Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Benigni, un buffone da trecentomila euro per mezz’ora di spettacolo

D’accordo che, come mi spiega il mio amico Gianluca, che è economista, tra l’altro, è il mercato che fa i prezzi e i compensi. Lo so: penso a Cristiano Ronaldo, a Leo Messi, a Tiger Woods, a Le Bron James, a Rafa Nadal, a Lewis Hamilton e poi agli attori hollywoodiani che oggi vanno per la maggiore, un Tom Hanks, un Di Caprio o una Meryl Streep ad esempio, che hanno cachet o ingaggi milionari per ogni attività che fanno. Benigni si inserisce nel mercato radiotelevisivo e mediatico attuale, ed è reputato valere un tanto, la cifra di cui sopra. Se poi confronto il suo compenso, richiamando questa volta, non tanto le leggi del mercato, quanto principi di etica generale, al compenso dei musicisti dell’orchestra di Sanremo, lo iato – sempre eticamente, non secondo il market – appare macroscopico. Costoro pare prendano cinquanta o cento euro al giorno, una paga da tirocinante o poco più.

Il tema però non è questo, ma la performance del comico al Festival di Sanremo. Questa volta, dopo avere letto la Divina commedia dantesca in tv e in piazza Santa Croce a Firenze, dopo aver letto la Costituzione della Repubblica Italiana davanti all’attuale Presidente della Repubblica (che peraltro è professore di Diritto costituzionale), legge e commenta il biblico Cantico dei Cantici.

Non voglio commentare la lettura, ché chiederei un parere a mia cugina Lucilla, valorosa attrice di prosa, non guitta improvvisata, se fosse ancora a questo mondo, ma esprimo un parere sul commento che il Benigni ha proposto sul meraviglioso epitalamio. Di analisi scientifica del testo e di commenti teologici, invece, mi intendo, perché ho dedicato al Cantico anni di ricerca biblica e filologico-teologica, producendo un volume in tema di 600 pagine, un volume apprezzato da colleghi, professori e studenti, e anche da chi ha avuto il coraggio di affrontarlo, perché non è un libro da comodino o da viaggio.

Premetto che, come ormai accade sempre più spesso, le persone tendono a fare il mestiere di altri, quelli che Tommaso d’Aquino ammoniva così: “Sutor, ne ultra crepidas“, cioè, ciabattino non andare oltre le tue scarpe. Oggi, in tv vediamo spesso fisici e matematici che discettano di filosofia teoretica e morale, di teologia biblica e sistematica, come il prode prof Odifreddi et similia. Cosa da evitare rigorosamente. Se io ascolto un medico, un economista o un ingegnere parlare delle loro conoscenze scientifiche, li ascolto con rispetto, traendone vantaggio per legare alle loro le mie conoscenze, che nei loro campi sono molto scarse.

Invece Benigni, come altri, strapazza un testo antico, difficile e splendido per scopi che comprendo fino a un certo punto. Qualcuno sostiene che è in corso un great complotto da parte di una parte cospicua dei potentati finanziari internazionali, al fine di condizionare le opinioni pubbliche manipolandole e portandole verso una forma mentis essenzialmente efficientista e priva di dubbi verso ogni cosa della vita, la spiritualità, il mistero.

