Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Rivignan, oh my Spoon River!

Caro e paziente mio lettor della domenica,

Bruno Cumero (Cumar) era il meccanico della mia prima auto una 1100 D, milledue di cilindrata, fumo di Londra, settantamila lire a mio zio Renato, cinquemila lire di spesa per la patente da privatista. Cammino per il cimitero di Rivignano, mi son fermato alle tombe dei miei e poi ho proseguito per un’ora e mezza, attorno alla bellissima chiesa della Beata Vergine del Rosario con la Madonna e bambino del Blaceo.

Elena, la piccola mia nipotina, morta a cinque anni per una rara malattia. Solo io l’ho vista quando era mancata, distesa tutta lunga sulla pietra, troppo grande lo strazio per Marina e suo marito. Non mi esce di mente il ricordo e dal cuore il dolore. L’epigrafe dolce che le scrissi è lì di struggimento senza fine.

Mia madre la sempre presente e mio padre di continua meraviglia vivo. Mi fermo da loro brevemente, ché mi sono intorno ogni giorno, e dentro, e mi parlano silenziosamente, sostenendomi. E la nonna Caterina, maestra di vita dei miei giovanissimi anni.

E giro e giro, e trovo centinaia di volti che ricordo, anche persone più giovani, ragazzi morti in qualche incidente stradale, la famiglia socialista Gloazzo, tutti e due i ragazzi giovani. Le epigrafi dei vecchi sacerdoti, don Giuseppe Del Bianco, 47 anni cappellano a Rivignano, cacciatore, labbro leporino, sguardo determinato.

La schiatta ampia e robusta dei Meret, ramo “Balìn”, pezzi d’uomini dal sorriso ironico, contadini forti, comunisti non dichiarati, cavalli scuri e carri gommati: mio padre e mio nonno con i ceppi sradicati dalle ripe, loro clienti. Cinquanta, sessanta quintali di legna da vendere per arrotondare le entrate della nostra famiglia.

Il professor Ferrara da Bari, insegnava a Latisana, giovane padre di Edelweiss, di Gianna e… Francesco, mio coetaneo, e il professore De Sabata che poté studiare e mio padre no. Aldo Tonizzo e Baron Toaldo morti in Africa.

I Tavani, alti e grossi e quella che aveva portato via uno di loro alla figlia.

La vecchia Rosanna dei Durigon della montagna carnica, i Vogrig di Grimacco, de-stino, come insegna Emanuele Severino, i Vetach e i Pielich della val Resia.

E anche volti che mi fanno dire “Ma è morto anche lui?” E poi William Viola, socialdemocratico, fratello di Leonida mai tornato dalla Russia, Seconda guerra mondiale. Italo dei Presacco, l’unico senza croce, comunista, un fascio di spighe accanto alla foto, in bassorilievo e suo fratello Ugo, morto nella notte di fine anno del ’74, in un modo crudele.

E poi le tombe senza lapide, le croci di legno del provvisorio, tombe dimenticate, da parenti lontani o da nessuno, ultime persone di una schiatta che finisce.

Le grandi famiglie che hanno la “casetta” con le tombe messe una sull’altra nelle pareti, i Collavini, sior Giovanni, sior Vitorio, con una “t” in rivignanese. Ci passo davanti ricordando quando ragazzino portavo bibite le cinque estati del liceo Stellini, con Ennio e Franco e il Leoncino della OM. Fin verso la Bassa, a Titiano, Precenicco e Pertegada, che io chiamavo “profondo Sud”. Si pranzava polenta e coniglio al “Benvenuto” di Rivarotta e poi giù, una cassa per mano fin nelle cantine delle osterie, o con i fusti di birra da venticinque litri. A diciassette anni ero alto un metro e ottantadue, tre centimetri meno di me adulto, e pesavo settantadue chili, basket e casse di bibite, all right.

E poi gli emigranti che erano stati via con mio padre in Germania, Gino Della Ricca imponente e prepotente, il piccolo e agile Zorzitto, e poi il bel ragazzo Beppino Valentinis morto a ventidue anni con il suo Maggiolino sotto un camion, mentre dalla baracca della foresta di Ramholtz scendeva al paese per le ragazze che lo adoravano. Bello come un Gregory Peck giovane. Mio padre l’aveva ammonito di non correre quella sera maledetta.

E quelli strani, si diceva fossero un po’ pedofili, il Nino e l’altro, da cui guardarsi. Eppure con me mai tentato nulla. Si vede che apparivo disposto altrove. E la Lisetta, morta giovane? E la Jeannette, venuta dal Belgio, che pattinava benissimo Il Lago dei Cigni. E poi ragazzotti poco più grandi di me, caduti con la moto a trent’anni. E Mario, omonimo, predecessore mio nel gruppo musicale come cantante, quando c’era il Torvis alla chitarra e Franco c. (indicibile) al sax, l’altro Franco alla batteria e vie indenant.

Ecco la Itala, che faceva sognare i ragazzi…, andata via a quarant’anni. E la Tina del Caffè Rocco, grassa e cordiale.

Qua e là poi le tombe dei pazzerelli, protetti dal paese, e i border line, allora si diceva i puars simpri cjocs (poveri sempre ubriachi), con pochi denti e la barba incolta.

Ecco la Nilde, Leonilde, detta la “beghelone”, cioè quella che urla, che “berla”, in friuloveneto, e la Pine dai òus (delle uova) che faceva la pipì, me bambino, nei cortili, allargando le gambe, in piedi. E lasciava una piccola pozza dopo essersi asciugata con la gonna.

E perfino Adriano, ironico e bello, improvvisamente andatosene, per il cuor fragile. Quante partite, quante botte, quante avventure quattordicenni con lui.

Potrei continuare, ma mi fermo ancora davanti alla piccola tomba di Elena e leggo “Anch’io che passo/ ti ringrazio/ stellina della sera/ mi insegnasti ciò/ che non sapevo/ continua a farlo piano/ mandi.

Brividi marzolini nel cimitero silente.

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