Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

L’essere, il linguaggio e la scrittura

Il processo di ominizzazione è iniziato circa 4/6 milioni di anni fa, quando da un fascio filogenetico si sono distinti esseri in grado di scendere dagli alberi, di ergersi nella savana a vigilare e scrutare e infine a scoprire il fuoco e la possibilità della cottura della carne. Così insegnano le più recenti ricerche paleoantropologiche. L’Homo Naledensis, recentemente scoperto In Africa meridionale, sembra essere l’ominide da qui poi sarebbe derivato l’Erectus e il Sapiens, che risale a non più di circa 150 mila anni fa, cioè noi.

La cottura dei cibi ha sicuramente giovato allo sviluppo delle facoltà cognitive nel sistema neurale, fino a creare le possibilità di una proto-fonetica fisica, soprattutto con lo sviluppo delle corde vocali e dell’osso ioide, atta allo sviluppo di un primo linguaggio che può dirsi “umano”.

Si può pensare dunque che i nostri antichi iniziarono a comunicare, prima con i gesti e successivamente con borborigmi semplici che diventarono sempre più sofisticati fino ad essere un linguaggio, con significati codificati e condivisi.

Questo si è trattato nel Caffè Filosofico di iersera, a cura di due esperti, uno psicologo e un medico. Peccato che non si sia parlato della scrittura, perché, dopo la codifica di suoni significanti qualcosa, l’uomo ha cominciato a produrre pittogrammi, cioè segni significanti qualcosa, sulle prime di carattere solo iconico-ideografico e, solo molto più recentemente, forse non più di 4000 anni fa (Ugarit) la produzione di sintesi sillabiche, prodromo della costruzione di parole e frasi. L’indoeuropeo può essere considerato un po’ la base di quest’ultima radicale e evoluzione, con i suoi discendenti come le lingue fenicia, quelle semitiche, e infine il greco arcaico e antico (cf. A. Marcolongo, La lingua geniale, Laterza 2016).

L’essere, il pensiero e la scrittura. Si può dire che in qualche modo sono “apparentati”, non nel senso di essere-la-stessa-cosa, ma dimensioni della cosa stessa secondo prospettive diverse: si può dire che la con-sistenza sostanziale delle cose si può pensare e si può scrivere. In questo senso hanno ragione Heidegger e Wittgenstein, che attribuiscono al linguaggio una verità ontologica. Le parole dicono le cose e esprimono i pensieri, anche se in modo diverso. Le cose sono sempre più ridondanti rispetto alla loro descrizione, così come i pensieri non sono mai del tutto esprimibili con la parola scritta.

Per questo bisogna vigilare sul linguaggio, sulle parole che si dicono o si scrivono, perché ogni parola pronunziata ha un peso, provoca conseguenze, come a me è successo di subire qualche giorno fa. Parole forse un po’ troppo “in libertà” mi hanno creato, per la loro provenienza specialistica (medica), qualche non banale patema d’animo, oggi fugato da analisi cliniche negative, parole che hanno generato preoccupazione e sofferenza psicologica, intervenendo con la loro “verità” situata in un tempo quando non era ancora possibile smentirle. Bisogna stare molto attenti a quello che si dice, evitando diagnosi azzardate, così come insulti e giudizi incongrui (pregiudizi), sempre, non apostrofando le altre persone a male parole, non usando le parole come clave, ma come modi di accesso all’altro, alla sua spiritualità, alla sua verità di persona.

L’essere è dunque pensiero e linguaggio, parola e scrittura, e perciò stesso va considerato come qualcosa che il linguaggio, la parola e la scrittura dicono e fanno esistere.

Come non si deve mancare di rispetto alle persone proferendo insulti, così non si deve mancare di rispetto alla parola, usandola senza discernimento.

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