Renato Pilutti

Sul Filo di Sofia

Autore: Renato Pilutti (page 1 of 181)

Dei selfie come specchio: a) la boccuccia a cuore, b) la faccia da oca (la femmina) e c) la faccia di pietra (il maschio)… tra apparenza e verità. Due esempi di di boccuccia a cuore/ faccia di pietra: il “figlio di papi” presidente canadese Justin Trudeau; boccuccia a cuore/ faccia da oche le ragazze che hanno impedito a Roccella di presentare il suo libro al Salone di Torino, con Schlein che dice che in democrazia ci si deve aspettare le contestazioni, sì, ma prima viene il dialogo offerto da Roccella e rifiutato dalle oche scalmanate!

I selfie sono diventati una moda irresistibile con il dilagare di cellulari e smarthphone. Oggi mi offrono l’occasione per parlare di stupidità di varia natura.

Madame ocà

Allo specchio in bagno e nei selfie non si può essere sinceri/ veri, poiché si è – nel contempo – soggetto-che-opera e oggetto-operato. E poi c’è l’altro che “gode” di te, forse. Ci sono alcuni tipi e modelli espressivi. Questi, grosso modo.

La boccuccia a cuore è una pura imitazione dei bimbi, che si atteggiano involontariamente per ottenere attenzione da parte dei grandi, e risultati convenienti dal loro punto di vista immaturo e già furbetto. A volte i grandi li imitano.

La faccia d’oca delle femmine che si mettono in posa per i social è una potente espressione di superficiale stupidità, che può traguardare anche a situazioni serie e pericolose, se ci si mette in mostra in modo tale da suscitare l’attenzione di malintenzionati che si nascondono dietro nickname accattivanti. Non si offenda chi tra le donne fa dei begli autoritratti che possono ricordare Antonio del Pollajolo da Florentia!

La faccia di pietra dei maschi, che loro pensano esprima virilità, forza e decisione, e invece esprime menti tarde e lente, come quella dell’asino di Buridano. Se quei maschi che si auto-fotografano in quel modo conoscessero l’apologo dell’asino di Buridano, non si farebbero i selfie (perché sufficientemente intelligenti). Ma non lo sono, ahiloro!

Temi come l’identità personale, il ruolo del soggetto e dell’oggetto, il rapporto tra l’io e il tu, così come studiati da Martin Buber, filosofo austro-ebreo, l’argomento dell’altro, del volto dell’altro, cui Emmanuel Lévinas, ebreo franco-lituano dedicò tanta attenzione, attestano quanto sia importante riflettere bene sulla questione, che rappresenta il centro delle relazioni interpersonali e non tollera, pena l’impoverimento della qualità relazionale, che si banalizzi ciò-che-mette-in-relazione soggetti umani, intelligenze e storie personali, come accade, invece, nei fenomeni falso-socializzanti dei… social media, che sono quasi un ossimoro concettuale e pratico-concreto.

I social sono dis-sociali e dis-socianti, proprio per i danni che fanno, quando vengono utilizzati nei modi che sto qui indicando.

Vediamo in pratica due esempi proposti nel titolo.

Justin (Giustino, chissà se il figlio di papà sa che San Giustino era un filosofo neoplatonico cristiano?) Trudeau, nell’occasione di incontro del G7 a Hiroshima, che ha all’ordine del giorno questioni fondamentali per gli equilibri socio-economico-politici del mondo (si sia o non si sia affini a questa parte), non trova di meglio che rimproverare Meloni per la scarsa attenzione o addirittura l’avversione ai diritti Lgbtq+. Non solo l’occasione è inopportuna per affrontare un tema del genere, ma i modi e i toni (che risultano) sono inadeguati e insensati… tra l’altro da parte di un politico che dovrebbe innanzitutto pensare a quello che per oltre un secolo è successo nel suo Paese: il massacro della cultura dei nativi, con la collaborazione delle chiese locali. Per tale devastazione lo stesso papa Francesco si è sentito in dovere di andare nella grande Nazione americana per scusarsi come Chiesa cattolica. Monsieur Trudeau boccuccia-a-cuore-faccia-di-pietra lo imiti, di grazia! Se parliamo di diritti, lo stesso premier spieghi la ragione per cui il suo paese è uno dei luoghi in cui più si pratica la gravidanza per altri. Sono questi i diritti che il giovin signore canadese intende difendere?

Guarda caso, si tratta dello stesso tema di Torino. Al Salone del libro, un congruo numero di giovanissime intolleranti boccuccia-a-cuore hanno impedito al Ministro Roccella di presentare il suo libro sui diritti civili, in particolare al femminile. Roccella, che ha una sua tradizione personale e politica di militanza antico-radicale, che non ha rinnegato (fu una delle leader che si occupò della Legge 194 ai tempi nei quali il diritto all’interruzione di gravidanza era reato), ha nel tempo temperato quei “giovanili furori” dirittistici con un’immersione in una sana antropologia realista-personalista. Dubito che alcuna delle ragazze contestatrici boccuccia-a-cuore fosse informata di questa biografia rispettabilissima. La proposta di discutere con civiltà formulata dall’autrice è stata rifiutata dalle fanatiche, e la presentazione del libro è stata sospesa, senza peraltro che il direttore della manifestazione prendesse posizione per consentire che si svolgesse quanto programmato.

Non basta, boccuccia-a-cuore-nazionale Schlein, ovviamente, è intervenuta per dire che il Governo (sempre lui) non tollera le contestazioni. Forse dovrebbe informarsi meglio sul caso e guardare il video di ciò che è successo.

Tra altre, non pochine, una boccuccia a rosa la si vede ogni mattina su Rai News 24, una giornalista grosso modo di bell’aspetto che, non so se distrattamente o per ignoranza semantica, ha definito “celebrazione” il ricordo della strage di Capaci del 23 Maggio 1992. Le stragi di ricordano, non si celebrano. Poi in regia la hanno corretta, ma…

Se, come insegnava Tommaso d’Aquino, contra factum non valet argumentum, cioè contro un fatto accaduto non ci son chiacchiere di sorta, potrebbe ritenere – magari eh – utile informarsi e pensare a che cosa dire prima di dirlo, contenendo entusiasmi mal riposti.

Il “vento dorato” vola in un fruscìo senza tempo, o del perché il ciclismo è uno sport superiore al calcio

Infinite curve piene di bambini festanti e di persone che aspettano sul ciglio della strada che passi in un lampo il vento dorato, il fruscio delle trecento ruote del Giro. Stanno lì nel posto buono per ore, fin dal mattino, per quel fruscìo che dura venti secondi o trenta al massimo, del gruppo che vola a cinquanta all’ora in un barlumeggiar di ruote e di pedali. Più numerosi di tutti gli spettatori di tutti gli stadi del calcio, e gratis, sulla strada davanti a casa, gratis, a vedere la fatica e il coraggio. E la storia.

Gino Bartali e Fausto Coppi

Dentro il gruppo ci sono mille storie, mille fatiche, mille modi di affrontare la corsa, ma soprattutto c’è una doppia visione del mondo: da capitani e da gregari. Tutti faticano ma i secondi di più, perché devono provvedere ai rifornimenti per sé stessi e per i capitani. E allora pedalano su è giù per la fila, in salita e in discesa, cercando qualche tratto di pianura quando possono, fino in fondo all’ammiraglia e poi riempirsi tutte le tasche di borracce, gel e paninetti energetici, infilati perfino nella maglietta dietro la nuca. Ho visto corridori con otto borracce tutte assieme, al punto che il tronco magro del ciclista aveva assunto un’altra forma corporea.

E il gruppo vola. Vola per i lunghi rettilinei di pianura, che però in Italia non sono moltissimi, oltre a quelli che si trovano nella pianura Padana. Più spesso i percorsi sono misti, fatti di salitelle e discese, dove si raggiungono i novanta all’ora, e ancora di più di erti “muri” (per dirla alla “fiamminga”) appenninici, per poi arrivare alle “grandi montagne”, come le chiamava mio papà Pietro, tifosissimo di Bartali che, secondo lui (e non solo lui), se non ci fosse stata la Seconda Guerra mondiale, si sarebbe diviso con Coppi una cinquina di Giri d’Italia e una cinquina di Tour de France, collocandosi – senza dubbio alcuno – al vertice dei più grandi, dove comunque tutti e due stanno.

Quando arrivano le salite alpine, di solito dopo metà Giro e verso la terza settimana di gara, tutti nel gruppo sono stanchissimi, smagriti, quasi smunti, abbronzati “a pezzi”, perché nel corpo si disegnano grandi ombrature, sulle braccia in corrispondenza delle maniche delle magliette, mentre nelle gambe si notano netti i segni del pantaloncino.

E il gruppo vola, il vento dorato vola.

Dai tempi di Bottecchia, il bersagliere friulo-veneto, che correva per soldi fuori dalla miseria, che batteva Henri Pelissier in due Tour primordiali, di Girardengo con le sue trenta tappe vinte al Giro, il Gran Premio Wolber di 360 km, e poi Binda, cinque giri e tre mondiali, i citati Coppi e Bartali, Louison Bobet, Jacques Anquetil il più elegante cronoman di sempre, Hinault incredibile con la sua stazza ridotta, per me il terzo ciclista più forte di ogni tempo, al pari di Bartali e del giovinetto belga formidabile di oggi, Remko Evenepoel.

Come dimenticare Ercole Baldini e Gastone Nencini, assonanti nei nomi e quasi coetanei, capaci di vincere tutto, Giro, Tour, Mondiale su strada, Olimpiadi? E Michele Dancelli, razzente come pochi, il bresciano capace di vincere in volata con chiunque e di staccare chiunque, il coraggio fatto corridore? O Gianni Motta, di classe inarrivabile, in grado di competere dal ’64 al ’70 con Merckx, Gimondi, Adorni, Anquetil, Poulidor e di batterli spesso? Chiappucci Claudio un memore sguardo se lo merita? Dimanda retorica.

E gli inglesi, gli irlandesi? I tre baronetti Bradley Wiggins, Geraint Thomas e Chris Froome (in grado di vincere quattro Tour, una Vuelta e due Giri, diventando uno dei più grandi corridori di sempre), e poi Sean Kelly, quasi imbattibile nelle sue giornate, l’a me antipaticissimo Stephen Roche (Giro, Tour e mondiale in un anno, e poi più niente, perché, come dice il mio caro e sapiente di ciclismo frate Gigi da Lignano, mio consulente speciale per questo saggetto, era pieno come un uovo, quell’anno), e i due teutonici di trent’anni prima: Rudy Altig e Jan Janssen, entrambi campioni del mondo? Non dimentico l’elegante e facondo Vittorio Adorni, capace di vincere Giro e mondiale, e di diventare un empatico volto televisivo.

Come dimenticare Rik Van Looy, l’imperatore di Herentals, così lo cantavano aedi melodiosi del ciclismo come Dino Buzzati, Orio Vergani e Bruno Raschi, Merckx el mas fuerte, non el mas grande, que el mas grande es Fausto, fino a i nostri di questi anni quando battagliano sulle strade assolate del Tour de France Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard. La poesia pura di Marco Pantani. Non dimenticato. Non dimenticabile.

