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Il “mio” Pavel Florenskij, medicina spirituale per questi tempi disarmonici e disarticolati, un poco tristi

Nesterov_Florensky_BulgakovTempi disarmonici e disarticolati, viviamo. Come una sorta di medicina spirituale offro ai miei visitatori gentili un’anteprima: un saggio costituente il capitolo dedicato al grande pensatore e mistico russo nel mio volume di prossima pubblicazione La Parola e i simboli dell’Eros nella Bibbia… in un tempo nel quale la parola è negletta, banalizzata e disprezzata come un oggetto d’uso che si può gettare. Poche cose mi fanno sanguinare l’anima come questo fatto.

 

Da quel dicembre del 1937 alla metà degli anni ’80, il nome di Florenskij era stato completamente rimosso, cancellato dalla coscienza pubblica del Paese, sebbene sempre gelosamente custodito nella memoria viva di pochi discepoli, amici e familiari. […] Figura davvero geniale della storia del pensiero umano, dietro la sua apparenza sobria e dimessa, sotto le sue tonache ruvide e lise, custodiva una grandezza della quale soltanto in parte possiamo intuirne la portata”.[1]

Nel nostro “itinerario ermeneutico” scegliamo ora questo autore russo, per sviluppare ulteriormente il cammino intrapreso alla ricerca di un filo rosso di collegamento diacronico tra le sensibilità interpretative contemporanee e la grande esemplificazione e tradizione origeniana. Florenskij non è da considerare significativo solo per il dialogo che seppe sviluppare con il cuore del pensiero russo a cavallo tra il XIX e il XX secolo, e dunque con giganti come Lev Tolstoij e Fëdor Dostoevskij, ma anche per l’implicito e indiretto dialogo che instaurò, di fatto, con il pensiero fenomenologico e metafisico dell’Europa Occidentale, in particolare con quello di Heidegger. Se quest’ultimo ha posto il tempo come fondamento dell’essere nella nuova categoria ontica dell’esserci [il Da-sein], Florenskij ha fatto emergere in modo non estemporaneo una critica rigorosa alla concezione tradizionale del tempo lineare, fisico, della cosmologia classica, ma anche di parte di quella moderna.[2]

Elemire Zolla,[3] che del filosofo russo è stato uno dei riscopritori, sostiene che Florenskij, partendo dalla concezione einsteiniana di spazio, si curva sul concetto di cosa, definendola come luogo di curvatura e corrugamento dello spazio. Ecco dunque che, se per Heidegger l’evento [Ereignis] la Parola, l’essere ontico dell’uomo che si manifesta nell’esserci rappresenta la concezione del reale, utilizzando tutte le risorse del linguaggio, per il russo, analogamente, sono piuttosto il simbolo, la metafora a rappresentare più compiutamente la realtà nelle sue dimensioni più profonde e imperscrutabili. Il simbolo, la metafora, la polisemia e il sogno sono per Florenskij i punto di contatto dell’uomo con il divino, mentre modificano sostanzialmente la nozione classica, e anche kantiana, di spazio e di tempo.

Anche per Florenskij, come per Heidegger, la Parola deve farsi quasi pro-fezia [un parlare davanti al volto dell’altro, direbbe Lévinas], per scongiurare il rischio dell’inutile, del futile e della chiacchiera. Ed è l’icona, come segno grafico ritualizzato, a rappresentare per Florenskij l’esemplificazione più efficace della ricerca dell’essenziale, del segno definitivo, del linguaggio filosofico e teologico che tenta di comprendere la complessità di una antropodicea e della stessa teodicea. Nell’icona lo sguardo trapassa il tempo e lo spazio, così come la Parola della Scrittura inizia a parlare dai tempi delle sue redazioni e prime recezioni, preesistendo in mente Dei, e prosegue nel suo discorso attraverso il tempo, e continua a parlare fino alla contemporaneità, e penetrando il futuro che pro-viene con passi furtivi e ineluttabili. In Florenskij tutta l’umana esperienza non si fa dicotomica fra l’umano e il divino, ma si mantiene nella compresenza e com-prensione dei due versanti, mediante lo sguardo che pro-viene, che per-viene e che pro-segue il suo itinerario umano-divino.

