Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La costruzione del tempo

Come sostiene il grande di Ulm, la cui casa natale dista due o trecento metri da un Danubio quasi neonato, perché Donaueschingen, la sorgente del gran fiume d’Europa con la sua fonte circolare, si trova a sessanta chilometri a nord ovest o poco più, il tempo è relato allo spazio, come quarta dimensione e quindi non è assoluto, cioè non è sciolto da ogni vincolo (ab-solutum). Come dire che l’istante dato e misurato dal krònos, dall’orologio cosmico acceso sulla realtà, non esiste, non ha consistenza reale. Eppure il tempo procede, è misurabile secondo il criterio noto da millenni, così come definito da Aristotele “il tempo scorre secondo un prima e un poi“, e perfezionato  nell’ultimo secolo. Procede senza esistere, dunque? In un certo senso sì e in un altro no: se per “esistere” intendiamo un suo “essere” consistente e autonomo, possiamo dire che il tempo non ha l’essere; se per “esistere” intendiamo un porsi al di fuori del nulla, ebbene esso esiste. In questo caso si intende un nulla di carattere logico, ché il nulla logico esiste, eccome! Forse il ragionamento può parere cervellotico, ma la metafisica ci aiuta in campi che sono proibiti alle scienze fisiche e matematiche, essendo un sapere originario, pre e a-scientifico nel senso galileiano del termine, intuitivo, e perciò comunque plausibile.

Anche il vescovo di Ippona, assiso sul seggio episcopale della città nordafricana tra il quarto e il quinto secolo, la pensava un po’ allo stesso modo, intuitivamente, millesettecent’anni prima. Oggi, come vedi mio caro lettore, all’inizio non metto neppure i nomi dei personaggi citati, sapendo che sai bene di chi sto parlando, di due grandi personaggi del pensiero occidentale che alla questione del tempo hanno dedicato molte riflessioni: il primo utilizzando le scienze matematiche e fisiche, il secondo l’intuizione filosofica, giungendo a risultati che presentano qualche analogia. Sant’Agostino, lo posso citare, scrive nel libro undecimo delle sue Confessioni che il tempo è un oggetto difficile da definire, riflettendo sulle sue tre dimensioni in cui si manifesta, il presente, il passato e il futuro. Si può giocare, secondo lui proprio sull’infinito scorrere degli istanti che trasformano il presente in futuro senza mai fermarsi, incessantemente, necessariamente. E qui l’etimologia dell’avverbio ci viene in aiuto: necessario è dal sintagma latino nec cessat, cioè non cessa, e perciò continua. Eccolo il tempo, qualcosa che si costruisce e si costituisce nella consapevolezza del transito di quegli istanti mobili e irrefrenabili. In altre parole il tempo è una dimensione legata alla consapevolezza di chi osserva la realtà, di per sé non esistendo, analogamente a ogni altra dimensione del reale.

Questa visione, senz’altro largamente idealistica, è quella platonico-agostiniana, più tardi ripresa e rilanciata da Descartes, per il quale ogni cosa trae la sua esistenza dalla consapevolezza dell’osservatore umano. La linea aristotelico-tommasiana, invece, sostiene la verità di un’essenza della realtà, indipendente  dall’osservatore. Chi ha ragione? Chi ritiene che ogni cosa esista solo se viene osservata, o chi ritiene che esista comunque, sia se sia osservata o meno? La differenza la fa la nozione di essere: per gli idealisti essa coincide più o meno con la nozione di esistenza, mentre per il realisti, costituisce una realtà autonoma, indipendente.

E dunque si può dire che hanno in qualche modo ragione tutte e due le linee di pensiero, l’una perché sostiene la soggettività della percezione delle cose, al di fuori della quale, nulla si può dire che sia e tantomeno il tempo, l’altra poiché ritiene che la realtà prescinda da chi la percepisce, e quindi la sua oggettività. In assoluto parrebbe avere più ragioni quest’ultima posizione perché l’uomo ominizzato, il sapiens è su questa terra, al culmine di una evoluzione di milioni di anni, da meno di duecentomila anni, e prima di lui il mondo e il “tempo” già esistevano.

Ma, secondo la nostra sensibilità e percezione, che cosa è il tempo? Posto che sia cosmologicamente relativo, come insegnava l’uomo di Ulm, noi come lo viviamo, in situazione, esistenzialmente? Ecco che qui entra in gioco la nostra psiche, la nostra interiorità. E scopriamo che il tempo scorre veloce o lento a seconda di come stiamo dentro di noi. I Greci e i Padri della chiesa lo chiamavano kairòs, tempo opportuno o interiore, potremmo dire. A differenza del tempo fisico, il krònos, il kairòs non è misurabile, poiché appartiene all’interiorità di ciascuno, che non è accessibile ad altri che al soggetto stesso, e neanche del tutto. Vi è infatti una parte del mondo interiore, si chiami il “fondo dell’anima”, come lo definiva Meister Eckhart, o freudianamente “inconscio”, essa sfugge a definizioni esclusive e totalizzanti, mantenendosi in qualche modo e misura occultata, nascosta, misteriosa. In quella dimensione funziona solo il kairòs, mentre il krònos è silente, ameno che non venga in mente di guardare l’orologio.

Anche nella mia vita, come in quella di ciascuno, il tempo è stato costruito in molti modi, ovvero l’ho vissuto in molti modi. Con il passare degli anni mi è parso che sia aumentata la mia sensibilità al kairòs, forse perché si è sviluppata la sensibilità al mondo interiore, riducendo la superficialità, la banalizzazione, la frettolosità, che sono figlie degeneri del tempo cronologico. Per assaporare la vita il tempo cronologico va gestito con cura, senza diventarne schiavi. Uno dei problemi di questo tempo è proprio questo: una sorta di auto-schiavizzazione dove il padrone diventa il tempo, un padrone sempre più tiranno, se non ci si accorge.

Fare le cose richiede tempo, e le macchine ci permettono di ridurre il tempo di lavoro. Vi è un verbo orrendo, ottimizzare, che rappresenta il risparmio del tempo di lavoro, un verbo che sintetizza l’accelerazione dell’uso del tempo disponibile, riduce i tempi della riflessione e del dialogo, ma grazie alla natura e a Chi la governa, non potrà mai battere in velocità ed efficienza il pensiero il quale, magari nella solitudine e a volte nella solitarietà, altra dimensione della solitudine, permette la meditazione e la contemplazione, al fine di riprendere, almeno in parte, il controllo razionale della costruzione del tempo, senza dimenticare lo spazio infinito delle emozioni, respiro dell’anima.

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