Come non avere memoria di chi è mancato cadendo sugli asfalti d’Europa, al Giro o al Tour o in corse di un giorno: Fabio Casartelli, Serse Coppi, Weilandt… e le cadute rovinose come quella di Tao Geoghen Hart in questo Giro 2023, che avrebbe potuto vincere. Quando cadono questi ragazzi magri, prima ancora di guardarsi abrasioni sanguinanti, cercano la bici per ripartire. Eroici? No, veri.

E i grandi ispanici? Da Federigo Martin Bahamontes, a Pedro Delgado, a Miguelon Indurain, grosso come un boscaiolo basco, fino al leggendario Contador, per me uno dei più grandi, e all’artista del pedale, el imbatido don Alejandro Valverde?

E Charly Gaul? Lussemburghese capace di vincere un Giro e un Tour, forse lo scalatore più puro di tutti i tempi, dopo Marco Pantani…

E le frecce di un giorno come il Saronni della “fucilata” di Goodwood, che ho ancora negli occhi, e come mister Roubaix, il lampeggiante Argentin delle quattro Liegi e del mondiale americano, e come “lo zingaro di Aeklo” Roger De Vlaeminck, che poteva battere Merckx quando le pietre di Roubaix si facevano cattive sotto le ruote, e come Paolo Bettini bicampeon del mundo e olimpionico sotto l’Acropoli, e come Fabian il calabrese che scelse la Svizzera e girava padelloni impossibili? E i due potentissimi svizzeri vincitori di Giro e Tour Hugo Koblet e Ferdy Kubler? Come dimenticare Fiorenzo Magni, capace di vincere ovunque, tre Giri d’Italia e tre Fiandre. E Gimondi, che a me non piaceva nell’eloquio, ma vinse su ogni terreno? E Francesco Moser, il plurivincitore italiano, a volte cattivo oltre il giusto, denominato alla moda western, lo sceriffo? E i due draghi di un giorno di questi tempi nostri, il grande Mathieu Van der Poel, sangue di Adri e di nonno Raymond (Poulidor) e Wout Van Aert, che non si chiedono mai perché scattano, scattano e basta e poi vincono (spesso) o perdono, non gli importa molto. Corrono corrono senza guardarsi indietro. Un’immagine: lo scatto di Mathieu sul Poggio della Sanremo quest’anno…

Non voglio lasciar perdere nemmeno Luis Ocaña, potenziale “grande di Spagna”, che un gravissimo infortunio spazzò via prima che potesse mostrare al mondo ciò che poteva, anche battere bene il grandissimo Merckx. Come di lui parlo di Gianni Bugno, che pareva poter vincere con chiunque (basti guardare come vinse due mondiali consecutivi e il suo unico Giro d’Italia), ma si fermò prima di farlo. Carattere?

Anche Nibali, vincitore di quattro grandi giri merita un cenno, e fors’anche Ivan Basso, due giri e un Tour virtuale. Così come non voglio dimenticare il gentile Laurent Fignon, che con gli occhiali vinse due Tour de France e un Giro d’Italia, e Jan Janssen, forse il più forte corridore d’Olanda di ogni tempo: vince una Vuelta, un Tour e un Campionato del mondo su strada.

Un augurio al forte e simpatico, sfortunatissimo colombiano Egan Bernal, che ha già vinto un Giro e un Tour, è caduto e sono spiritualmente con lui perché torni quello che era e che può essere ancora.

Mettiamoci pure tra i “già-grandi” Filippone Ganna, che a ventisei anni ha già vinto diversi mondiali di inseguimento su pista e su strada, ha vinto alle Olimpiadi, e ha “fatto” il record dell’ora, un “potenziale” grande vincitore di classiche. E tra i potenziali più forti abbiamo (noi Friulani e Italici) Jonathan Milan da Buia, Friuli, Italia, capace di vincere l’europeo dell’inseguimento su pista, socio di Ganna nel quartetto olimpico e velocista su strada, forse ora il più potente del mondo.

E, purtroppo, non posso fingere di dimenticare Lance Armstrong, 7 Tour toltigli perché reo confesso, e un mondiale. Greg Lemond lo ricordo volentieri, con i suoi tre Tour e un mondiale.

E infine, ma non perché siano meno importanti, anzi, che dire ora dei gregari, che prendono una RAL di 30.000/ 50.000€ all’anno, come un impiegato, mentre Messi ha un’offerta dagli emiri di 500 milioni per anno, mentre ne prende trenta dal Parigi? Cristiano da Madeira quasi uguale, percepisce. Pogba otto milioni per aver giocato due o trecento minuti in una stagione, Lukaku altrettanto per mezza stagione. Da vomito.

Il vento dorato vola, anche se, come mi ricorda sempre fra’ Gigi da Lignano, oramai tutti prendono qualcosa (mio papà mi diceva che anche Coppi…) e le strategie sono freddamente decise a tavolino dai direttori delle squadre, che hanno sponsor, e obiettivi commerciali da raggiungere. D’altra parte, come riconosceva lo stesso Cipollini, come si può correre tappe di oltre duecento chilometri a 48/ 50 all’ora di media se non (e ciò che segue).

Il calcio è peggio, specie quando vedo le foto di un volto fanatizzato dall’espressione insopportabile come quello di Lautaro Martinez, tanto per citare uno tra molti, e mi sovvien la miseria di questi milionari senza cultura, o penso a Donnarumma, il portiere della Nazionale italiana, che se ne va a Parigi per soldi (a ventidue anni passa da sei milioni a dieci all’anno), un senso di desolazione mi afferra. Che poveri di (non in) spirito: vale a dire, evangelicamente, poveri non della povertà interiore che può anche ammettere il benessere, ma una povertà intellettiva, il cui rimedio non si può comprare con i milioni.

Due immagini e un verso poetico-sportivo ho in testa, per chiudere: la prima è quella di Gino e Fausto al Tour sul Col de Galibier (dove portai Beatrice bambina di dieci anni, a piedi, salendo dal Col de Lautaret, nel 2005) che si passano una borraccia, e non dissero mai chi la passò a chi; la seconda è la figura agile di Marco Pantani che, rimasto indietro per un piccolo guasto meccanico, risale tutto il gruppo a velocità doppia verso il Santuario della Madonna di Oropa nel Giro del 1998, e l’ultimo a farsi superare in quella salita cattiva è Laurent Jalabert, francese leale, che lo guarda ammirato sfilargli accanto; il verso poetico appartiene a Orio Vergani che quando Fausto Coppi muore di malaria all’ospedale di Tortona nel gennaio del 1960 per insipienza e presunzione medica (i medici di Parigi avevano informato quelli di Tortona che si trattava di malaria, perché Raphael Geminiani che avevano in cura, era stato con Coppi in Alto Volta (paese ora noto con il nome storico di Burkina Faso) per una battuta di caccia e si era ammalato), scrive sulla Gazzetta dello Sport “il grande airone ha chiuso le ali“.

Ma il vento dorato vola in un fruscio senza tempo…

…lui è “andato avanti”

…è il modo di dire “alpino” per ricordare un compagno, un amico, un commilitone, un fratello, che è morto in battaglia, oppure è mancato da civile dopo la guerra, e spesso anche per le conseguenze di infinite sofferenze e dolore.

La lunga fila della ritirata italiana dal Don

E’ andato avanti” è come un atto di fede nell’anima immortale, cari professori Rovelli, Odifreddi, Hack (requiescat in pace)…, e cari voi che militate contro, incomprensibilmente. Prima di tutto, non lo capisco. Filosoficamente e teologicamente. Non occorre “militare” per l’inesistenza dell’anima immortale, e quindi di Dio. Non che uno sia obbligato a credere nell’anima immortale come credevano Platone e non pochi (!!!) altri, perché ciò non è di-mostrabile con argomentazioni logiche, così come non è di-mostrabile la sua non-esistenza, ma la semplice frase “alpina” fa capire come questo ambiente spirituale colga dell’uomo alcune caratteristiche intuitive di un qualcosa che potrebbe non avere fine con la morte fisica.

Chissà, forse, contro-intuitivamente, ce la farà la fisica dei quanta-qualia (con gran disdoro dei fisici di cui sopra) a mostrare la plausibilità dell’esistenza della coscienza-anima immortale (cf. Giacometti 2022/ 2023), fermo restando l’actus fidei, che si colloca in una dimensione teologico-metafisica.

Di seguito inserisco il testo della deliberazione governativa con la quale mio suocero Cesare, “andato avanti” prima, ma dopo la battaglia, è stato insignito di Medaglia di Bronzo al valor militare, a seguito dei suoi atti generosi durante la rotta dell’inverno ’42/ ’43 in Ucraina, lui caporal maggiore del )9° Battaglione della Brigata Alpina Julia. Durante la rotta che vide la Cuneense, la Tridentina e la Julia cercare di sganciarsi dalla sacca del Don attraverso Izjum (nome richiamato in recenti cronache guerresche d’aggressione), Nowo Kaljtwa, Nowa Postojalowka, Nikitowka e Njkolajewka.

“MINISTERO DELLA DIFESA, il Presidente della Repubblica (Giovanni Gronchi), con Suo Decreto in data del 8 Agosto 1955, Visto il Regio Decreto 4 Novembre 1932 n.ro 1423 e successive modifiche; Visto il Regio Decreto 23 Ottobre 1942 n.ro 1195; sulla proposta del Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Difesa; ha conferito la Medaglia di Bronzo al Valor militare coll’annesso soprassoldo di Lire 5.000 al caporale maggiore, 9° alpini (Brigata alpina Julia)

Rivoldini Cesare di Evangelista , da Bertiolo (Udine), n. 1920

  • Puntatore di cannone da 47/ 32, in aspro combattimento, visto cadere il capopezzo ne assumeva con decisione il comando, assolvendo il nuovo compito con coraggio e calma esemplari e continuamente incitando i propri compagni alla lotta. Esaurite le munizioni, posto in salvo il congegno di puntamento, si lanciava coraggiosamente al contrassalto con i reparti fucilieri giunti in rinforzo. Kopanki (Russia, 20 gennaio 1943)

Il Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Difesa rilascia dunque il presente documento per attestare del conferito onorifico distintivo.

Roma, addì 10 Gennaio 1956

Registrato alla Corte dei Conti

addì 18 Ottobre 1955

Registro 45 Foglio 116

f.to Massimo – il Ministro Gaetano Martino

Tornato dalla guerra aveva fatto la sua parte nella Osoppo come partigiano.

Erano là innocenti, inviati nell’inverno russo con mezzi inadeguati e una strategia subalterna (alla Germania hitleriana) e potenzialmente suicida, dal criminale regime fascista del cavalier Benito, inerte e succube il re Savoia, che dopo l’8 settembre io avrei fatto arrestare. Un vigliacco. Mi risulta che in tempo di guerra i traditori vadano fucilati. A mio parere quello sarebbe stato il suo giusto destino, o almeno il confino, altro ché un dorato esilio egiziano. Mussolini ha pagato con la vita per le spicce, chiunque sia stato a fucilarlo, non mi interessa se Walter Audisio o “Colonnello Valerio” (pare di no) o il “Capitano John” per conto di Churchill che voleva avere tra le mani il suo carteggio segreto con il Capo del Governo fascista (quante volte nel dopoguerra Sir Winston è tornato in vacanza a dipingere paesaggi sul Lago di Como? e perchè?), Bruno Lonati o il “Capitano Neri” (alias Luigi Canali), su decisione del CLNAI (comandato dal Gen. Raffaele Cadorna, da Luigi Longo, da Sandro Pertini, da Leo Valiani, da Italo Pietra, etc.). Vittorio Emanuele III, no.