Osserviamo, che, insieme con l’estetica, la filosofia del linguaggio è stato l’ambito disciplinare finora più studiato di questo teologo e filosofo russo del ‘900.[4] Ma, nel suo caso, l’oggetto dell’attenzione sconfina, deborda enormemente dagli ambiti disciplinari sopra detti, perché in Florenskij la Parola assume una dimensione pressoché ontologica, non solamente struttura-significante-un-qualche-cosa e strumento di comunicazione verbale tra un parlante e un ascoltatore. Per il nostro, la Parola, una volta enunziata, una volta scritta, ha vita autonoma, la cui responsabilità esistenziale è conservata comunque da chi l’ha pensata e pronunciata dinnanzi a un altro. La Parola è come l’icona, l’immagine-che-parla e media tra il divino e l’umano.

La Parola è la realtà stessa”, afferma Florenskij,[5] volendo dire così, chiamare così, tutto ciò che è, nel cosmo e nell’uomo, nella dimensione fisica e in quella spirituale. Se l’icona è la soglia del divino, la Parola è lo stipite dell’essere, ciò che rende il confine tra due esseri umani meno arduo, ciò che permette una comunicazione come fatto culturale, come fatto che può essere costruito o destrutturato secondo il libero arbitrio, utilizzato bene o male. La Parola, per Florenskij, supera la natura, che pur si usa come base di partenza dei fonemi-morfemi-sememi[6] perché la Parola decodifica le cose, restando anche un oggetto, potremmo dire un “ente”, a sé stante, come sospeso, almeno finchè non se ne pèrdono anche gli echi più remoti. Potremmo anche dire qui anche, forse anacronisticamente, quanti rinvii possibili alla lezione origeniana, circa l’infinita ricchezza della Parola, ma anche della parola semplicemente umana.”

 

Florenskij, pur senza appartenere a una “scuola”, basa la propria ricerca su dei riferimenti molto precisi, provenienti sia dall’Europa occidentale, dagli ambiti tardo-illuministici e romantici,[7] sia dalla stessa Russia, dove il dibattito sulla Parola e sul linguaggio fu sempre molto vivace.[8] Secondo queste linee interpretative il linguaggio umano si pone tra due estremi, quello dinamico-vitalistico, quasi costituito da pura enèrgeia, e quello genetico-enciclopedico, secondo il quale il linguaggio umano si baserebbe su depositi ancestrali remotissimi, che emergerebbero all’attività psichica cosciente e conoscente dell’uomo stesso. Si possono poi aggiungere altri due elementi al dibattito nel quale Florenskij apportò il suo contributo originale: la poetica simbolista[9] e la “questione del nome di Dio”, presente nelle Chiesa ortodossa russa [l’imeslavie, o glorificazione del nome]. Interessante è ricordare quanto e come si discusse in alcuni ambienti del monachesimo ortodosso ai primi del ‘900, specialmente dopo la pubblicazione del volume Na gorach Kavkaza del monaco Ilarion, recuperando sia la Tradizione veterotestamentaria del Nome sia l’esicasmo bizantino delle cosiddetta “preghiera del cuore”.[10]          Florenskij, dunque, maturò il suo pensiero in un contesto assai stimolante, ma fondandolo soprattutto nella grande Tradizione del pensiero classico greco-latino e cristiano.[11]

Nella misura in cui il nome rappresenta il nodo di tutti gli incantesimi e di tutte le forze magico-teurgiche è comprensibile che la filosofia del nome sia la filosofia più diffusa e risponda alle aspirazioni più profonde dell’uomo. Anche una filosofia fine ed elaborata pone il nome come suo concetto base, come principio metafisico dell’essere e della conoscenza”.[12]

 

Il testo riportato fornisce già un’idea della prospettiva florenskiana nei confronti, sia del simbolismo russo, sia della tradizione filosofica classica, là dove si percepisce nitidamente la preferenza del nostro, per la linea ontologico-metafisica che parte da Parmenide-Eraclito, Platone-Aristotele,[13] Agostino, Tommaso d’Aquino-Bonaventura, fino a Kant e Hegel-Schelling, nella quale le coppie di pensatori non significano omologia od omologazione reciproca, tutt’altro, ma consapevolezza della densità dell’essere e del divenire dell’essere come potenza e atto, materia e forma, accidenti e sostanza, essere, ente ed essenza. Per Florenskij, la pletora di tutti i sofisti, scettici, nominalisti, sensisti, positivisti, relativisti, di ogni tempo e luogo, non può attingere alla verità come dimensione “onni-umana”, ma solamente all’opinione, al transeunte, al “pensiero debole”, come si è soliti dire oggi.