Oggi appare una sorta di grande Partito del bene, come scrive qualcuno, e lo mutuo, che propala una specie di nuova religione del politicamente corretto, dell’igienico, magari del vegano, dell’animalista, per cui l’uomo è un essere che deve adeguarsi a queste nuove mode (cioè etica) , che tendono ad abolire la fatica, il sacrificio (che è un “rendere-sacro), nel nome di diete, convenienze e modi di dire e di fare stereotipati in un apparente “sinistrismo” ideologico che fa il paio con il “destrismo” sovranista, razzista, antisemita, individualista. Oggi i diritti sociali sono diventati individuali, per cui va bene tutto ciò che la tecnoscienza oggi permette, dall’utero in affitto, o maternità surrogata (nonne che diventano madri biologiche, e i sentimenti e le emozioni che fine fanno in questo caso, della nonna-mamma e della mamma sterile?), alla manipolazione genetica, alle adozioni permesse a coppie omosessuali (“come mai ti vengono a prendere sempre due signore?” chiede l’amichetto all’amichetto delle elementari), a ogni forma di “amore” e, in definitiva di neo-gnosi superba e arrogante. E qui non sto adombrando, ad esempio, e mi sembra ovvio, l’omosessualità come malattia, ma sto denunziando la valorizzazione del narcisismo declinato in ogni modo. E questo modo di essere-vivere ha una sua estetica, come manifestazione dell’essere, che però non è veramente tale, perché indulge in vieti estetismi, figli della banalizzazione e della divulgazione generica, come quella che qui sto criticando.

E il cristianesimo pare essere l’obiettivo primario di questo subdolo attacco, proprio perché ancora portatore di un pensiero “forte”: quando la stampa carica i toni sulla supposta diatriba fra papa Francesco e il card. Ratzinger promuove questa operazione, come è evidente nella polemica sul celibato dei sacerdoti. Mi spiego: Francesco non ha mai sostenuto tesi diverse da quelle tradizionali che risalgono al Concilio di Trento e a papa Paolo VI, ma vuole mettersi in ascolto del mondo per decidere in base a questo dialogo per il futuro (cf. Gaudium et Spes, costituzione fondamentale del Concilio Vaticano II, papa Paolo VI regnante). Così come sulla pedofilia Francesco ha addirittura caricato i toni della vigilanza e delle sanzioni rispetto al suo predecessore. Tornando al celibato, forse pochi sanno che fu papa Benedetto XVI ad accogliere nella Chiesa cattolica oltre cinquecento presbiteri anglicani sposati. Un professore e un pastore, stili diversi, ma papi entrambi, mentre vi è chi ha interesse a dividere (il diàbolos, dal greco “separatore”), o forse il giovanneo “anticristo” o “bestia che viene dal mare” (cf. Apocalisse 13).

Il Cantico dei cantici, ho scritto sopra, è un epitalamio, un cantico di nozze, eroticamente sano, letterariamente elevato, forse tradotto con qualche titubanza in ragione della delicatezza e chiarezza narrativa del rapporto fisico d’amore.

Il Cantico è nel medesimo tempo epitalamio umanissimo e poetico e metafora distesa, allegoria anagogica della relazione tra l’anima spirituale e il Lògos, e tra la Chiesa e Dio stesso.

La sua simbologia unisce il cielo e la terra con la potenza di un mito primigenio, che richiama la necessità di unione tra le “cose inferiori” e le “cose superiori”. La tensione verso l’unione perduta dell’inizio informa il procedere dei temi e dei discorsi che i vari personaggi si scambiano in un’aura ansiosa di ritrovare ciò che si configura come la vera realtà [realiora super realia] dell’amore [eros e agape], anche per l’anima umana. Le delicate strutture dell’epitalamio si piegano ad una esegesi accurata e profonda sviluppata da Origene l’alessandrino tra i temi bucolici e amorosi del racconto.

Nel nostro itinerario alla ricerca di una continuità della presenza dell’eros nell’ermeneutica del senso, incontriamo qui uno dei testi più liricamente immaginifici e densi di significato della Sacra scrittura, il Cantico dei cantici, poema d’amore mirabile, un’espressione letteraria nel contempo di una franchezza sconcertante e di una delicatezza soave, dove i protagonisti sono un “uomo” e una “donna” in dialogo, e agisce anche un coro di testimoni. In ben 117 versetti del testo non è mai nominato il Nome di Dio, mentre si racconta – sia pure in stichi irregolari e frammentati – l’amore tra due innamorati, con tenerezza e con toni e temi molto arditi, ricchi di sfumature sensuali o decisamente erotiche, in un contesto e con un linguaggio umanissimi, in un ambiente quasi rutilante di colori e situazioni, pieno di vitalità naturale.