E poi i Savoia pretendevano che la monarchia continuasse, pur se il “Re di Maggio” Umberto II si comportò lealmente dopo il referendum che scelse la Repubblica, di certo ben consigliato da quella donna intelligente che era sua moglie, la regina Maria Josè del Belgio. Ti immagini, gentile lettore, se nel 1946 avesse vinto la monarchia, ancora oggi ci troveremmo come re Vittorio Emanuele IV, quello che sparò e uccise un turista all’Isola del Cavallo al largo della Sardegna una quarantina di anni fa. E come principe ereditario Emanuele Filiberto, il ballerino televisivo. Ogni tanto mi viene da pensare se sia stato meglio Andreotti… Ma sì, nonostante tutto, perché possiamo “mandare a stendere” chi non governa bene, però dobbiamo andare a votare!!!

Mio suocero Cesare Revoldini (la “i” nel documento è un errore anagrafico) e mio padre Pietro non combatterono per questi “signori”, e neanche per alcuni delinquenti repubblicani che gli succedettero dal 1946 a oggigiorno. Poveri Pietro e Cesare.

Tutti e due sono “andati avanti“, prima Cesare, che non ho fatto a tempo a conoscere bene, e poi Pietro, mio padre.

Nessuno dei due ha avuto il tempo di conoscere la nipotina Beatrice, ma da quando è nata la guardano con occhi buoni da lassù, perché loro due sono solo “andati avanti.

Intelligenza umana e intelligenza artificiale, tra ragionevolezza e “effetto wow”

Intellectus, ratio, noùsphrònesis, intelletto, ragione, prudenza, modi diversi di descrivere le facoltà intellettive dell’uomo, in latino, in greco, in italiano. Termini, assieme a molti altri, collocati nella storia dell’uomo occidentale (tralascio quella dell’homo orientalis, per la quale non possiedo competenze specifiche).

Proviamo a dirci brevemente che cosa intendiamo di solito per “intelligenza”.

L’intelligenza è un insieme di facoltà mentali e psichiche le quali, tramite processi cognitivi come l’apprendimento, la riflessione e la comprensione, consentono di capire le cose e i concetti producendo idee e pensieri, atti ad organizzare il comportamento soggettivo, in ogni senso e per qualsiasi fine. L’intelligenza non appartiene solo all’homo sapiens, poiché in modi differenti è parte delle strutture psichiche degli animali e comunque di organismi viventi.

Di seguito un elenco di capacità derivanti dall’intelligenza: astrazione, logica, comprensione di concetti e fatti, autoconsapevolezza, apprendimento, conoscenza emotiva, ragionamento, pianificazione, creatività, pensiero critico, risoluzione di problemi, etc.

Si può anche dire che l’intelligenza è la capacità di percepire o dedurre informazioni anche non evidenti mediante l’intuizione, per applicarle come conoscenza e produrre comportamenti adattivi, per cui l’uomo riesce a cavarsela anche in situazioni limite (le grenz Situazionen di K, Jaspers).

John Locke

In realtà, non si può dire che tutti gli studi sull’intelligenza umana, anche ad oggi, non hanno ancora definito una declaratoria ufficiale dell’intelligenza umana universalmente riconosciuta e condivisa, tali e tante sono le differenze tra le strutture antropologico culturali e filosofiche presenti nelle varie culture mondiali, tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo.

Forse si può riconoscere che tutti convengono sul fatto che l’intelligenza sia la capacità/ facoltà, in particolare di un soggetto umano, atta affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi teorici e pratici nuovi o sconosciuti. Analoga, anche se diversa, è descritta pure l’intelligenza “animale”, fermo restando che, biologicamente, anche noi sapiens siamo “animali”.

Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.

Tradizionalmente l’intelligenza è stata attribuita alle sole specie animali, a partire dall’uomo, ma oggi essa viene da alcuni attribuita, in misura minore, anche alle piante e agli organismi unicellulari. Direi che basta intendersi: se definiamo l’intelligenza con facoltà essenzialmente adattiva al mondo, per analogia, possiamo attribuirla anche a ogni altro essere vivente.

Cominciamo a introdurre il tema dell’intelligenza artificiale, anticipando solo che essa si propone lo scopo di creare macchine che tentino di riprodurre o di simulare l’intelligenza umana.

Forse a questo punto è utile tornare alla linguistica che concerne il concetto e il lemma “intelligenza”, prima di approfondire il tema di quella artificiale.

La parola intelligènza deriva dal sostantivo latino intelligentĭa, a sua volta proveniente dal verbointelligĕre, “capire”.

Il vocabolo intelligĕre è formato dal verbo legĕre, “cogliere, raccogliere, leggere” con la preposizione inter, “fra” (quindi, ‘scegliere fra, distinguere’); l’intelligenza, quindi, è letteralmente capacità di stabilire correlazioni e distinzioni tra elementi (di “leggere tra le righe”, come si dice).

Una opinione autorevole, quella di 54 ricercatori di tutto il mondo che concordarono su questo testo:

«A very general mental capability that, among other things, involves the ability to reason, plan, solve problems, think abstractly, comprehend complex ideas, learn quickly and learn from experience. It is not merely book learning, a narrow academic skill, or test-taking smarts. Rather, it reflects a broader and deeper capability for comprehending our surroundings—”catching on”, “making sense” of things, or “figuring out” what to do.»(IT)«Una generale funzione mentale che, tra l’altro, comporta la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall’esperienza. Non riguarda solo l’apprendimento dai libri, un’abilità accademica limitata, o l’astuzia nei test. Piuttosto, riflette una capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda – “afferrare” le cose, attribuirgli un significato, o “scoprire” il da farsi.»
(Mainstream Science on Intelligence, 1994)

Alcune altre definizioni risalenti ai decenni scorsi:

  • La capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove. (William L. Stern)
  • La misura della capacità di un agente di raggiungere obiettivi in una varietà ampia di ambienti. – (S. Legg e M. Hutter, quest’ultima definizione è stata formulata nel tentativo di sintetizzare una varietà di settanta altre definizioni diverse).

Guardandoci un po’ indietro ci possiamo soffermare possiamo soffermarci sul Saggio sull’Intelletto umano del filosofo inglese John Locke nel quale egli descrive la mente umana, dalla sua nascita, come una aristotelica tabula rasa (anche se non usa esattamente queste parole) riempita in seguito attraverso le esperienze. Il Saggio fu una delle principali fonti dell’empirismo moderno ed influenzò molti filosofi dell’Illuminismo, come George Berkeley e David Hume.

In quest’opera, di carattere filosofico-pedagogico, Locke sostiene che il processo di apprendimento prenda avvio dall’esperienza, che può essere interna o esterna al soggetto, la quale attraverso l’associazione di idee semplici, porta alla formulazione di idee complesse e di un giudizio. A ben vedere si può percepire come questa tesi abbia non soltanto un fondamento di tipo pedagogico (storicamente innovativo) ma anche un fondamento di tipo psicologico; la psicologia infatti pone alla base del processo di apprendimento oltre alla percezione e all’esercizio anche l’esperienza.

Il Libro II del saggio descrive la teoria delle idee di Locke, inclusa la distinzione tra idee acquisite passivamente, cioè le idee semplici, come “rosso”, “dolce”, “rotondo”, e quelle costruite in modo attivo, cioè le idee complesse, come i numeri, le cause e gli effetti, le idee astratte, le idee delle sostanze e quelle di identità e diversità. Locke distingue tra le qualità reali primarie esistenti dei corpi, come la forma, il movimento e la disposizione delle particelle che li compongono, e le qualità secondarie che sono “il potere di produrre varie sensazioni in noi” come il “rosso” ed il “dolce“. Queste qualità secondarie, afferma Locke, sono dipendenti dalle qualità primarie. Egli inoltre delinea una teoria della identità personale, offrendo un criterio largamente psicologico.

Dopo questa carrellata assai sommaria (ad esempio non ho interpellato in grandi filosofi greci classici, perché proposti altrove in questo sito e per non appesantire troppo questo testo) sulle teorie moderne e contemporanee su ciò che si debba intendere con il termine “intelligenza”, passiamo a dire qualcosa sulla intelligenza artificiale (in sigla IA), che è una disciplina dedicata allo studio delle possibilità circa se e in che modo si possano progettare e realizzare sistemi informatici in qualche modo definibili “intelligenti”, al punto da essere in grado di simulare la capacità e il funzionamento del pensiero umano.

«L’intelligenza artificiale è una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.» (Definizione accettata dal Parlamento europeo nel 2020)

Definizioni specifiche possono essere date focalizzandosi sui processi interni di ragionamento o sul comportamento esterno del sistema intelligente e utilizzando come misura di efficacia la somiglianza con il comportamento umano o con un comportamento ideale, detto razionale:

  1. Agire in modo analogo a quanto fatto dagli esseri umani: il risultato dell’operazione compiuta dal sistema intelligente non è distinguibile da quella svolta da un umano.
  2. Pensare in modo analogo a quanto fatto dagli esseri umani: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere un problema ricalca quello umano. Questo approccio è associato alle scienze cognitive.
  3. Pensare razionalmente: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere un problema è un procedimento formale che si rifà alla logica.
  4. Agire razionalmente: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere il problema è quello che gli permette di ottenere il miglior risultato atteso date le informazioni a disposizione.

L’intelligenza artificiale è una disciplina dibattuta tra scienziati e filosofi poiché manifesta aspetti concernenti in modo molto importante la dimensione etica dell’agire umano oltre che teorici e pratici. Ad esempio, Stephen Hawking nel nel 2014 ha messo in guardia riguardo ai pericoli dell’intelligenza artificiale, considerandola una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità.

Riportare di seguito un parere recentissimo di Geoffrey Hinton, ritenuto il principale “inventore” della A.I. Hinton ha espresso opposizione all’uso di armi letali a controllo automatico. Generalmente si rifiuta di esprimere predizioni a lungo termine riguardo ai rischi della singolarità tecnologica, osservando che il progresso esponenziale nel settore causi troppa incertezza sul futuro.

Tuttavia, il periodico The New Yorker gli ha attribuito una recente conversazione con il ricercatore Nick Bostrom nella quale avrebbe affermato di non aspettare lo sviluppo di un’intelligenza artificiale forte prima di diversi decenni (“non prima del 2070”) e che non ci sia speranza di controllare l’uso dell’intelligenza artificiale nel futuro, affermando che i sistemi politici ne faranno uso per terrorizzare la popolazione, e che entità come la National Security Agency stiano già cercando di sfruttare tali tecnologie. Riguardo ai rischi della singolarità tecnologica, non esclude la possibilità di sopravvivenza dell’umanità, ma osserva che non ci sono precedenti di una specie di intelligenza inferiore capace di controllare una specie superiore.