Ancora Florenskij:

I nomi esprimono la natura delle cose e non sono solo segni condizionati di esse. Per questo la conoscenza dei nomi porta con sé la conoscenza delle cose. Le cose hanno i nomi secondo la loro natura, la conoscenza delle cose permette di dare loro dei nomi; questi ultimi vengono dati alle cose secondo l’arbitrio umano attraverso uno statuto iscritto oggettivamente nella natura”.[14]

 

Secondo il nostro, il “nome” non può essere mai meramente flatus vocis, né alcunché di non relativo alla sostanza significata dal lemma-morfema-semema significante, pena la babele delle lingue e l’incomprensione totale. Come, peraltro, si trova anche nella esplicazione platonica dell’èidos, dell’idea, che è sguardo, e del suo rapporto con la “cosa”, come: a) somiglianza ed imitazione della cosa con l’idea, b) partecipazione delle cose all’idea, c) presenza dell’idea nella cosa. Vedremo più avanti anche la struttura intrinsecamente articolata che il Florenskij propone, per analizzare compiutamente la Parola, che per lui rappresenta qualcosa di enormemente ridondante rispetto al solo significato relativo all’accezione corrente o all’interpretazione [cf. in Gadamer il concetto di Wirkungsgeschichte, “storia degli effetti”]. La Parola ha una forza ri-velativa,[15] mediando con il legame simbolico l’antinomia tra cosa e idea-rappresentazione della cosa. Nomen omen. Nel nome e nel suo suono la Parola offre all’uomo una “rappresentazione fisica del sovrasensibile”,[16] una sorta di coincidentia oppositorum fra fenomeno e noumeno.

Ai figli dichiara di essere sempre stato un imeslavec, un onoratore del nome:

Sono sempre stato platonico e veneratore del nome. La manifestazione per me è sempre stata manifestazione del mondo spirituale, e un mondo spirituale al di fuori della sua manifestazione l’ho ritenuto come non conoscibile, essente in sé e per sé e non per me. La manifestazione è l’essenza stessa che si manifesta. Il nome è colui che è nominato nella misura in cui è capace di entrare nella coscienza e diventare oggetto della coscienza, ma la manifestazione biunitaria, materiale e spirituale, simbolo, per me è sempre stata cara nella sua immediatezza, nella sua concretezza, nel suo nome.”

 

Florenskij, dunque, si batte per recuperare valore e potenza alla Parola, in parte svuotata dal nominalismo moderno e contemporaneo. A bene pensare si tratta sempre della stessa operazione origeniana, e poi agostiniana, e poi perfino -in qualche misura- kantiana, [visto che il fenomeno può essere chiamato credibilmente con il suo proprio nome], e husserliana.[17] La Parola non può essere solo un nihil audibile, un nulla che risuona, ma è ed ha una sua forza originaria, una potenza che riesce a sedimentare strati diversi di significato. Se così non fosse perderebbe ogni senso lo stesso simbolo, che non sussisterebbe con credibili condizioni di possibilità di “essere-ponte”. La Parola stessa, il concetto che la sottende, il fonema che la fa risuonare, il morfema che la costituisce, il semema che le dà significato sono il processo originario del simbolo. La Parola è il Simbolo.

Per Florenskij occorre distinguere ancora, nella Parola, fra èrgon, inteso come prodotto, ed enèrgeia, cioè la sua inarrestabile attività. Egli sostiene che questi due momenti o dimensioni [in ciò seguendo Von Humboldt] si sostengono a vicenda. È il secondo che crea il primo, indefinitamente, come energia inesauribile, ma quando la lingua si è fatta, non è più proprietà del suo “creatore” umano, ma vive una sua vita, autonomamente, ed è a disposizione per altri, per la storia successiva. La Parola e la lingua sono “fresche e palpitanti creazioni dello spirito”, che non devono essere dominate, né dal tecnicismo fine a se stesso, come nel caso di certe derive futuriste,[18] né dall’individualismo più spinto, che porta a rifiutare la storia delle parole e dei linguaggi, e dunque la storia umana tout court.

