciò che ha fatto, quest’uomo. Quello non scompare, quello è “eterno” come ha insegnato Emanuele Severino. Da un punto di vista metafisico, se si riconosce la plausibilità di questo sapere, il filosofo di Ca’ Foscari non può avere torto, come pensano sia taluni che ritengono amenità le dottrine di Platone. Ciò che è stato e che ha fatto Minà non smetterà mai di essere-stato-fatto, ed appartiene, a questo punto, all’eternità di ciò che ha fatto, agli “essenti” che sono ciò che ha fatto. Gli “essenti” non passano, come passa la vita.

Certamente empatico, anche troppo, perché l’empatia non può essere tale da far identificare, pressoché, l’interrogante e l’interrogato. Certo, il dialogo, come insegnava il solito Platone, quello dai pensieri strani, è naturaliter aperto-all’altro, ma non può e non deve essere con-fusivo, cioè confondente A con B. Nel caso di Minà questo mi è sembrato accadere in più casi, come in quello dell’intervista a Fidel. 16 ore di quasi pura adorazione, mi si dice da parte di chi, persona fededegna, ha ascoltato l’intera intervista. Non so se questo sia proprio il miglior giornalismo. Certamente il giornalista può anche parteggiare per l’intervistato o tifare per una squadra, ma è preferibile lo faccia con più discrezione che passione.

Le altre interviste, quelle a Pantani, a Muhammad Alì-Cassius Marcellus Clay, il Dalai Lama, Pietro Mennea, le ho viste quasi integralmente. Buone, molto buone, ma con un pizzico di servilismo sottile che mi ha sempre dato un po’ di fastidio.

Minà è stato certo un grande giornalista, pieno di risorse e coraggioso, ma ha anche avuto al massimo grado l’istinto di riflettersi nel suo ospite, perché quello è il mestiere del giornalista, quello di vivere di luce riflessa.

Non avrei mai potuto fare il suo mestiere.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate

Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.

Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.

Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.

C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.

C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.

Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei MykoianMig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.

Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?

Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).

Et de hoc argumento, satis.

Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?

In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.

E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.

Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.

Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.

Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!

E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.

Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?

Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.

Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.

Continuo con le domande…

E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).

Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?

Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?

Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.

Il radicalismo “sbagliato” e quello “giusto”

Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.

Giulio Alessio


Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.

In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.

Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.

Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.

Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.

Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).

Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.

Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.

I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:

  • la completa separazione tra Stato e Chiesa;
  • il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
  • la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
  • l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
  • l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
  • l’abolizione della pena di morte;
  • la tassazione progressiva;
  • l’istruzione gratuita e obbligatoria;
  • l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
  • il suffragio universale per uomini e donne;
  • un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
  • sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
  • la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!

Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).

Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.

I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.

Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.

Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.

Francesco Saverio Nitti

Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.

Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.

Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.

Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.

Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).

Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.

Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.

Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).

Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.

L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.

Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.

Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!

Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.

Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.

Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.

Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.

NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.

Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate alla struttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.

Nessuno escluso, caro lettor mio.

Rimembra, mio caro Lavoratore! La Tutela della Sicurezza sul lavoro per sé stessi e per i colleghi NON-E’-UNA-MODA, NON-E’-UN-LAVORO, ma è un Sentimento, un Pensiero razionale fatto di ATTENZIONE!!! ed è un Obbligo morale

Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…

…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).

Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.

Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.

Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.

Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.

Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.

Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.

La formazione (frontale, seminariale, laboratoriale) come credibile “assessment” valutativo del personale in azienda e in ogni struttura organizzata, e del potenziale di un ricercatore accademico

La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.

a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;

b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;

c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.

Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.

Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.

Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.

Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.

Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.

Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.

Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.

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