In un’intervista rilasciata al New York Times nel maggio 2023 (qualche giorno fa), Hinton rivalutò le sue previsioni sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale, affermando che la sua precedente aspettativa sul tempo necessario per lo sviluppo della tecnologia (30-50 anni nel futuro) fosse sbagliata e il progresso stia avvenendo più velocemente, sostenendo che i ricercatori dovrebbero evitare di applicare la tecnologia su larga scala fino a quando non sono confidenti di essere in controllo.

Tanto per non dimenticare: l’Intelligenza artificiale. Molti certamente ricordano il film Minority report, nel quale Tom Cruise fa parte della polizia predittiva, che si occupa di prevenire i delitti e arresta i probabili/ possibili/ (quasi) certamente progettatori ed esecutori di delitti di tutti i generi.

Nella sceneggiatura di questo film di Spielberg l’intelligenza artificiale lavora mediante collegamenti informatici che imitano l’intelligenza umana mediante l’analogia e la logica razionale di base, ma, di contro, come abbiamo visto, un pensatore laicissimo come Stephen Hawking, ancora nel 2014, ha messo in guardia l’ambiente accademico e il sistema massmediologico dai pericoli dell’AI.

Per concludere può essere utile ricordare i prodromi dell’intelligenza artificiale, che si possono trovare addirittura nei secoli passati, in alcune ricerche di matematici e fisici come, nel 1623 Wilhelm Schickard, nel 1674 Gottfried Wilhelm von Leibniz, nel 1834, 1837 Charles Babbage, nel 1937 Claude Shannon a Yale, nel 1936 Alan Turing, e poi Mc Culloch e Pitts nel 1956 al Dartmouth College, fino alle ultime evoluzioni fisico-informatiche.

Tutto bello (o quasi), perché tutto ciò che la scienza produce è importante per l’uomo e per l’umanità tutta, specialmente quando scopre ciò che può essere utile in natura e si muove per proteggere la natura come in questo periodo sarebbe essenziale. La scienza e la tecnica possono servire per ridurre l’inquinamento da combustibili fossili… ad esempio, riprendiamo con il nucleare di ultima generazione? … e quando servono per migliorare la difesa del territorio e del clima terracqueo, nonché per sconfiggere sindromi e malattie.

Ma l’intelligenza artificiale, se considerata addirittura sostitutiva di quella umana, rischia di essere una delle modalità attuali del peccato di superbia. Sto pensando alla gravidanza surrogata, alla clonazione umana, a tutto ciò che mette in questione la struttura morale della realtà naturale.

Il rischio è che questo nuovo strumento sia considerato più per quello che può essere definito “Effetto Wow“, come spesso capita alle novità in questa società iper-mediatizzata e dell’immagine apparente sine ulla essentia (senza alcuno spessore).

E’ vero che la cultura umana ha modificato la natura delle cose, ma non bisogna esagerare. A questo proposito, ci si deve porre, a mio parere, una domanda: c’è un sapere che riesce e mettere in guardia da questo rischio? Domanda retorica, perché la risposta è di tutta evidenza, almeno da due millenni e mezzo.

Questo sapere è sempre e comunque la Filosofia. La filosofia non morirà mai e non potrà essere sostituita assolutamente dal machine learning, poiché questo sapere umano si interroga sui princìpi primi, sulle ragioni dell’esistenza umana cosciente nel mondo, sul funzionamento della logica e dell’argomentazione razionale,sul bene e sul male, sulle scelte morali e sulla scala virtuosa o viziosa dell’agire libero.

E, oltre alla frequentazione dei grandi classici, dai due Greci che non occorre nominare tanto sono conosciuti, che distinguevano fra intelletto e volontà, un modo straordinario di classificare le principali facoltà umane che si integrano, ad Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Kant e Hegel, a Heidegger, a Emanuele Severino, e al padre Cornelio Fabro, da Flumignano di Talmassons (Ud) per la cui biografia scrissi la prefazione, mi consolo con questo pensare.

Il compito di chi la pratica è immenso, ed è un consigliabile dovere per tutti accettarne le critiche e le proposte per partecipare a un dialogo in grado di definire il migliore utilizzo di questo strumento.

Ci penso ogni giorno per rinforzare il mio impegno, nel mio piccolo, per proporre la filosofia come sapere che riesce, analizzando con cura razionale ogni cosa e ogni fatto, a discernere le strade buone dalle strade male della vita di ognuno, delle famiglie, delle aziende e di ogni gruppo organizzato, dei popoli e delle nazioni.

Si dà, a mio parere, una differenza qualitativa radicale fra a) lavoro ed economia da un lato e b) politica dall’altro. In sintesi, sono dei fatti incontrovertibili: per a) la certificazione e il controllo della qualità dei processi e dei prodotti sono – da alcuni decenni – determinanti per l’economia, così come le certificazioni (1) ambientale, (2) della sicurezza del lavoro, (3) di sostenibilità ecologica e (4) dei profili etici, mentre su b) si può affermare che la politica odierna si mostra ed è spesso priva (o quasi) di “Qualità”, categoria e termine già presente nel pensiero e nei testi aristotelico, cartesiano, kantiano, hegeliano e perfin “musiliano” (di Robert Musil). Grazie a Dio non altrettanto si può dire degli ambienti economici e produttivi del lavoro autonomo e dipendente, dove vi sono qualità elevate e possibilità di crescita per giovani volenterosi e preparati, non solo impoverimento e precarietà di cui parlano alcuni come fossero l’unica cifra analitica socio-economica, che indubbiamente esistono, ma non possono essere l’unica chiave di lettura della realtà. Ad ascoltare costoro sembra che l’Italia sia alla rovina, ma è vero il contrario, caro Landini e c.

L’incipit del titolo sintetizzato in a) mi servirà per concludere questa riflessione basata sul contrasto radicale che si registra tra qualità del lavoro italiano e qualità della politica attuale.

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Stupidaggini varie ed eventuali di “idiotes” (in lingua latina: incompetenti, inesperti, incolti), sono tutte ragazzate, cosa volete…

…la più clamorosa, (quasi) incredibile e ignorante è quella del Presidente del Senato (la Seconda carica dello Stato, vale a dire che, se l’attuale Presidente della Repubblica Mattarella dovesse essere indisposto al punto da non poter esercitare le sue funzioni costituzionali, lo sostituirebbe… La Russa! Ahimè). Ecco le parole di Ignazio La Russa: “…nella Costituzione non c’è nessun riferimento all’antifascismo“. Qualcuno ha risposto correttamente, mi pare Schlein, che la Costituzione della Repubblica Italiana è l’antifascismo, ontologicamente, prima ancora che eticamente e politicamente!

babbalei

Il leghista Lorenzo Fontana, invece, volendo citare il prof Vittorio Bachelet ucciso dalle Brigate Rosse il 12 Febbraio 1980, dopo una lezione a La sapienza, parla di un Vittorio Bàkelet. Troppo giovane, Fontana, forse, non ricorda…

Lollobrigida Francesco, di Fratelli d’Italia, per dire che, a fronte del calo delle nascite autoctone in Italia e al profluvio di arrivi di extracomunitari africani e asiatici, parla di sostituzione etnica. Nel mondo e nella storia i popoli e le persone si sono sempre mossi e mescolati. In realtà il meticciato variamente declinato è una conseguenza di molti movimenti. Noi stessi, che antropologicamente ci definiamo caucasici, abbiamo geni in misura diversa di indescrivibili ceppi etnici. Non sostituzione, dunque, ma mescolanza, che peraltro (come è noto) irrobustisce la struttura genetica.

Un giornalista parlamentare: “Scusatemi, ma ho un patè d’animo”, non si sa se scherzasse o meno. Un patè d’animo, magari per dire di avere l’anima un po’ sfilacciata… chissà.

Giornalisti vari nel tempo: avrai notato, caro lettore, che se costoro debbono riferire di una difficoltà, di un conflitto, di una controversia politica, a seconda della gravità dei fatti utilizzano un semplice climax (da un minimo a un massimo): bufera, solo e sempre bufera, se le cose sono componibili, mentre gli scappa indefettibilmente di penna… il termine biblico apocalisse, se sono di micidiale gravità. Vada per bufera, nel senso di un vento forte (metaforico), ma apocalisse proprio non c’entra, poiché significa “rivelazione”; eppure ci sarebbero anche altri termini in buon italiano, come catastrofe, cataclisma, disastro e perfino ecatombe, sempre una metafora, che significa “strage di cento buoi”… Tutte parole greche, ma apocalisse è proprio la meno adatta.

Un politico di qualsiasi gruppo o schieramento ebbe a dire: “Come dirò poc’anzi...” Ah ah ah…

Un politico di cui non ricordo il nome: “…la spada di Temistocle“, e perché non di Milziade o di Pausania o di Senofonte?

Un altro politico ebbe ad esclamare: “Cari amici, ho saputo di un’improvvisa moratoria di pesci in Adriatico“. Moratoria mortuaria.

Un ennesimo politico un giorno affermò tutto giulivo: “Sono felice di trovarmi nel luogo che mi ha dato i genitali“. Eccolo là.

Un politico vicentino: “Avete letto Arcipelago Gulatsch?” Io no, e tu, caro lettore?

Berlusconi un giorno giudicò il Presidente degli Sati Uniti Barack Obama “un po’ abbronzato“. Eeeeh!

Maria Stella Gelmini: “Per le sperimentazioni di una nuova tecnica di comunicazione esiste un tunnel scavato tra il Monte Bianco e il Gran Sasso“. Cavolo, non lo sapevo proprio!

L’ex ministro Claudio Scajola informò la stampa che “…aveva avuto una casa fronte Colosseo a sua insaputa“. Beatissimo lui. Ereditiero.

Di Battista, 5Stellato storico, per gli amici il “Dibba”: in un intervento politico si espresse con questa citazione “…la battaglia di Auschwitz“. Evidentemente l’assonanza con Austerlitz, non frequentando abitualmente (lui) testi di storia, lo ha imbrogliato nella memoria a medio termine. Si giustificò dicendo che si era sbagliato in un discorso a braccio (peraltro alla Camera dei deputati, non al Bar sport). Meglio preparare una scaletta, allora, evitando la supponenza, o no?

Il famoso Matteo Salvini un giorno si espresse su un modo verbale in questo modo: “...il gerundio “migrante” è un modo… etc.” Non avrebbe potuto evitare di mettere in evidenza le sue conoscenze grammaticali?

Un ennesimo politico disse un giorno: “…sarò breve e circonciso“, ma non era di religione ebraica, forse solo “breve” intellettualmente.

Il Presidente Luigi Einaudi segnalava che la maggior parte degli interventi dei politici erano scarsi o addirittura privi di contenuti, al suo tempo. Figuriamoci oggi, al tempo dei social e dei carneadi eletti.

E veniamo all’ultimo. Per dare una definizione di Personal Shopper basterebbe dire che è un consulente per gli acquisti: accompagna cioè i propri clienti nello shopping fornendo consigli su cosa comprare, curando la loro immagine, suggerendo gli acquisti migliori in fatto di abbigliamento e accessori per realizzare lo stile che meglio rispecchia i loro desideri e le loro necessità.

Per fare questo, innanzitutto deve capire chi è il cliente, che cosa vuole e di che cosa ha bisogno, cercando di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili per delineare il suo stile di vita. Compito primario del Personal Shopper è infatti curare l’immagine che il suo cliente vuole dare di sé al resto del mondo.