Michail Bulgakov, in proposito, scrisse:

Si è acceso il senso e la Parola è nata, ecco tutto […] le Parola nascono, non è giusto dire che vengono utilizzate, nascono prima di questa o quella utilizzazione, è tutta qui la faccenda.”[19]

 

Florenskij propone la tricotomia strutturale della Parola. Egli afferma che la Parola è innanzitutto suono [φονή] o un qualcosa che sta per diventare tale. Tale dimensione della Parola non consiste solamente degli aspetti di fisica acustica, ma anche di di quelli fisiologico-psicologici che appartengono, sia a chi emette la Parola, sia a chi la ode e a chi la ascolta.[20]           Questa prima dimensione è il fonèma.

In secundis la Parola è anche rappresentazione di un’immagine o di un concetto, per cui assume una forma [μορφή], è rappresentata da un segno che è convenzionalmente dato e accettato dai parlanti una determinata lingua di cui fa parte quella parola o termine. Detta forma è chiamata morfèma. Il morfema potrà essere coniugato o declinato nelle lingue flessive[21] o implementato con altri radicali o deverbali nelle lingue agglutinanti,[22] ma sarà sempre il segno che rappresenta uno o più concetti o immagini.

A questo punto, il nostro autore propone la dimensione semantica, che caratterizza il suono e la forma, e li rende personali al parlante o a chi ascolta, cioè il semèma. Il semèma è come l’anima della Parola, o ciò che la fa vivere, è

“[…] un insieme di sfumature emozionali quasi percettibili, di cui è costituita la parte emozionalmente penetrante di ciò che il parlante, proprio ora, in questo caso specifico, ripone nella Parola nel momento stesso in cui la pronuncia. Il semema ha la facoltà di distendersi senza limiti, modificando la struttura degli elementi spirituali in esso correlati, di mutare i propri contorni, di assorbire in sé un contenuto nuovo, per quanto connesso a quello precedente, di attenuare quello vecchio. In altre parole, il semèma vive, come qualsiasi anima, e la sua vita è in continuo divenire.”[23]

 

Si pensi ora alla vita autonoma che ogni scritto, ogni libro, di qualsivoglia genere e specie, assume dopo la pubblicazione, quando l’autore non può più intervenire se non con edizioni successive, ma in realtà lo scritto è oramai “in balia” del lettore, del critico, dell’esegeta, e vive una vita tutta sua propria, come definitivamente staccato dal Sitz im Leben che l’ha pensato e prodotto. La struttura tricotomica proposta dal Florenskij continua a vivere nella sua interdipendenza perenne, come un corso d’acqua, come una nuvola dai colori cangianti, come il procedere del giorno e l’alternarsi delle stagioni. Gli atti molteplici del semèma vengono nel tempo sempre riproposti, passando dal subconscio al semi-conscio, e allo stato di coscienza vigile. Ogni volta che viene letta o pronunciata, e da chi e come, essa rivive, essa assume nuove dimensioni dell’essere, nuove sedimentazioni, nuove luci e nuove ombre che occhieggiano ed echeggiano dal prisma interpretativo dei soggetti. Così è la Parola, una creazione. La Parola è soprattutto, creazione, nei luoghi della grande letteratura, della poesia e della scrittura sacra, della preghiera, nella quale specialmente colui che parla esce-da-sé per andare verso un Altro, l’Altro, cui si rivolge con l’in-vocazione, e da cui si attende il movimento dell’Attenzione e la vita stessa.

