Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Felicità e Perfezione vs. Gioia e Perfettibilità

Chi mi conosce bene sa che non amo e non credo nei primi due termini e concetti del titolo (felicità e perfezione), mentre, al contrario, utilizzo e credo molto nel terzo e nel quarto lemma (gioia e perfettibilità). Per me le parole sono più che pietre, sono la cosa-stessa-che-dicono, e perciò vanno curate con grande attenzione e rispetto degli etimi secondo le accezioni condivise nel tempo dato, cioè il nostro.

Sulla felicità ho scritto sette o otto anni fa  -a “quattro mani” con la dottoressa Anita Zanin, psicologa e pedagogista mia amica- un libro intitolato Educare all’infelicità, edito da Segno, per cercare di comprendere ed elencare i peggiori errori educativi che si fanno con i bambini e gli adolescenti, sia in famiglia, sia a scuola, e fors’anche nelle altre agenzie più o meno educative come la parrocchia, i circoli culturali, le squadre sportive, i centri di aggregazione di ogni genere e specie.

La felicità, dal latino felicitas e, meglio dalla radice sanscrita fe, cioè fecondità, è uno stato dell’anima positivo, anzi eccellente, di tipo continuativo: “…e vissero felici e contenti“. Ma, come sappiamo dalla nostra esperienza, ciò è falso, falsissimo. Ogni stato dell’anima umana è, per definizione, temporaneo, e pertanto lo stato di felicità, così come è generalmente inteso, è non plausibile, non solo improbabile, o forse, meglio dire, impossibile.

Sulla perfezione ho scritto già molte volte, anche in questo sito, e la riassumo così. Parlando della perfezione ho sempre avuto presente il lemma radicale latino, dal verbo perficere, della terza coniugazione (paradigma: perficio, is, perfeci, perfectum, perficere), che significa “condurre a termine”, cioè “terminare”. Il modo supino “perfectum” da cui si trae origine il participio passato perfectus, a, um, se in italiano suona come un qualcosa di fatto-estremamente-bene, che più di così non si può, in latino, come s’è visto, ha tutt’altra accezione principale.

Nella teologia classica il concetto di perfezione corrisponde quasi alla lettera a ciò che si intende per completa virtuosità, quasi ad imitazione di Cristo, per cui la sua ricerca era il modo per santificarsi, cioè rendersi perfetti, e dunque -in quanto santi- separati da chi ancora indulge nella peccaminosità del vizio, a partire dai sette canonici: superbia, invidia, cupidigia, accidia, iragola e lussuria, a mio parere in ordine decrescente di gravità morale. Anche una parte dei confessori di impostazione forse gesuitica avevano (e hanno) la medesima mia opinione. Del resto che la superbia e l’invidia siano i vizi/ peccati peggiori è di immediata evidenza anche al buon senso comune. Pertanto, la ricerca della perfezione, in quest’ambito, non può che essere una ricerca della perfettibilità, non di più, pena un atto di superbia fondamentale.

La gioia, invece, è tutt’altro rispetto alla felicità, poiché non implica -intrinsecamente- una durata di una qualche importanza, ma può essere anche istantanea, o di breve durata. Come a volte il sole spunta tra le nuvole piene di pioggia (cf. la canzone di Alice Il sole nella pioggia), così la gioia può apparire in una situazione di dolorosa esperienza, di trauma o di malattia. Momenti psico-spirituali che ho sperimentato e sperimento tutt’oggi, come è nella vita ordinaria di ciascun essere umano. La gioia è un’interruzione del dolore, a volte, quasi a ricreare un equilibrio vitale. E dobbiamo farcela… bastare, oso dire, senza ricercare improbabili eden, che sono illusori e irrealistici.

La gioia -come stato dell’anima- è perfino preferibile a un’ipotetica felicità, poiché prevede anche la valutazione della sua assenza, e la sua totale valorizzazione quanto compare a interrompere, per dire, la tristezza o il dolore, fisico o psichico, o spirituale che sia.

La dimensione del fare, cioè quella che i pensatori medievali di matrice aristotelica credevano, o ratio operandi, richiama la nostra attenzione, invece, sul perfettibile, vale a dire su ciò che può essere migliorato, anche indefinitamente. La perfettibilità è come un numero periodico, o come un limite di cui si presuppone l’esistenza, perché fa parte dell’umana dimensione, ma le cui misure non si conoscono; oppure come una curva asintotica, che si può avvicinare al vertice di un climax, ma senza tangerlo mai, lasciando così spazi in-definiti alla crescita, se pur misurata per centesimi, o millesimi o milionesimi della stessa unità di misura.

Non dunque perfezione dell’agire, per cui se non la si raggiunge, càpita di sentirsi frustrati, delusi o addirittura depressi, ma perfettibilità, cioè atteggiamento di ricerca continua del miglioramento, posta nel contesto senza ansia da prestazione e senza arroganza o prepotenza verso gli altri.

La perfettibilità, nelle varie situazioni esistenziali e nel mondo, si declina spesso come crescita, come miglioramento continuo, concetto molto noto in ambito economico e aziendale, dove ci si deve continuamente adoperare per acquisire sempre maggiori competenze, attraverso un uso intelligente delle proprie conoscenze, mettendoci in ascolto di chi ne sa di più, e così traendo giovamento individuale per la crescita delle nostre competenze e professionalità, unica garanzia di un prosieguo positivo del nostro lavoro nella difficile competizione attuale.

Gioia e perfettibilità, dunque, vs. felicità e perfezione, vincono, proprio per la nostra strutturale im-perfezione di esseri umani, connotati da qualità e limiti, virtù e vizi,  forza di volontà e pigrizia, nel continuo incedere delle nostre vite, di cui siamo in buona parte responsabili.

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