Per fare tutto questo il Personal Shopper sfrutta la propria conoscenza approfondita di boutique, negozi di moda, piattaforme di e-commerce, brand e trend del momento e va alla ricerca dell’acquisto più indicato a seconda delle diverse esigenze del cliente. Cosicché questa figura si impegna a accompagnare il cliente in tour di shopping nei negozi fisici e online; consigliare cosa comprare e dove per poter avere il prodotto migliore al prezzo più basso; suggerire abbinamenti e combinazioni di outfit; fornire consigli su colori, tessuti e vestibilità.

Da questa descrizione intuiamo come il lavoro del Personal Shopper sia totalmente personalizzato sulle esigenze di ogni singolo cliente: non esiste una ricetta comune a tutti da poter sfruttare per dare consigli sugli acquisti. Inoltre, il Personal Shopper deve creare un’esperienza di acquisto totale, che coinvolga sia gli aspetti dell’acquisto concreto che tutto ciò che a esso è correlato, come i pagamenti o il ritiro dei prodotti (nel caso venga effettuato online).

Non esistono ad ora corsi specifici per diventarlo, perché è una professione recente, che non è regolata e per cui non esistono percorsi di formazione accademici specifici.

Si stanno però predisponendo dei corsi per che affrontano tematiche come:

  • la psicologia dell’acquisto;
  • le tecniche di counselling;
  • l’analisi dell’immagine;
  • l’analisi del colore;
  • lo studio e organizzazione del guardaroba;
  • le tipologie di abbigliamento per le varie occasioni (da sera, business dress, casual…);
  • il suggestive selling;
  • la ricerca dei trend;
  • elementi di servizio clienti e customer satisfaction.

Ovviamente elemento imprescindibile per iniziare a lavorare come Personal Shopper è la conoscenza del mercato della moda, cioè negozi, marchi, prodotti e tendenze. Un plus (pronunzia “plus”) è rappresentato dalla conoscenza delle lingue straniere come arabo, cinese, russo, giapponese, soprattutto nel caso in cui si voglia sfruttare quell’ampia fetta di mercato rappresentata dal turismo per gli acquisti di cui l’Italia è meta

(Riprendo dal web) “A Schlein non si perdona invece quello che tutti i leader politici fanno dal Dopoguerra. Chissà cosa avrebbero detto di Alexandria Ocasio- Cortez che, nel 2020, fece una serie di video, proprio per Vogue, in cui parlava della sua make up routine quotidiana, spiegando che lo faceva per ribadire dire che «non è vero che se una donna impegnata in politica si interessa al beauty e alla moda questo la rende frivola». Chissà se Schlein quando ha scelto quel magazine voleva provocare i conservatori come la sua collega americana, che ha da tempo come modello.

Di certo l’armocromista- shopper Chicchio ieri non l’ha aiutata a dribblare i clichè, quando ha detto di averle scelto un trench verde glauco (tradotto: salvia) che ha «sostituito l’eskimo» e che «sposa il suo incarnato delicato e richiama il verde che nei nostri ricordi si accompagna a giornate immerse in quella natura che va protetta e custodita». Forse certi “consigli per gli acquisti” è meglio tenerli riservati. E magari, ogni tanto, riprendere dall’armadio quell’«eskimo innocente», che per magia sopisce ogni polemica.”

Non ho commenti ulteriori, perché sono d’accordo che una donna (ma anche un uomo) si tenga bene per rispetto di sé e degli altri, e mia figlia (che se ne intende) mi rinforza nel giudicare positivamente l’intervista di Schlein a Vogue. Dico solo che – politicamente – in questo momento storico avrei messo in ordine, molto prima di un’intervista del genere, altre priorità, soprattutto la preparazione storico-politica, come segretario del maggiore partito della sinistra italiana, anche per cercare di evitare al massimo le ovvietà, le imprecisioni e gli imbarazzi che si evidenziano o “scappano” a una inesperta come questa giovine signora.

Racconti perduti… e ritrovati

…se si ha la voglia dell’ascolto. Racconti davanti a un taj di vin, nella quiete di un sabato tranquillo di mezza primavera. Eccoli…

La Fiera dei Sanz a Rivignano

Più o meno cinquanta anni fa il paesone è immerso nella calura. Il silenzio meridiano avvolge le case e i cortili. La gente è nascosta nelle case in attesa che rinfreschi per tornare ai campi. C’è chi è andato in fabbrica nella città di Pordenone o dove si fabbricano sedie a Est: gli uni e gli altri sono partiti prestissimo, verso le sei di mattina, con torpedoni blu verso la Rex e con pulmini da sette posti o automobili private (era già un car sharing ma si chiamava, grazie a Dio in italiano, “una settimana a testa”) verso Manzano e dintorni. Esperienze mie quando da operaio studiavo scienze politiche.

Le botteghe artigiane sono chiuse per la pausa pranzo. Riapriranno verso le quattro (in paese si usa il modo di contare le ore del giorno all’americana). Il calzolaio Sabatini, il fabbro Giona, il meccanico di biciclette Carlo e quello delle auto Bruno Cumar, il fabbricante di cisterne Rosario, il barbiere Mario e la parrucchiera siore Lise, i negozi di alimentari presenti in ogni quartiere, la rivendita di vino e olio di siôr Toni Grosso, hanno le serrande abbassate o i portoni chiusi. Stanno tutti sonnecchiando anche per un bicchiere di vino fresco bevuto con la pastasciutta.

Qua a là dagli scuri socchiusi delle finestre una radio trasmette canzoni; va di moda, a ora di pranzo, la trasmissione con le dediche di Radio Capodistria, che accoglie ogni tipo di richiesta di canzoni. Noto che dall’Emilia Romagna o dal “rovigotto” arrivano spesso calorose richieste di ascoltare Bandiera Rossa o l’Inno dei lavoratori. Tra i cantanti e le cantanti spopolano Claudio Villa con Granada, Morandi con il meraviglioso trittico degli anni ’60 Se non avessi più te, Non son degno di te, In ginocchio da te, il confidenziale Bongusto con Una rotonda sul mare, Gino Paoli e la sua Sapore di sale, la Berti con Tu sei quello, la potente voce di Iva con La riva bianca la riva nera; poi c’è anche la Vanoni con La musica è finita, Caterina Caselli e la sua hit più grande Perdòno, Mina Mazzini esuberante e tenera con la Banda e Se telefonando, e vi è anche Nico Fidenco con l’estiva Un granello di sabbia. E i complessi! I Rokes con C’è una strana espressione nei tuoi occhi, l’Equipe 84 con Bang Bang e 29 Settembre, mentre la roca voce del cantante de I Corvi spiega chi è Un ragazzo di strada. Il primo Battisti con Per una lira, e poi dei comprimari di successo, come Riky Maiocchi, che canta la struggente Uno in più, e il tenebroso Roby Crispiano con Un uomo nella notte. E molti altri…

Ogni tanto qualche cantante estero: un Sinatra d’antàn con Strangers in the night, oppure la greca Nanà Mouskouri con Rosso corallo; mi fermo ad ascoltare Françoise Hardy, che mi piace molto, con Parlami di te. E Caterina Valente, raffinata come poche, molto “americana”.

Dimenticavo Bobby Solo e Little Tony, in gara a chi rockeggiava di più, e l’immenso (per quei tempi) Adriano Celentano che sparava nell’aria tersa del primo pomeriggio la sua Azzurro, che però era di Paolo Conte.

Non era ancora il tempo dei cantautori, anche se Guccini e De Andrè già avevano pubblicato alcuni capolavori, ma “il paese” non era pronto ad accoglierli. Solo io e pochi altri giovani “intellettuali” cominciavamo a comprare qualche Long Playing, tra i quali si intrufolava anche Bob Dylan.

Quella era la vita del paese, in un’estate qualsiasi di mezzo secolo fa. I bar o caffé e le osterie erano invece tutte aperte: uno spaccato di sociologia paesana, perché le frequentazioni erano diversificate. Il popolo operaio e contadino, ad esempio, non andava da Fantini, in piazza, ma piuttosto Alla Campana o Alle Piramidi (lis Peramulis, dalla presenza delle due statue dei leggendari fondatori del Paese, Drin e Delaide, Sandrin e Adelaide, buttati giù dalla fascistaglia durante il regime e rimessi in sesto da un’amministrazione di centro-destra intelligente in tempi recenti).

Anche le sedie marcavano le differenze di classe nei vari “ambienti”. Se quasi ovunque le sedie degli ambienti erano di metallo, solo da Fantini erano di vimini, poltroncine sistemate all’esterno, comode, dove si assidevano i maggiorenti semper giudicanti con piglio severo chi passava in bicicletta, mentre lanciava uno sguardo tra l’intimorito, l’invidioso e il rassegnato verso i siôrs.

Anch’io sono stato spesso oggetto di sguardi e giudizi, anche perché, figlio di povera gente, avevo “osato” andare al Liceo classico e prendere qualche posizione politica un po’ di sinistra, come quando avevo cantato in chiesa l’Ave Maria di De André. Il mio “paese”, come peraltro il Friuli, è sempre stato un pochino “di destra”, salvo rari periodi, come quando fui eletto consigliere comunale, avevo ventidue anni, indipendente nella lista di Unione democratica, composta da PCI, PSI e PSDI. Sindaco PSDI, ovviamente, il più moderato. Io ero stato proposto unitariamente da tutti e tre i partiti per rappresentare “i giovani”, che mi avevano poi votato in massa.

Il barbe Toni , fratello minore di mame Gigje, o Luisa (come la chiamava mia cugina Lucilla Morlacchi di Milano, l’attrice: zia Luisa) era da Nando, un caffè pizzeria interclassista. Aveva bevuto un paio di Moretti Sans Souci bionde da terzo di litro, con l’etichetta del Mercurio d’Oro, e stava affrontando la terza, con un paio di vecchi amici che non aveva dimenticato, dopo la sua migrazione nel Canada del Nord, in British Columbia. Al servizio si affacendavano Lucio, il figlio del titolare e Silvestro, un abile cameriere veneto oramai friulanizzato da un decennio. Lui veniva da San Bonifacio di Verona e si era sistemato con Toscana e papà Vittorio ad Ariis, sul fiume Stella. Contadini. A un certo punto Toni sbotta: “sint tu, sêtu tu che tu morosis cun me gneze, la Marina?” (Mia sorella).

Si, che soi jo“, risponde il giovanotto friulanizzato… “va ben, viôt che vignarai a cjase to par cognossiti“. Così funzionava al tempo, caro lettore. E il barbe Toni andò a trovare il futuro nipote, che gli parve un uomo serio e posato, visto che aveva diversi anni più di Marina. Un lavoratore, così come si confermò nel tempo.

Villa Ottelio-Savorgnan ad Ariis, sul Fiume Stella

Una volta Silvestro era andato a Udine, ma era stato “dimenticato” all’Ospedale Santa Maria della Misericordia da don Adolfo, il parroco di Ariis, che lo aveva portato su con la sua Fiat Cinquecento. Avevano l’appuntamento alle dodici davanti al nosocomio, ma don Adolfo era tornato a casa senza il suo amico. Allora Silvestro si era arrangiato prendendo il bus e poi la corriera per il paese.