Queste parole [della preghiera, n.d.r.] non si scrivono con l’inchiostro, ma con il sangue, con gocce rade che stillano dal petto e questo sangue [nel quale è la vita] non si esaurisce, né si secca mai. Con una forza sempre nuova la vita, dilatata da questo sangue misterioso, rigenera la vita: nell’oceano della vita interiore dell’umanità viene scagliata la Parola e la forza dell’anima, dal punto della caduta, moltiplica infinitamente i suoi cerchi.“[24]

 

Un altro aspetto interessante del pensiero ermeneutico del nostro autore è quello che concerne una specie di “terza via”[25] della conoscenza, che sta comunque nell’ambito di una gnoseologia monista, ma cercando di definire una sorta di equidistanza, o equivicinanza, tra il momento oggettivo dell’oggetto conosciuto e il momento soggettivo del soggetto conoscente.[26] E su ciò il Florenskij prende le distanze, sia dal sensismo, dal positivismo, dal fenomenismo, dal realismo, dall’empirio-criticismo, dall’immanentismo, etc.., sia dall’idealismo, dal razionalismo, dal panlogismo, etc, probabilmente perché gli riesce meglio distinguersi da pensatori contemporanei come il Losskij e il Cohen, ma rischiando talora di perdere di vista, in questo caso, alcune linee di pensiero fondamentali, come quelle contenute nel realismo[27] “aristotelico-agostiniano”[28] di un Tommaso d’Aquino.

Infatti, e meglio non potrebbe dire se chiosasse Tommaso:

Nell’atto della conoscenza il soggetto non può essere separato dal suo oggetto: la conoscenza è contemporaneamente l’una e l’altra cosa insieme; più precisamente, è conoscenza dell’oggetto attraverso il soggetto, un’unità in cui si può distinguere l’uno dall’altro soltanto nell’astrazione, mentre attraverso tale unità l’oggetto non viene distrutto nel soggetto, né il soggetto si dissolve nell’oggetto della conoscenza che esiste al di fuori di esso. Unendosi, essi non si fagocitano a vicenda, sebbene, pur mantenendo la loro autonomia, non rimangano neppure separati. La formula teologica “non mescolati e non separati”,[29] adottata nel Concilio di Calcedonia, è pienamente applicabile alla correlazione gnoseologica di soggetto e oggetto, così come è stata ed è intesa tuttora dall’umanità.”[30]

 

La conoscenza, e dunque l’atto gnoseologico, ma anche l’atto ermeneutico, per Florenskij è “come un figlio”, un oggetto terzo fra ciò che si esamina, che si legge, che si cerca, e il lettore, il ricercatore. Le parole sono l’autorivelazione dell’essere, in una certa misura analogamente all’attività sessuale tout court.[31] La Parola non è antinomia, simmetrica e paradossale, bensì sostanzialmente legata, parimenti, al soggetto e all’oggetto, cioè il soggetto conoscente e l’oggetto da conoscere, le cui energie unite la tengono in essere. Ancora: la Parola manifesta il soggetto al di là di ogni nascondimento, perfino nell’espressione patologica, o addirittura grazie ad essa. È l’essenza nascosta del soggetto che appare o traspare, è la realtà, la stessa di cui la Parola parla, come nella musica, là dove la nota echeggia linguaggi ineffabili. E, in quanto simbolo, è sempre più grande di se stessa. La struttura duale della Parola è allora ancora più evidente quando si evince come parte di un insieme, che è una lingua umana. La langue e la pàrole, dirà Ricoeur, echeggiando De Saussure.

La lingua, imponente e monumentale, è l’enorme grembo del pensiero umano, è l’ambiente in cui ci muoviamo, è l’aria che respiriamo. Ma nello stesso tempo la lingua è la nostra intimità che stentiamo a esprimere, cuore trepido di bimbo, canto segreto del nostro intimo, anima della nostra anima. Noi abbiamo cara la lingua, in quanto la riconosciamo obiettiva, dataci anzi quasi come condizione impostaci dalle circostanze della nostra stessa vita; ma parliamo davvero soltanto allorquando proprio noi, automaticamente, dopo avere fuso di nuovo la lingua fino nelle sue più piccole inflessioni, nuovamente la riversiamo secondo il nostro essere, continuando tuttavia a credere in toto nella sua oggettività. E siamo nel giusto: poiché il nostro pensiero personale poggia non su un intelletto isolato, che di per se stesso non esiste affatto, ma sulla Ragione Superiore, sul Logos Universale, e la Parola individuale non è pronunciata da altra attività, se non da quelle che la stessa lingua genera e accresce. Non esiste una lingua individuale che non sia universale nelle sue radici; non esiste una lingua universale, che non sia individuale nel suo manifestarsi.”[32]