La tradizione afferma che, in quanto autore di altri cantici, il più “indiziato” potrebbe essere il re Salomone, poiché da “sapiente” gli furono attribuiti i Proverbi, l’Ecclesiaste (o Qoèlet) e la Sapienza. Salomone è il padre riconosciuto della sapienza biblica, la cui saggezza è rimasta nella memoria popolare, re capace di comprendere, capire e cantare tutto ciò che è umano come l’amore, o diverso come la regina di Saba, citata da Origene stesso con dovizia di particolari nel suo grande Commentario sul Cantico, che ho avuto modo di studiare a fondo in latino (come proposto da Rufino di Aquileia, e in greco nella raccolta epitomica di Procopio di Gaza). Altre ricerche propongono la data della redazione del Cantico in epoca postesilica [IV-III secolo a. C.].

In ragione del titolo, il Cantico fu messo tra i libri sapienziali, nella Bibbia greca dopo l’Ecclesiaste, e nella Vulgata tra l’Ecclesiaste e la Sapienza, due libri “salomonici”. Nella Bibbia ebraica il Cantico è posto tra gli “scritti” [Ketuvim], cioè nella terza parte, la più recente, del canone. Dopo l’VIII secolo d. C., quando il Cantico fu usato nella liturgia pasquale ebraica, divenne uno dei cinque rotoli o megillot, che venivano letti nelle grandi feste.[1]

Il Cantico dei cantici, pur avendo provocato fin dall’inizio notevoli difficoltà interpretative per il suo linguaggio poetico profano e la narrazione erotica, è stato recepito nei canoni ebraico e cristiano, riconosciuto come testo evocante in modo inequivocabile il mysterium antropologico e teologico dell’amore, e dell’amore di Dio per la sua creatura e per il suo popolo: su tutto questo gli esegeti hanno dovuto sempre affaticarsi tra i due estremi interpretativi, quello letterale e quello allegorico.[2]

L’amore, chiamato nella Bibbia solitamente con il termine greco agàpe, è lo stesso amore che in questo testo è proposto e commentato come eros, termine del tutto compatibile con il precedente, come vedremo (così scrivo nel citato volume da cui traggo queste argomentazioni) in alcuni testi origeniani, attenti alla preoccupazione di non confondersi con le degenerazioni di culti idolatrici pagani.[3] L’amore è uno e solo uno, si evince dal Cantico, anche se si manifesta in modi diversi e tra soggetti diversi. L’amore è nell’espressione del Cantico la gioia della vita, e anche quando è pura emozione, o ebbra partecipazione al desiderio dell’altro, tale da non sottostare alla ragione, ek-stasis di beatitudine, conserva la sua essenza di tensione positiva verso l’altro, sia come specchiamento di felicità raggiunta con le carezze e con la condivisione l’uno dell’altro, sia come autentica realizzazione di sé nell’incontro con l’altro, che è anche, teologicamente, l’assolutamente Altro.[4] La dimensione e l’estetica agapica si configurano come coessenziali a quelle erotiche, quasi a sintetizzare ciò che parrebbe semanticamente così distante: la brama e il desiderio da una parte, e dall’altra il dono di sé e la scoperta dell’altro, ma anche dell’Alterità, che è Dio stesso. Il senso dell’erotico si configura totalmente nella condivisione agapica della relazione a due.

Il verbo ebraico ‘ahev [amare] è il termine fondamentale del Cantico [Shir Ha-Shirim], ricorrendovi quasi una ventina di volte, talvolta anche sostantivato in ‘ahavah, termine unico per esprimere ciò che in greco trova plurima traduzione in eros, philìa e agàpe, cioè nell’amore erotico, di affezione-inclinazione, di benevolenza o donativo, e che Origene sintetizzerà in un’unità di significato derivante dall’amore divino.