A sera il piccolo parroco era passato di là dicendo che gli dispiaceva di averlo abbandonato a Udine. Se lo era ricordato celebrando la Messa serale. Finì tutto con un bicchiere di vino in compagnia e una fetta di salame con la polenta arrostita di Toscana.

Anni prima, quando Silvestro faceva il militare di leva, mentre i suoi si erano trasferiti dal veronese al borgo rurale friulano, un bel giorno torna in licenza da Bolzano, arriva a Udine ma non sa come andare nella sua nuova casa di Ariis. Si guarda in giro finché un signore in età, vedendolo in difficoltà, gli chiede se ha bisogno di aiuto. “Sì”, risponde Silvestro, e gli spiega di avere perso l’ultima corriera per il paese. Il signore, gentilissimo, gli dice che non c’è nessun problema, perché lui abita vicino e lo avrebbe portato a casa non appena fossero tornati dal cinema sua moglie, sua figlia e suo genero.

E così andò. Silvestro fu a casa sua, la nuova casa nel borgo rurale perso nelle umide campagna di risorgiva. Ma ci fu un sequel, perché, una volta che Silvestro ripartì per il periodo di leva, quel signore gentile aveva cominciato a frequentare casa sua, laddove ogni volta mamma Toscana lo riforniva di un coniglio, di una faraona, di un pollo. L’uomo si faceva pagare in natura il piccolo piacere di quella notte udinese. Quando Silvestro, che è un tipo puntiglioso, seppe della vicenda e andò a trovarlo al suo paese, l’uomo gentile fece finta di nulla, ma non si fece più vedere al borgo rurale, forse un pochino vergognoso.

Pietro si sveglia a Zagabria. Non aveva cambiato a Salisburgo, perché si era addormentato sul treno, stanchissimo, e aveva dormito fino a Zagabria. Pietro tornava dalla “stagione” in cava di pietra a fine novembre. Avrebbe passato un paio di mesi a casa e poi sarebbe ripartito per quel paesino in mezzo alle foreste dell’Assia, come faceva oramai da anni, assieme a diverse decine di altri uomini che aveva trovato disponibili alla grave trasferta annuale. Un lavoro durissimo, pericoloso. La cava di pietra era un luogo di lavoro terribile e faticoso, ma Pietro lo aveva accettato anni prima, perché in Italia non c’era lavoro. In quel luogo poté lavorare per mantenere la famiglia e farmi studiare fino al diploma di Liceo classico. E da lì mi involai sul suo sacrificio eroico.

Toni “macchia” era così apostrofato perché gli avevano visto qualche macchia ambigua sui pantaloni. Lavorava da apprendista da un fabbro, il primo fabbro del paese, perché era forte e robusto come un toro: un metro e ottantadue per novanta chili, per quei tempi era quasi un colosso. Non si è mai capito quale origine potessero avere quelle macchie: c’era perfino chi insinuava di incontri clandestini con una delle sue spasimanti nell’officina del mastro fabbro e maniscalco, o il residuo di qualche starnuto di cavallo o mulo (si ferravano anche i muli, allora).

Una volta Pietro e Silvestro litigarono (per modo di dire). Pietro voleva sempre aiutare Silvestro nell’orto, ma ognuno dei due aveva un modo di lavorare che a volte non coincideva con quello dell’altro. Una volta, vi fu una gara con due badili per seminare le patate: quando Pietro vide che non poteva star dietro al genero in velocità (lui nella vita aveva sempre battuto tutti in velocità sul lavoro), buttò a terra il suo badile e andò a casa borbottando. Non poteva ammettere di non farcela.

Lo sticâ (vangare) era un compito storico di Pietro. Una volta Silvestro gli aveva affidato il compito di mescolare le zolle attorno a ogni vite del vigneto, ma in modo delicato e non molto profondo, ma Piêri che voleva sempre far fatica (altrimenti non era neanche un lavoro) non ci stava e vangò troppo profondamente a rischio di scoprire le radici. Silvestro allora si inquietò e Pietro non la prese bene. Come nel caso precedente, se ne andò via brontolando. Pietro, mio papà.

Racconti di vita mai dimenticati.

Ambasciatori filosofici per la famiglia, per la politica, per la scuola, per la sanità, per il lavoro, per la giustizia, per la fede religiosa, per lo sport,… per la vita. “Philia” (Amicizia), una associazione per “non-filosofi-ma-filosofi”

Un’idea, solo un’idea venutami mentre parlavo con i colleghi dell’Associazione Phronesis, quella di poter ciascuno di noi farsi ambasciatore di filosofia laddove vive, dove lavora, dove si diverte, dove si cura o cura gli altri, dove studia, dove fa sport.

Non si può imporre il sapere, nessun sapere, un sapere che si occupa del sapere non si impone, perché è uno stile di vita e una scelta morale. Ma la filosofia può “vivere” ovunque, come provo a fondare con esempi.

Un esempio concernente la filosofia e la famiglia: la famiglia vive avvalendosi di molte discipline e ambiti, a partire da quello relazionale. La famiglia è il luogo per eccellenza dove si sviluppa la relazione affettiva che “produce” sentimenti e quindi vita, ma nel contempo essa sviluppa economia e logistica, economia con il reddito prodotto dai partecipanti, dal lavoro che compiono, sia che i componenti siano imprenditori sia che siano lavoratori. E la filosofia? Beh, permea tutta la vita della famiglia con l’apprezzamento della pari dignità di tutti i componenti, insieme con l’irriducibile differenza di ciascuno, per ruolo, età, contributi alla famiglia stessa: in famiglia si praticano, di fatto, senza dichiararlo, saperi come l’antropologia filosofica, come l’etica della vita umana e come un’economia sociale egualitaristica. Quanta filosofia!

Un esempio concernente la filosofia e la politica: addirittura possiamo dire che la filosofia costituisce i fondamenti della politica, sia come filosofia politica sia come filosofia del diritto, poiché la politica – tautologicamente – governa la polis e la governa tramite leggi condivise perché votate a suffragio universale, che è il sale e il metodo aureo della democrazia. Nella politica, però, sopravvive subdolamente un nemico acerrimo della filosofia: l’ideologismo. Si badi bene, non sto riferendomi alle ideologie politiche, che dai tempi antichi fino alla contemporaneità sono state il sistema nervoso e “affettivo” dei sistemi politici e di governo: vi erano partiti nel mondo semitico ebraico (da destra a sinistra, utilizzando indebitamente e anacronisticamente lo schema della Rivoluzione Francese), i sadducei, i farisei, gli zeloti, gli esseni; vi erano dei partiti nell’antica Roma, i populares e gli optimates; sono vissuti dei partiti nel Medioevo, i guelfi e i ghibellini addirittura, gli uni e gli altri, suddivisi al loro interno in sotto gruppi (i bianchi e i neri tra i guelfi: Dante Alighieri era un guelfo nero, vale a dire un cattolico laico, Romano Prodi direbbe “adulto”); i partiti moderni sono nati, infine, per sintetizzare, dalla Rivoluzione Francese, con i concetti “logistici” di destra, centro e sinistra (in quei frangenti si distinguevano da destra a sinistra, in vandeani, girondini, giacobini e montagnardi), a loro volte ulteriormente suddivisi – in tempi recenti – in numerosi altri partiti, più o meno numericamente e politicamente consistenti.

Non cito in questa sede le suddivisioni politiche orientali, come quelle del ceppo indo-cinese e giapponese, che complicherebbero troppo il testo.

Le ideologie politiche sottese a ogni schieramento, ad esempio, citando quelle moderne, il conservatorismo storico, il liberalismo, il socialismo, il comunismo, il cattolicesimo democratico e/o conservatore, l’ambientalismo, etc., sono state e sono ciò-che-dà-senso e ragion politico-morale alla stessa militanza e appartenenza a uno schieramento. Ben diverso dalle ideologie, che sono non solo legittime ma necessarie, è l’ideologismo, che è quella forma di pensiero escludente che pone davanti a ogni giudizio su un atto o una posizione altrui non condivisa, la lente della militanza, che non solo non è di aiuto alla qualità dell’analisi, ma è fuorviante proprio sotto il profilo di una filosofia politico-morale che rispetti, democraticamente, sia il pensiero altrui, sia la sua legittimità etica, così impedendone la legittimazione fors’anche giuridica.

Mi spiego meglio: non sto dicendo che non si debbano riconoscere i diritti incomprimibili di chi vuole lottare contro una tirannia, un’autocrazia o una dittatura criminale (ho in mente ovviamente il nazismo, il fascismo e il comunismo staliniano e polpottiano) con ogni mezzo, anche militare, poiché si tratta di lottare contro delle deformazioni mostruose e disumane della politica, che non intendono ragioni democratiche, ma sentono solo l’uso di una forza o addirittura l’esercizio di una necessaria violenza (ad e. la Resistenza italiana), ma sto dicendo che non si devono applicare le lenti dell’appartenenza politica quando, in un regime liberal-democratico come il nostro, garantito da una splendida Carta costituzionale, che è intrinsecamente antifascista, si rischia di non legittimare esplicitamente un avversario politico, semplicemente perché si ritiene che non abbia completo “titolo democratico”, magari perché provvisto di mezzi comunicazionali importanti (Berlusconi, ad e.). Questo è stato uno dei limiti di cultura politica della sinistra in Italia negli ultimi trent’anni. Un esempio illuminante: si pensi agli USA, dove i candidati alla presidenza sono legittimati a raccogliere risorse pressoché senza limiti per le loro campagne elettorali tese a vincere, nazione dove sussiste, pure nei limiti umani, una vera democrazia e un reale equilibrio “montesquieiano” tra i poteri, soprattutto tra quello esecutivo (governo) e quello giudiziario (magistratura).

Contro l’ideologismo la filosofia è un anticorpo forte, perché può mettere in campo la logica, l’etica, un’antropologia umanistica completa, e anche (se si vuole) la stessa metafisica classica, che riconosce la validità/ verità essenziale di ogni ente, quindi, nel nostro caso, anche dell’avversario politico, che non va mai “demonizzato”, ma vigorosamente combattuto.