 

Se le parole sono l’autorivelazione dell’essere, per Florenskij, siamo dunque nel pieno del cammino che stiamo cercando di percorrere, un cammino disegnato sui terreni frastagliati e accidentati del testo, che non manca di opporre a volte un’ardua resistenza al viandante che lo affronta. E anche se si tratta di autorivelazione, è necessario che il lettore-esegeta non si fermi alle prime impressioni, alla letteralità, alla superficie a volte levigata della narrazione, ma si avventuri nei meandri di ciò che non è esplicitamente detto, negli interstizi individuabili tra ciò che appare evidente e ciò che è appena accennato o almeno plausibile.

Florenskij preferisce mantenersi su sentieri che rischiano sempre di essere interrotti, pur fidandosi sempre della possibilità/capacità dell’intelletto umano di accedere a conoscenze più profonde e arcane del “detto” e dello “scritto”. L’enigma che si nasconde nel mistero del testo non deve mai spaventare l’anima assetata di conoscenza, ma deve sempre e ulteriormente stimolarla ad avanzare, a interrogarsi, a chiedere al testo stesso anche quello che è trattenuto da una specie di reticenza intrinseca alla parola scritta.

Florenskij si chiede continuamente come poter interpellare tutta la gamma di significati emergenti e nascosti dalle metafore a dai simboli scandenti lo scorrimento delle narrazioni, così come dai colori dell’icona che, posti in un ordine dato, possono far accedere alle porte regali dell’indicibile. Anche se il testo non ha strutture predefinite, può far avanzare nell’esplorazione del suo “fondo” e del “fondamento” altrimenti destinato a rimaner confuso nelle lontananze, e distante da una percezione e da una comprensione epistemicamente trasparente.

La ricerca del pope russo, come quella di tutti gli ermeneuti, va in questa direzione, verso ciò che sta al di là del fisico, nella trasparenza dell’essere. Infine, per Florenskij è il rapporto fra lo stato di veglia e lo stato di sonno che dà all’umano la misura della differenza e della distanza fra il sé presente e ciò che è alterità, ciò che è trascendenza, ed è parallelo al rapporto fra ciò che è detto-scritto e ciò che è letto-compreso. La porta regale è proprio il luogo dello sprofondare dell’uomo dalla veglia vigilante e cosciente allo stato di sonno e al sogno. E del sogno bisogna analizzare le evenienze, diverse se è sogno delle prime ore della notte, che sono condizionate dalle tensioni dello stato di veglia, o sogno delle ore antelucane, dell’alba, quando l’anima si è purificata e può accedere

[…] più libera dalle passioni e dai sensi […] d’una coscienza sempre errante al confine dei mondi […].”[33]

 

all’azzurra essenza della verità.

 


[1] Valentini N., Sull’orlo del visibile pensare, in P. A. Florenskij. La mistica e l’anima russa, Roma 2006, 23

[2] Cf. Florenskji P.A., Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano1977, 19-47.

[3] Cf. Zolla E., La filosofia perenne, Le tradizioni d’Oriente e di Occidente, Ed. Mondadori, Milano 1990.

[4] Pavel Florenskij nasce a Yevlah nel 1882, governatorato di Elizavetpol, distretto di Dževanšar, nell’attuale Azerbajdžan. Studia a Tiflis in Georgia, e successivamente a Mosca alla facoltà di Matematica, dove si laurea nel 1904 con una tesi Sulle caratteristiche delle curve piane come luoghi di violazione delle discontinuità [Ob osobennostrjach ploskich krivich kak mestak narusenij preryvnosti ich nepreryvnosti]. Nello stesso anno si iscrive alla Facoltà di Teologia presso il Monastero di San Sergio a Sergiev Posad. Nel 1908 consegue la Licentia Docendi in Teologia ed insegna Storia della Filosofia. Nel 1912 è Magister in Teologia [Dottorato] con la dissertazione Sulla verità spirituale. Nel 1910 aveva sposato Anna Michaijlovna Giacintova, e nel 1911 era stato ordinato sacerdote ortodosso. Inizia la stesura de La colonna e il fondamento della verità. Varie vicende lo portano all’insegnamento della teologia e della filosofia estetica, con corsi come Analisi della spazialità nell’opera d’arte. Utilizza dati matematici, fisici, psicologici ed estetici. Viene arrestato dalla polizia segreta nel 1931. Nel 1933 è segregato nel gulag delle Isole Solovki in Siberia. Viene fucilato nei pressi di Leningrado nel 1937.