Il Libro dello Splendore, o Zohar, ritiene che il Cantico contenga l’intera rivelazione di Dio e perciò sia da considerare un compendio della stessa Torah, degli Scritti e dei Profeti, (cfr. Libro dello splendore. Terum 144a, Jewish Encyclopedia, 2001). Recenti ipotesi propongono una possibile origine del Cantico da inni e poemi dedicati al culto di Ishtar [Astarte] e Tammuz nei riti mesopotamici di ierogamia, noti anche alle popolazioni Cananee presenti prima della sedentarizzazione degli Israeliti, ma tale ipotesi sembra piuttosto improbabile, mentre invece si potrebbe desumere una certa comunanza di espressioni con il Cantico nel linguaggio d’amore presenti anche in canti nuziali degli arabi di Siria e Palestina, così come in brevi frammenti epitalamici dell’antico Egitto. Potrebbe dunque trattarsi di un’antologia di canti nuziali? Probabilmente sì, poiché, infatti, è molto meno plausibile che si tratti di una mutuazione meramente cultuale esterna al mondo israelitico giunta fino al culto di JHWH, proveniente dal politeismo vicino-orientale. Peraltro, il Cantico non segue una struttura prestabilita, ma si sviluppa in una narratologia che potremmo dire rapsodica, nella quale i cinque poemetti che lo compongono possono pacificamente essere considerati come repertori, tra i quali si poteva scegliere a seconda della circostanza o dell’uditorio, e quindi adatti ad un uso popolare-rituale.

Potrebbe dunque anche trattarsi di un testo collegabile alla tradizione profetica, come ipotizza qualche studioso, in particolare con un riferimento ad Osea [2, 19-21] e ad alcuni oracoli del Deutero-Isaia [Is 43.46.51]. In ogni caso, anche un’interpretazione meramente letteralista, senz’altro incapace di cogliere tutte le ricchezze semantiche presenti nelle numerose polisemie, che sono molto più evidenti nella prospettiva allegorista, non negherebbe la possibilità di intravedere nel testo del Cantico una sapienzialità profonda e umanissima. Il Cantico, anche laddove non cantasse [nella comprensione di chi lo utilizza] Dio ed Israele, o Dio e la Chiesa universale [Ef 5, 22-33], canterebbe comunque l’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio Creatore.

Il titolo dell’opera è un superlativo e va inteso come Il più sublime tra i cantici.[1] Cantico dei cantici significa anche “Cantico per eccellenza”. Si può dire che per certi aspetti non vi è libro biblico che abbia prodotto sull’animo umano e cristiano un effetto analogo.[2] Milleduecentocinquanta parole compongono il Cantico, ma immenso è lo scenario che ha disegnato per secoli e per un numero incommensurabile di lettori. Degne di particolare osservazione sono le lettere e le parole iniziali, seguendo una certa modalità interpretativa tipica della tradizione medio-giudaica e successiva. Il titolo “Cantico dei cantici” in ebraico suona Shir ha-Shirim. La prima lettera del Cantico è Shin scritta più grande delle altre. Contrariamente alla linguistica latina, neo-latina, germanica e slava, in ebraico in tal modo non si vuole indicare una maiuscola, perché la maiuscola non è prevista, bensì l’importanza significante della lettera stessa. Nei ventiquattro libri canonici dell’Antico Testamento solo in quattro luoghi la prima lettera è scritta con caratteri più grandi delle altre: e la prima volta è nella prima Parola genesiaca, quel Bereshit che dà da pensare da millenni, dove la Beit è scritta maiuscola.[3]

            La prima lettera della Torah è una Beit,

[e non una Alef]

cioè la seconda dell’alfabeto, mentre la prima lettera del Cantico è una Shin, cioè la penultima dell’alfabeto. Ci si può chiedere se vi possa essere una connessione plausibile in questa simmetricità, una sorta di legame, una specie di analogia fra l’Inizio del mondo e l’Amore nella coppia umana, in quanto ambedue gli atti sono grandiosamente conformi a un unico progetto?[4] La domanda è affascinante per un lettore occidentale dei nostri tempi, che non riesce a trovare facilmente un risposta plausibile, ma deve affidarsi alle infinite sponde dell’esegesi antica e alla sua tipica ricerca del senso.