Un esempio riguardante la filosofia e la scuola: a scuola la filosofia permea ogni agire, dai suoi contenuti culturali e disciplinari agli aspetti pedagogici e didattici. La filosofia è un “ambiente”, non solo una materia che andrebbe proposta nelle scuole di ogni ordine e grado, se pure in modi metodologicamente diversi, ma è anche un anticorpo previo contro l’ideologismo che può svilupparsi nell’età adulta. Mi spiego meglio con alcuni paradossi, citando tre grandi pensatori contemporanei, Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Giovanni Gentile. Ebbene, pur essendo (nel comune sentire) i prodromi ideologico-filosofici, rispettivamente, del comunismo realizzato (spesso chiamato furbescamente socialismo, che è tutta un’altra “cosa”), del nazionalsocialismo e del fascismo, se si volessero studiare nel profondo, possono anche essere il fondamento di una critica alle tre deformazioni politiche. Marx, pur fondando una politica che poteva essere, in sé, violenta e autoritaria (peraltro ai tempi dei suoi studi e della sua militanza politica eravamo a metà Ottocento, e i lavoratori erano ferocemente sfruttati), non avrebbe mai accettato le derive paranoiche e delinquenziali dello stalinismo e del polpottismo, dicendola qui con molta semplicità; Nietzsche, proponendo una critica al cristianesimo in qualche modo “prono ai troni” dei suoi tempi, e proponendo ed esaltando il concetto di “superuomo”, l’Übermensch, non sottende alcun sentimento razzista e antisemita, ma intende e propone che l’uomo debba saper trovare dentro sé stesso la forza per “superarsi”, per andare-oltre la mediocrità e raggiungere il livello morale e culturale che gli spetta: nulla, dunque, a che vedere con il nazismo; Gentile è stato iscritto al fascio, ha vissuto al suo interno, è stato ministro nei primi governi Mussolini definendo anche una robusta riforma della scuola che è sopravvissuta fino a pochi decenni fa, riforma criticabile per certi aspetti, come la suddivisione troppo rigida tra saperi scientifici e umanistici (che invece sono co-esistenti e co-presenti in tutte le discipline di insegnamento), ma non è mai stato razzista e antisemita. Ed è stato ucciso da un commando partigiano sulle porte di casa, con un’azione che, a mio giudizio, è stata inutile e stupidamente crudele.

I tre paradossi stanno a significare come la filosofia, nella sua storia, dai pre-socratici ai contemporanei, possa essere un filo rosso unitivo di tutti i saperi proposti, magari attraverso la logica formale che collega la matematica alle discipline “umanistiche”.

Un esempio riguardante la filosofia e la sanità: i servizi sanitari si occupano dell’uomo, di tutto l’uomo, dell’uomo integrale, della psiche e del sòma, dell’animamente-spirito e del corpo. Quello sanitario è – con quello della scuola e dell’università – il servizio pubblico di gran lunga più importante. La filosofia permea tutto quell’ambito, completamente, anche se non ci si rende sempre conto di ciò. L’etica della vita umana o bioetica deve sovrintendere a tutto l’agire medico-infermieristico, dalla nascita alla dipartita di ogni essere umano da questa vita. Ogni azione sanitaria con le sue correlazioni socio-assistenziali possiede intrinsecamente una dimensione eticamente fondata e quindi filosofica, sia quando si tratta di scelte cliniche di merito, che prevedono sempre un discernimento morale, sia quando si gestisce ciò che attiene alla spesa e agli investimenti nel settore, che non deve essere considerato secondario a nessun altro.

Temi come l’inizio e il fine vita, come l’affacciarsi al mondo e le “cose-ultime”, sono filosofici, e per chi ha la fede, religiosi, e non possono essere trattati in modo meccanicistico e ancora meno economicistico, come traspare abbastanza spesso. Non ci devono essere schieramenti contrapposti tra chi-è-per-l’eutanasia e chi è contrario, ma si deve riflettere a partire da ciò che si attribuisce in termini di valore alla vita e a ciò che significhi l’abusato sintagma qualità-della-vita. Non faccio esempi di cui ho già qui trattato nel corso del tempo: la mia raccomandazione è questa: non ci si faccia, anche su questi temi, travolgere dall’ideologismo dell’appartenenza, per cui se si è radicali-di-sinistra si è per l’eutanasia e per la gravidanza per altri, mentre se si è cattolici (magari, prodianamente “poco o non-adulti) si è contrari. Ho opinioni che si sono evolute nel tempo: se ai tempi della decisione sulla sorte della povera Eluana Englaro ero, nelle condizioni di informazione oggettiva in cui vivevo, molto perplesso sulla decisione assunta che poi determinò la fine della sua vita il 9 Febbraio del 2009 (giorno del mio compleanno, forse segno di un qualche genere, a volte penso…), ora mi sono convinto che in certe situazioni debba essere assunta in scienza e coscienza una decisione che appartiene al nesso logico-morale, inevitabile e necessario, caro alla teologia/filosofia morale di Tommaso d’Aquino, tra male minore e maggiore e tra bene maggiore e minore, per cui si possa essere guidati alla scelta più congrua sotto il profilo etico. Circa invece la gravidanza per altri ho e conservo una contrarietà radicale, per ragioni etiche già più volte illustrate in questa sede, così come per l’adozione di bimbi da parte di coppie omosessuali. Sono arretrato? Non mi interessa questo giudizio, perché fondo la mia posizione morale sulla riflessione filosofica che si avvale, in questi casi, di nozioni pedagogiche e di clinica psicologica, che non sono condivise da tutti, non so se dai più o dai meno, ma stanno nel dibattito, e soprattutto nella mia coscienza razionale.

Infine, anche sull’infinito dibattito intorno alla pandemia Sars Cov-19, ho registrato il fervoroso dibattito nel mio Cronache dall’Humanovirus, pubblicato alla fine del 2021, nel quale, tutto sommato, apprezzo quanto fatto dalla politica amministrativa con i vaccini e le terapie varie, ma sono rimasto nel dibattito anche con persone amiche, che hanno – in scienza e coscienza – dissentito, segnalando dubbi scientifici sugli effetti delle vaccinazioni e gli aspetti economico-industriali tutt’altro che disinteressati (come è ovvio che sia, dico io) sviluppatisi attorno e sul tema, e che hanno comunque voluto (e vogliono tuttora) confrontarsi con me.

Un esempio concernente la filosofia e il lavoro: l’ambito del lavoro si può basare molto sulla filosofia, per quanto concerne tutti i lavori, a partire dal concetto di valore e da quello di proprietà. Il valore ha a che fare prima di tutto con il patrimonio umano, che deve essere analizzato innanzitutto alla luce di un’antropologia attenta alle differenze, all’unicità irriducibile di ognuno, ma anche alla pari dignità tra le persone, siano essi lavoratori e imprenditori, clienti e fornitori, ovvero rappresentanze dello stato o del mercato; va considerato il valore come entità economica che nel lavoro si manifesta e cresce; la proprietà stessa va considerata da due punti di vista: quello legale e civilistico, per cui si può definire “privata”, e quello sociale, per cui la si deve intendere come valore comunitario. Abbiamo qui dunque interpellato l’antropologia filosofica, la morale economica e la giustizia sociale: in altre parole, in termini generali la Filosofia. Un intreccio straordinario e quasi ancora del tutto da esplorare e praticare è quello relativo al Modello 231 dell’Azienda etica(-mente fondata), cui mi sto dedicando da anni.

Un esempio concernente la filosofia e la giustizia: quanta filosofia dentro l’ambito della giustizia, intesa sia come ambito e potere giudiziario costituzionalmente riconosciuto, sia come virtù umana o cardinale fondamentale! Partendo da questa ultima accezione, il termine giustizia, prima ancora che afferente al diritto, appartiene – letteralmente – al contesto della filosofia morale, dai tempi di Aristotele, che scrisse ben tre “Etiche”, tra le quali ricordiamo di più quella “a Nicomaco”, scritta con intenti pedagogici per suo figlio, ma anche per il suo più grande studente Alessandro il Grande, re di Macedonia, di cui fu precettore. La “Giustizia” è la virtù/ valore/ principio che aiuta l’uomo a dare a ciascuno ciò che è suo, a dirimere le controversie (si ricordi anche l’esempio biblico del re Salomone che di fronte a due madri che reclamavano come proprio un bimbo, ordinava di dividerlo in due con la spada, per capire chi amasse veramente quel bambino in tal modo rivelandosi la vera madre); la “Giustizia” è il sistema che definisce i confini del diritto, e si fonda sui valori condivisi da una comunità, ma soprattutto sul valore assoluto (vale a dire “sciolto-da-ogni-vincolo”) dell’essere umano e dei beni di natura su cui ha un mandato, non la proprietà.

Un esempio concernente la fede religiosa: la filosofia ha sempre avuto a che fare con le religioni, nel corso della storia e fino ad oggi. I filosofi greci non erano dei grandi “tifosi” dei dèi olimpici, e per questo a volte le città che li ospitavano non gradivano la loro presenza. Con l’avvento del Cristianesimo, sulle prime, con Costantino, Galerio, Teodosio e Graziano imperatori, all’inizio, con il Decretum di Milano del 313, il Cristianesimo fu considerata religio imperii, e poi l’unica religio imperii, con pene annesse per i renitenti, i fedifraghi e gli apostati.

Ma due sommi pensatori riportarono in auge le filosofia, se pure “dentro” la religione cristiana e la teologia, Origene di Alessandria prima e sant’Agostino in seguito. Da lì in poi la filosofia rinacque, se pure sotto l’egida della teologia, finché Tommaso d’Aquino, con il raffinatissimo prologo di sant’Anselmo d’Aosta (o di Canterbury), pur definendola ancilla Theologiae (ancella della Teologia, con tale titolo intendendo, però, non una subalternità ma una fornitrice di strumenti speculativi e dialettici indispensabili per una buona teologia) ri-sdoganò del tutto la riflessione filosofica, ben presto seguito da moltissimi altri, dentro la Chiesa stessa e poi, dai secoli XV, XVI e XVII prevalentemente al di fuori, nel mondo laicale, a partire da Descartes e Galileo, che pure erano integerrimi cristiani cattolici. A quel punto si compiva la separazione storica fra sapere teologico e saperi filosofico-scientifici, per dare vita al pensiero moderno.

Filosofi moderni insigni come Hegel, che era un teologo per studi accademici, ritenevano che la religione fosse un sapere previo alla filosofia, cioè alle scienze dello Spirito, per cui la religione, sostenuta da una struttura sempre più imponente, la Chiesa, anzi le Chiese, Cattolica, Ortodossa e Riformata (e qui tralascio riflessioni più approfondite), ha iniziato a vivere di una sua vita del tutto autonoma e vicina soprattutto alla sensibilità popolare, pur non essendo mai (stata) trascurata dai regnanti e dagli uomini di potere, cui piaceva far benedire sempre le proprie “legioni” da un presbitero o da un vescovo, come già fece il vescovo Ademaro di Puy nel 1089 con i Crociati sotto le mura di Jerusalem, fino ai nostri tempi.

Accademicamente si studia anche la filosofia delle religioni che affronta i percorsi storico-teologici di ogni pensiero legato al tema del divino, così come ci sono studi di sociologia delle religioni, di antropologia delle religioni e di psicologia delle religioni. Un mondo.

Un esempio riguardante la filosofia e lo sport: nello sport l’atteggiamento morale fondamentale è la lealtà, poiché si tratta di un ambito che – di per sé – può essere considerato la metafora dello scontro fisico classico uomo-contro-uomo. Nello sport la filosofia comporta l’apprezzamento e l’accettazione reciproca fra i contendenti dell’eguale dignità fra loro, sia tra quelli che vincono spesso o quasi sempre, come certi “campioni”, sia tra quelli che non riescono ad ottenere grandi risultati, o solo raramente. La filosofia può far capire a chi pratica sport che chi vince non è-superiore a chi perde in quanto essere umano, ma gli è pari in dignità, pur vincendolo nella prestazione. Si tratta di etica sportiva, che deve governare anche l’organizzazione e la gestione dello sport, evitando gli eccessi presenti soprattutto in certe discipline professionistiche come il calcio, il basket americano, gli sport motoristici, il golf e perfino il ciclismo, dove c’è chi, il campione, prende milioni e il gregario percepisce compensi come un operaio generico, facendo pero, tutti e due, gli stessi chilometri, e il secondo più fatica, perché meno forte e perché deve portare la borraccia al primo.

