Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il Presidente Sergio Mattarella, saggio Andragogo (insegnante degli adulti), anzi Pedagogo (insegnante dei bambini), vista la scarsa maturità dei suoi interlocutori dei partiti, specie di quelli “vincenti” il 4 marzo scorso, discepoli ignoranti, ovvero “Franza o Spagna pur che se magna”

Caro lettore,

il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella è, non solo il Capo dello Stato e valoroso costituzionalista, ma anche un signore gentile e disponibile all’ascolto. Non conoscendolo personalmente, mi pare di poter dire senza dubbi eccessivi che il suo modo di fare attesta questo mio giudizio: si osservi il suo sorriso educato, le posture che assume, il linguaggio del corpo, in generale.

Di Maio e Salvini, invece, sono due politici a tempo piena, con storie diverse, ma anche minimi comun denominatori caratterizzati dalla loro anagrafe ed esperienze rispettive. Il primo ha poco più di trent’anni, il secondo non molti più di quaranta. I loro studi non pare siano stati (non lo sono stati) particolarmente brillanti o specifici in campo socio-politico e giuridico, ma piuttosto raffazzonati e condizionati da una militanza politica pervasiva e molto precoce. Il risultato visibile, evidente a chiunque abbia un po’ di esperienza sull’argomento, è sconcertante o addirittura desolante.

Né Salvini né il grillino padroneggiano un linguaggio tecnico-politico sufficiente ad esprimersi su questioni istituzionali, anche se il leghista si salva con una certa esperienza e la capacità di “orecchiare” imitando altri, magari i suoi maestri Bossi e Maroni. Il piccolo napoletano no, quello, pur essendo stato per cinque anni vicepresidente della Camera, non solo non ha imparato ad usare un lessico sufficiente ad esprimersi sui temi della politica istituzionale, ma si vede lontano un miglio che quando “parla di politica, quando fa proposte politiche” è imbeccato da qualcun altro, probabilmente qualcuno che opera nella società della piattaforma Rousseau. Faccio un esempio: in questi giorni, dopo essere stato dal Presidente, se ne è uscito con la proposta di un “contratto”, non di un accordo politico, da stipulare, più o meno indifferentemente,  con la Lega o con il Partito Democratico.

Anche un bambino, direbbe Lucio Dalla, potrebbe cogliere l’assurdità della proposta: come si fa a proporre -indifferentemente- un contratto con le due forze politiche di dimensioni sufficienti a raggiungere la maggioranza in Parlamento, ma strutturalmente polari, antitetiche, naturalmente opposte, per storia, linea politica e prospettive? Come si fa anche solo a poter pensare di governare o con la Lega o con il PD, e ottenere risultati soddisfacenti per gli elettori del Movimento 5 Stelle, in ogni caso? Siccome in logica naturale non si possono ottenere risultati, entrambi soddisfacenti, facendo scelte diverse, se non opposte, e basti pensare alle politiche sociali, pensionistiche, dell’immigrazione, della sicurezza, nelle quali si evidenziano le differenze di impostazione tra due visioni nitidamente distinguibili in una “di destra” e neppure tanto moderata, e l’altra “di sinistra”, certamente moderata?  Mi fermo solo sul tema securitario: come si può conciliare la posizione di Salvini che pare sia quasi per politiche da “giustiziere della notte” alla Charles Bronson, e la posizione di un Luigi Manconi, studioso e senatore PD, attento all’equilibrio tra sicurezza dei cittadini e garanzie per gli imputati?

Se vogliamo ulteriormente semplificare, potremmo richiamare un detto risalente a circa mezzo millennio fa, quello che andava di voga in Italia ai tempi delle guerre per la dominazione della nostra Penisola, tra Francia e Spagna o Franza o Spagna, purché se magna“. E cioè, è indifferente con chi si sta, purché si raggiunga l’obiettivo, nel caso dei nostri due, il potere. Ma allora vengono meno, non solo le idealità, le linee politiche, i programmi, che così gelosamente ambedue avevano sbandierato, come gli altri, in campagna elettorale. Tutto a posto? No, perché allora anche il più distratto cittadino può pensare che le idee, i programmi, le priorità non contano nulla, pur di raggiungere l’obiettivo dello scranno che dà potere, visibilità, prestigio, e quant’altro serve per superare l’avversario o, spesso, il nemico politico.

Né in questo contesto vale la cosiddetta eterogenesi dei fini, per cui, se si parte per ottenere un obiettivo, per strada se ne ottiene un altro, magari anche migliore del primo. In realtà, quando non conta più nulla del pensiero politico, economico, sociale, culturale etc., si ottiene nulla, anzi si fanno danni.

Tornando al detto di cui sopra, esso “deriva dalla lunga lotta che la corona di Francia e l’Impero, allora legato alla corona spagnola svolsero, principalmente in Italia, tra il 1500 ed il 1650, mentre in Italia la classe politica era municipalistica incapace, per motivi oggettivi – oltre che soggettivi che furono rimproverati dal Guicciardini, che era in realtà meno acuto di Macchiavelli – di guardare oltre i ristretti limiti del comune o della regione. Per il popolo l’appoggiarsi dei governi locali ora all’una ora all’altra potenza, pur di salvare un minimo di autonomia divenne il detto richiamato“. (dal web) ,

E venendo al titolo del pezzo, che pensare, se non che il Presidente della Repubblica si è messo lì, pazientemente ad istruire i due un po’ (forse non un po’) tecnicamente ignoranti, Di Maio più di Salvini, e dunque ha operato -grecamente- da pedagogo, anzi da andragogo, visto che non si tratta di due bambini, ma di due giovani maschi adulti, che vogliono a tutti costi interpretare il ruolo del capobranco, del maschio “alfa”?

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