[5] Cf. in Imjaslavie kak filosofskaija preposylka, Mosca 1920

[6] Nella morfogenesi.

[7] W. Von Humboldt e Novalis

[8] L. Vigotskij, A. Velesovskij e M. Bachtin, soprattutto.

[9] Il poeta A. Beljy fu grande amico di Florenskij. Ricordiamo che anche P. Solov’ev sostenne che l’arte umana altro non era se non una specie di incarnazione del Logos divino. V. Brjusov scriver in merito: […] la lingua non è il mezzo per esprimere un pensiero finito, ma per crearlo […], Sobranie Sochinnenij, Moskva 1976, vol. VI, 585. L’ambiente è questo.

[10] Cf. cap. Il Tomo Aghioritico [1340] di Gregorio Palamas, in G. Pasini, Il monachesimo bizantino, Ed. I.S.U. – Università Cattolica, Milano 2004, 112 e ss..

[11] Cf. soprattutto in Pensiero e linguaggio [Mysl’i jazyk], e Le radici onniumane dell’idealismo [Obsceceloveceskie korni idealizma], in “Bogoslovskij vestnik” 4, Moskva 1909.

[12] Ibidem, 49.

[13] Le teorie linguistiche sostenute da Platone nel Cratilo sono un riferimento costante in tutti i saggi di Mysl Jazik. In particolare in “Dialektika”, in U vodorosdelov mysli, Moskva 1990, 144 e ss..

[14] Cf. Le radici onniumane dell’idealismo [Obsceceloveceskie korni idealizma], in “Bogoslovskij vestnik” 4, Moskva 1909, 51.

[15] Cf. la questione del Nome nella letteratura veterotestamentaria, in W. Binni e B. G. Boschi, Cristologia primitiva, EDB, Bologna 2004, 159 e ss..

[16] Cf. Florenskij P., “Dialektika”, in U vodorosdelov mysli, Moskva 1990, 59.

[17] Cf. il concetto-atto dell’ epoche husserliana.

[18] Cf. in particolare F.T. Marinetti.

[19] Cit. R. Salizzoni, L’idea russa di estetica, Torino 1992, p. 166.

[20] Udire e ascoltare non sono sinonimi: vi può essere un udire senza ascoltare.

[21] Come quelle dei ceppi greco-latino e germanico.

[22] Come quelle del ceppo ugro-finnico, semitico o uralo-altaico.

[23] Cf. Florenskij P., La struttura della Parola, in Ferreri Bravo D., Slovo. Geometrie della Parola nel pensiero russo tra ‘800 e ‘900, ETS, Pisa 2000, 143-144.

[24] Florenskij P., Il pianto della Madre di Dio, trad. it. in Il cuore cherubino. Scritti teologici e mistici, a cura di N. Valentini e L. Zak, Piemme, Casale Monferrato 1999, 190.

[25] Cf. Zak P.ak L., Verità come ethos. La teodicea trinitaria di P.A. Florenskij, Città Nuova, Roma 1998, pp. 195-202.

[26] In definitiva, è il tommasiano Idem est actus cognoscentis et cogniti.

[27] Realismo come attinente alla res, sia essa, cartesianamente, extensa, sia essa cogitans.

[28] Ossimoro solo apparente.

[29] In greco: Α̉συγχύτος καί α̉διαίρητος.

[30] Florenskij P., La venerazione del nome come presupposto teologico, trad. it. di G. Lingua, in Il valore magico della Parola, Medusa, Milano 2001, 24-25.

[31] Si pensi in questa prospettiva al campo semantico del deverbale ebraico “conoscenza”, ja’vaàr, cf. Gn 3-4.

[32] Ibidem.

[33] Florenskij P., Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, Milano1977, 32ss.

 

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