La prima Parola, Shir [Canto], potremmo dire con le parole della psicologia contemporanea, è una specie di sinestesia,[5] poiché afferma e sottolinea la superiorità tra le espressioni umane di ciò che è insieme letteratura, poesia e musica, vale a dire la Parola cantata, il canto che coinvolge ineffabilmente tutta l’interiorità e sensibilità dell’uomo. La stessa radice Shir [composta dalle consonanti Shin e Resh] rappresenta anche il femminile,

[cfr. la parola italiana sir-ena]

e che femminile! La sirena, l’ammaliatrice da cui lo stesso Ulisse dovette fuggire aiutandosi, però, in modo artificiale. Il Cantico, invece, invita l’uomo a non temere la donna, ma a considerarla su un piano di pari valore antropo-ontologico.[6] La donna del Cantico, oggetto di questo amore, non è una sirena ammaliatrice, ma una creatura consapevole di possedere l’energia costruttiva e di gestazione dell’intera creazione, in modo particolare e privilegiato, moderando e orientando lo stesso principio maschile, che altrimenti si perderebbe -da solo- nel conflitto ancestrale della caccia e della guerra, per la difesa di una proprietà intesa come diritto assoluto.[7]

Ebbene, che cosa di tutto questo traspare nella rozza esegesi (diciamo così) di Benigni? Nulla. Solo l’ansia di esaltare l’eroticità quasi a livello di una generica pornografia, dove ogni tipo di amore è sdoganato come uguale, anzi, come “cantato” dalla poetessa (dice il comico) e da lui ri-cantato.

E questo, per il momento basti, mio gentile lettore! Ho voluto offrirti qualcosa di diverso e di più rispetto alla volgare esibizione televisiva citata. E un invito a leggere il Cantico nel silenzio del tuo mondo e del tuo spirito.


[1] Ha affermato Robert Musil: “Non c’è nulla di più bello del Cantico dei cantici”, e Karl Barth: “Magna Charta dell’umanità, manuale della Rivelazione sull’amore, sull’affetto e sulla sessualità”. Cfr. Canti d’amore del Cairo, Pap. Di Torino 1966; Pap. Chester Beatty 1 e altri, databili tra il 1300 e il 1150 a. C.; M.V. FOX, The Song of Songs and the Ancient Egyptian Love Songs, Madison, Wisconsin – London 1985.

[1] Cfr. Cant 8, 6f.

[2] L’espressione che troviamo al cap. 8, 3 “La sua sinistra è sotto il mio capo/ e la sua destra mi abbraccia” sono state spesso considerate come la sintesi poetica, simbolica e spirituale dell’intera silloge di poemetti, dedicati all’amore, alla coppia umana che appare sulla scena del mondo dall’inizio. E, cfr. anche Cant 8, 6f: si può dire che il Cantico contiene una religiosità quasi “laicale”, nel senso di appartenente profondamente al “popolo” [al λάος], ma rappresentando anche l’incarnazione della Parola di Dio in ciò che è umano, con il Suo nome che echeggia solamente nell’espressione “fiamma divina” [fiamma di Dio o fiamma di vita] che troviamo in Cant 8, 6-7.