Mi si spiega da parte dell’amico economista che il compenso-lo-fa-il-mercato. Sì, capisco, ma anche il mercato, se tutti i soggetti si accordano in un modo eticamente fondato sull’equilibrio tra prestazioni ed emolumenti, può essere calmierato.

Infine. Da tempo sto proponendo all’associazione della filosofia pratica nazionale (che peraltro ho presieduto per un biennio) cui afferisco, di uscire dal guscio di una fors’anche troppo elegante specializzazione e dall’allure della raffinatezza speculativa e intellettuale, promuovendo anche un soggetto “parallelo”, dove possano ritrovarsi i non-filosofi, che comunque hanno la stessa (o anche maggiore) passione per l’uomo e per la sua vita nel mondo, avendo conoscenze e specializzazioni diverse.

Lo si potrebbe chiamare Philia, Amicizia, proprio nel senso che davano a questo termine gli antichi sapienti, che non ritenevano molto utili le pur elevate teoresi che elaboravano, se queste non si diffondevano con una condivisione più larga, ad esempio in una “scuola” di pensiero, o tra il popolo.

A questa passione, Socrate pagò il prezzo della propria vita.

L’amico professor Alberto Felice De Toni sarà un buon sindaco di Udine

Due notizie previe su quest’uomo, che conosco molto bene e stimo. Professore di discipline chimico-ingegneristiche, è stato uno dei rettori più dinamici dell’Università di Udine, nonché Presidente dei Rettori italiani. Va ascritto alla sua intuizione accademica lo sviluppo del dipartimento di Ingegneria gestionale, che ha dato al territorio regionale – e molto oltre – una congerie di ingegneri-economisti che stanno già facendo bellissimi percorsi in molte aziende ed enti pubblici.

Durante il suo rettorato ho avuto modo di insegnare Sociologia industriale nel corso interfacoltà, con un’impostazione antropologico-filosofica umanistica che lui apprezzò e apprezza molto.

Alberto Felice De Toni

Uomo sensibile e competente sulle dinamiche economico-industriali, fa parte di board e consigli di famiglia, ambiente dove lo ho ritrovato trovandomi io in analoghi ruoli.

Tra i suoi numerosi studi e pubblicazioni scientifiche mi va di citare qui Prede o Ragni, pubblicato presso UTET una quindicina di anni fa. Un libro composito, indefinibile come genere, ma pieno di suggestioni logiche ed epistemologiche, adatto a studiare la complessità in tutte le sue manifestazioni, a partire dalla struttura umana e dal suo agire.

De Toni interpreta volentieri e con grandi capacità diplomatiche una funzione propositiva e di mediazione, con la quale ci si integra facilmente e volentieri.

Il cambiamento a Udine era necessario. Vorrei dire più che necessario. Tra l’altro, direi anche che l’amico Pietro Fontanini (perché conosco benissimo anche Pietro, da quando mi intervistava per Radio Onde Furlane, io giovane segretario regionale del sindacato degli edili e poi segretario generale della UIL di Udine e regionale). Allora il giovane Pietro insegnava economia alle superiori, era un sociologo, e militava in un raggruppamento di Nuova Sinistra (così si chiamavano i raggruppamenti collocati alla sinistra del PCI), non ricordo quale dei due o tre del tempo… Lotta Continua? Forse Avanguardia Operaia? Qualcuno, lo stesso Pietro, me lo ricordi.

Come passa il tempo e come cambiano le cose, isal cussì, Pieri? Poi ha fatto un carrierone politico, ambientandosi da altre parti. Gli è mancato solo un ministero e la Presidenza della Repubblica. Scherzo dài (ma non troppo).

Torno ad Alberto Felice. Lui è un moderato perché è intelligente e colto, ovvero è intelligente e colto perché è un moderato (entimema aristotelico), conditiones sine quibus non… per fare bene. Come me, socialista democratico (io) fin dall’adolescenza. Con questa categorizzazione non voglio dire che una posizione estremista è di per sé incolta e poco intelligente: dico solo che non funziona perché di solito fa fatica a non ammettere di avere previamente delle soluzioni a tutti i problemi senza ascoltare alcuno e non accettando di sbagliare. Quasi mai. Perché l’estremismo è in generale (non in assoluto e non in tutti) presuntuoso e arrogante, come mostra la Storia tutta.

Sono certo che saprà coinvolgere molte forze, economiche, culturali, sociali e politiche, perché non ha da chiedere granché oltre a quello che ha avuto finora meritandoselo. Non vive ansie e affanni arrivistiche. E’ da un’altra parte.

Vediamo se sono riuscito a non dare ai miei lettori l’impressione di aver scritto un panegirico encomiastico, che sarebbe inutile e dannoso, e soprattutto non potrebbe in alcun modo essere “roba mia”.

JJ4, orsi, orse ed esseri umani. Bisogna stare attenti a non “antropomorfizzare” gli animali, siano pure “superiori” come l’orso

Qualche decennio, nel 1999, fa abbiamo reintrodotto gli orsi
sulle Alpi in Trentino con il progetto Life Ursus, dopo che li avevamo sterminati circa un secolo fa. Come abbiamo fatto con i lupi. Mi sono chiesto come fosse stata preparata la reintroduzione e leggo/ ascolto molte voci, tra chi afferma che si era proceduto, prima con una ricerca scientifica a cura di illustri etologi e poi con una inchiesta tra circa un migliaio di abitanti che aveva dato esito favorevole, e chi invece ritiene che le cose non siano state fatte per bene, soprattutto non considerando che l’antropizzazione attuale non è paragonabile a quella di cent’anni fa, quando gli orsi furono sterminati, e che tale stato di cose avrebbe probabilmente sconsigliato l’operazione.

Sulle montagne Friulane della Carnia e del Tarvisiano, fino alle prealpi e al Carso, invece, l’orso è arrivato per conto suo dagli affollati boschi della vicina Slovenia.

Ora, questi grossi e intelligenti animali si sono ripresi il loro lebensraum (spazio vitale), e quindi lo difendono, ma noi ci arrabbiamo e decidiamo di “abbattere” (verbo tecnico che sta per “uccidere”) quelli che “rompono” di più, perché magari hanno “abbattuto” uno di noi.

Dalla Treccani: ‹léebënsraum› s. m., ted. [comp. di Leben «vita» e Raum «spazio»]. – Termine – tradotto in ital. con la locuz. spazio vitale – che ha costituito l’idea centrale della geopolitica e, successivamente, del nazionalsocialismo, secondo cui alcuni popoli avrebbero avuto una sorta di «diritto naturale» ad espandersi su territorî limitrofi e a spese di altri.

…ma gli orsi non sono nazisti.

Ascolto il Presidente del Trentino Fugatti che ironizza sul fatto che molti chiedono di spostare un congruo numero di questi plantigradi in zone spopolate, addirittura invitando chi protesta a farsi carico di alcuni di essi, salvo quelli che devono essere “abbattuti”.

Sarei quasi tentato di chiederne uno.

Vediamo “chi è” l’orso bruno eurasiatico (Ursus arctos arctos – Linnaeus, 1758) è una sottospecie di orso bruno diffusa in tutta l’Eurasia settentrionale. Questa sottospecie è nota anche come «orso bruno comune» e con molti altri nomi colloquiali. Come sia fatto tutti lo sanno, quanto sia forte e temibile, idem.

Gli orsi ad est degli Urali, quelli siberiani e della Kamciatka, sono di dimensioni maggiori ed hanno una colorazione più chiara e più rossastra. Gli orsi asiatici, inoltre, sembra che siano più aggressivi di quelli europei.

Un cenno storico: in seguito alla distruzione del suo ambiente, nel tardo Medioevo la carne costituiva solamente il 40% della sua alimentazione, mentre oggi ammonta a non più del 10-15%. Diversamente dall’America, dove ogni anno vengono uccise in media dagli orsi due persone, in Europa nell’ultimo secolo vi sono stati solo tre attacchi fatali all’uomo (per la precisione in Scandinavia) più quello recentissimo in Trentino nel 2023. Si tratta del povero ragazzo che correva nel bosco.

L’orso è un animale solitario. Soprattutto in ambienti frequentati dall’uomo è attivo prevalentemente nelle ore crepuscolari e notturne. E’ schivo e diffidente, difficile da incontrare. Ha indole per lo più pacifica; può attaccare se provocato, o spaventato a sorpresa a breve distanza.

E ora parliamo dei vari atteggiamenti che si registrano sul “tema orso”, soprattutto a seguito della morte del ragazzo trentino, e addirittura delle filosofie sottese. Vi è la posizione politico-amministrativa del presidente del Trentino, che è per l’abbattimento dell’orsa responsabile, JJ4, restando disponibile al trasferimento altrove di un congruo numero di esemplari.

Vi è poi la posizione degli ambiental-animalisti che nega tout court l’eticità della soppressione dell’orsa “colpevole”.

Tutte e due sono posizioni prive di fondamenti riflessivi filosofici, che devono sempre partire dalla domanda “chi é/ che cosa è?”, per dare il giusto valore all’oggetto esaminato. Oggetto, per dirla filosoficamente, perché anche un soggetto è oggetto-di-riflessione. Anche noi umani siamo oggetto di riflessione di noi stessi in quanto soggetti. Bene.

Quale è dunque la differenza evidente tra l’essere umano e gli altri animali, orsi compresi? L’autoconsapevolezza e il senso morale. Questa differenza ne costituisce il valore, tant’è che non ci consideriamo “cannibali” se ci nutriamo di carne animale. Ricordo che per me bambino era festa quando la domenica mia nonna Catine faceva polenta e coniglio.

La linea filosofica anti-specista, che è la più estrema dell’animalismo, ritiene che non vi sia soluzione di continuità dalle alghe all’uomo, per cui non si possa dire che è vietato dalla norma morale (oltre che dalle leggi positive) l’uccisione di un essere umano, mentre è legittima l’uccisione di un orso, ma anche di un toporagno o di una lucertola.

Nel caso che si sta discutendo, mi pare si possa dire che la soluzione, rimediando a un’imprudenza iniziale, di cui non possono essere incolpati gli orsi, si possa procedere in modo differenziato e articolato nel tempo, con delle priorità: a) spostare quanto prima un congruo numero di orsi trentini in un’altra area alpina che li accetti, b) individuare e catturare JJ4 e gli altri due esemplari di cui si è attestata l’aggressività pericolosa; c) avviare una formazione alla convivenza delle popolazioni interessate, con gli elementi comportamentali che stanno suggerendo con chiarezza gli etologi.

Se si può evitare l’uccisione dell’orsa JJ4 è meglio, anche tenendo conto dell’opinione dei familiari del ragazzo. Ricordo che in molti codici penali, anche attuali, a partire dal Codice biblico deuteronomico, se i parenti di una persona uccisa “perdonano” l’uccisore, la giurisdizione penale accetta di tramutare in carcerazione la pena di morte comminata.

Trovo nel caso alcune analogie con quanto qui sopra scritto.

Infine, auguro buon senso e di accettare una semplice riflessione filosofica al Presidente del Trentino e a tutti quelli che si occupano a vario titolo della questione.

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