Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La tras-figurazione dei diritti

L’ultimo diritto che ho sentito dichiarare sulla titolistica mediatica è il “diritto di morire”, con riferimento alla costruenda legislazione sul “fine vita”, denominata Dichiarazione Anticipata di Trattamento (D.A.T.). “Diritto di morire”. E’ un diritto “morire”? Secondo la biologia e la storia umana il “morire” è l’ultimo atto del vivere, della vita. Come si fa a chiamare “diritto” un fatto ineluttabile per tutti i viventi, l’uomo in primis, che è consapevolmente mortale? Un “diritto” è un qualche cosa di legato al divenire del sapere etico e alla normativa umana, storica, politica, giuridica, è una prerogativa, tuttalpiù una potestà, non altro.

Che occorra regolamentare il “fine vita” come norma anagrafico-biologica ed etico-giuridica, affinché faccia parte dell’ordinamento civilistico di una grande nazione è fuori questione, ma che si trasformi concettualmente e terminologicamente in un “diritto” è non solo assurdo, ma decisamente insensato sotto il profilo logico-argomentativo. Non vi è alcun dubbio che si debbano correggere storture come l’accanimento terapeutico e un eccesso di tecnicalità nel tenere in vita (e quale vita in qualche caso?) un essere umano a tutti i costi, cosicché forse gli esempi di Eluana e Welby ci dicono qualcosa, e  spero anche al cardinal Ruini, ma trasformare un atto ineluttabile facente parte dell’esistere del vivente in un diritto è dunque assurdo, insensato e perfin stupido.

Altro discorso che va trattato con cura estrema è quello che i recenti episodi “svizzeri” propongono: Magri, Fabo etc., dove si tratta di suicidio assistito e di eutanasia strano vocabolo auto-contradditorio ancorché eufemistico (appunto!) nella sua etimologia greco-antica, che edulcora uno dei passaggi radicali dell’essere dell’uomo a questo mondo, che nasce a fatica (Leopardi) e a volte può morire a fatica. Lucio Magri ha voluto evitare di “morire a fatica” perché “depresso”. Qualcuno lo aiutato, gli ha parlato? E i vecchi compagni del Manifesto e del Pdup che dicono? Tutto a posto?

Sempre in tema di “diritti” voglio citare quelli legati ai temi delle coppie omosessuali, delle adozioni e delle maternità surrogate. Mi sembra che si possano dire due cose: a) i diritti, se tali, cioè strutturati secondo principi razionalmente e generalmente condivisibili, non possono essere considerati come una coperta che si può tirare da tutte le parti, e spiego la metafora: non è la stessa cosa una coppia genitoriale eterosessuale, naturale o adottiva che sia, e una coppia “genitoriale” omosessuale, necessariamente votata alla mera adozione; b) non tutto ciò che la scienza può permettere di fare in termini pratici, come la fecondazione eterologa e l’impianto dello zigote nell’utero di una donna “terza” rispetto ai gameti costituenti lo zigote ricevuto, è ragionevole e eticamente fondato, se si ha una visione dell’etica non meramente utilitaristica e congiunturale.

Nel primo esempio risulta evidente come un papà e una mamma rispettivamente maschio e femmina non siano la stessa cosa di un” papà” e una “mamma” dello stesso sesso, sia sotto il profilo educativo del figlio, sia sotto il profilo relazionale e sociale presente e futuro di quest’ultimo; nel secondo esempio mi pare inequivocabile la prevalenza di un tecnicismo al servizio di scelte connotate da un macroscopico egoismo.

Per quanto riguarda il tema del  gender, siamo daccapo: anche se molte legislazioni oramai prevedono una sorta di “discrezionalità culturale” nella scelta soggettiva di appartenere a una certa categoria sessuale, ciò non significa che la natura si faccia condizionare dalla legislazione umana. Resta fermo il rispetto per l’omosessualità, come inclinazione complessa della persona, da non enfatizzare da un lato, e dall’altro a cui non negare opportune riflessioni scientificamente critiche sotto il profilo psico-biologico, culturale e sociale.

E così via. In altre parole si può dire che non tutto ciò che si ritiene conveniente, per qualsivoglia ragione, deve poter diventare un “diritto”, se ripugna alla ragione discorsiva usata con tutti i passaggi di una sana logica argomentativa.

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