[3] Oltre che nel Cantico dei cantici e in Genesi, gli altri due libri che hanno una lettera grande all’inizio sono il libro dei Proverbi di Salomone, che inizia con una Mem, e il primo libro delle Cronache, che inizia con una Alef. È interessante notare che tre delle quattro lettere scritte grandi sono le stesse tre che il Sefer Yetzirà chiama “lettere madri”: la Alef, la Mem e la Shin. Concentriamoci ancora sulla lettera Shin, esaminandola anche da un punto di vista grafico: laש dove si osserva che il segno è essenzialmente costituito da tre linee unite in basso da un punto centrale. I rabbini delle tradizioni talmudiche ritengono che sia una rappresentazione dell’Albero della Vita, e che rappresenti i tre patriarchi ancestrali, Abramo, Isacco e Giacobbe, confluenti in un punto di unione, quale simbolo del popolo d’Israele.

[4] A questo proposito si devono ricordare le due opere che formano la Kabalà, chiamate dai maestri talmudici Màassè Bereshit

[l’Opera della Creazione]

e Màassè Merkavà [l’Opera del carro].

[5] La sinestesia è una situazione di evidenza sensoriale multipla, nella quale i sensi esterni operano creando eccezionalmente una vera e propria integrazione sensoriale nella persona. Nella Torah si integrano i quattro gradini della struttura morfologica scritturistica: le consonanti, le coroncine soprastanti, le vocali e infine le note sulle quali il canto si eleva. Dei dieci Canti che compongono la creazione, secondo la tradizione ebraica, Shir ha-Shirim è il nono, come introduzione del decimo e ultimo, che verrà cantato quando apparirà il Messia. La stessa Parola latina “cantum” può suggerire alcuni approfondimenti. Le consonanti “c-n” potrebbero risalire alla radice ebraica medesima, tra l’altro indicante il termine “canna”, cioè “gola” o “trachea”, ovvero il “canale” che serve per cantare. Vi è da dire che la Parola “chen” [Chet-nun] in ebraico significa “grazia”, o armonia, simmetria. Il Cantico non trascura gli aspetti a-simmetrici o negativi, se si tiene presente che la radice di “cantum”, cioè c-n, può anche riferirsi a “chinà” [kaf-iod-nun-he], cioè “lamento”, ma il Cantico è tale in quanto cantico, e non il suo significante contrario, ad esempio Chinà Chinaoth o Il Lamento dei Lamenti.

[6] Come si può evincere anche dalla profezia: Os 2, 18 – 19.21: “[…] poiché una cosa Dio ha creato in terra: la donna circonderà l’uomo (neqevà tesovev gaver) […] Ti farò mia sposa per sempre,/ ti farò mia sposa/ nella giustizia e nel diritto,/ nella benevolenza e nell’amore,/ ti fidanzerò con me nella Fedeltà/ e tu conoscerai il Signore/”.

[7] Il Cantico fu inserito nel Canone cristiano fin da tempi molto remoti, addirittura entro i primi due secoli. Il primo commentario dell’epitalamio di cui si riscontra traccia nella chiesa antica è quello di Ippolito, che ottenne larga fortuna presso le chiese d’Oriente e presso alcuni teologi e padri africani, come Tertulliano e Cipriano. Ma è soprattutto dal lavoro origeniano che trarranno ispirazione per secoli gli esegeti e i Padri, fino al monachesimo medievale e agli autori spirituali del ‘500. Gli aspetti esegetici ed ermeneutici di quei tempi antichi sono contenuti nell’amplissimo ambito concernente, sia le scuole letteraliste [delle quali fu Teodoro di Mopsuestia il maggiore maestro], sia le scuole allegoriste, delle quali il maggior campione è il grande Alessandrino.

[2] Sulle principali interpretazioni del Cantico, cfr. Dreifuss G., Maschio e femmina li creò – l’amore e i suoi simboli nelle scritture ebraiche, Giuntina, Firenze 1996, 81-111. 

[3] Come la prostituzione sacra.

[4] Ecco che anche la dimensione agapica si configura come coessenziale a quella erotica, quasi a sintetizzare ciò che parrebbe così distante: la brama e il desiderio da una parte, e dall’altra il dono di sé e la scoperta dell’alterità.

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