Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Due pericolose illusioni: la felicità e la perfezione

perfezioneQualcuno forse si scandalizzerà, ma io ritengo che felicità e perfezione siano due aspirazioni/ dimensioni pericolosissime. Altrove e prima di oggi ho parlato della felicità come ipotesi esistenziale e stato dell’anima, osservandone nella vita quotidiana degli esseri umani -in genere- l’improbabile continuità, e perciò stesso fomite di possibili frustrazioni, anche molto gravi. In realtà, giorno per giorno si alternano momenti di gioia e momenti di tristezza o di dolore. Anzi, la gioia spesso lenisce il dolore, intersecandolo e inserendosi in noi, quando quello diminuisce. Si può gioire,  cose provate, della dismissione delle stampelle dopo un guaio articolare, mentre si zoppica ancora, e si constata la differenza di condizioni rispetto a quando si era quasi paralitici.

La gioia è moderata e serena, realistica e perfin dolce, rispetto alla potente, ma fugace e a volte querula e ingombrante condizione, della felicità. La gioia insegna anche ad apprezzare il dolore, la mancanza di qualcosa, l’assenza di qualcuno, mentre la felicità pretende tutto, pretende per sé, pretende che non vi siano ostacoli, contrasti, altri vincitori, se non lei stessa dentro di noi, però sempre pronta ad abbandonarci nella delusione della perdita.

Anche la perfezione è pericolosa, direi proprio in sé: latinamente rinvia a un significato di completezza, di “fine-lavori”, di conclusione. Perfectum è ciò che è stato perfezionato, e quindi finito. Ciò che è finito è morto. La perfezione è dunque una condizione necessaria dell’agire umano, ma solo nel senso che le cose intraprese devono essere concluse, non nel senso che ciò che si raggiunge è il meglio del meglio, insuperabile. Se ciò fosse non resterebbero più spazi di crescita, si lavorerebbe per raggiungere solo delle mete, che spesso risultano effimere, volatili, come il nostro essere a questo mondo.

Criticando il concetto di perfezione, non intendo sminuire il valore del raggiungimento di risultati, nella vita, negli studi e nel lavoro, tutt’altro, ma una sua smodata enfatizzazione. Certo che è importante conseguire, con la giusta fatica, un titolo di studio elevato, come osservo fare ai giovani; certo che son personalmente orgoglioso di averlo fatto, nella mia vita, sempre lavorando, ma sono consapevole di essere solamente in cammino, e che la meta non è il fine per cui sono qui. Le mete sono passaggi intermedi, come tappe lungo il percorso, per fare il punto della situazione, per ristorarsi, prendere riposo e poi ripartire, riprendere -passo dopo passo- la strada del nostro destino, che viene costruito camminando, incontrando, nella relazione e nel confronto, nel successo e nella perdita, ma cercando un senso alle cose che si dicono e si scelgono.

Quanto è fastidiosa la perfezione estetistica oggi ricercata nel campo della “bellezza” fisica dove, se si riscontrano difetti, anche lievi, si ricorre alla chirurgia e a ogni rimedio artificiale o protesico per rimediare e ottenere il risultato di una falsificazione insensata del proprio aspetto, non accettando i cambiamenti del tempo e delle età, e infine tradendo la propria essenza umana.

Tutto è perfettibile finché è in corso d’opera, mentre ciò che è stato terminato non ha più spazi evolutivi. Forse è bene considerare il cammino umano come un tracciato di crescita, dal tema dell’ominizzazione a quello di ogni esperienza individuale, per conservare la speranza e la possibilità di un miglioramento continuo e di una paziente realizzazione del proprio potenziale, dei propri talenti, dei propri desideri.

In questo senso l’eros platonico come attività desiderante è una delle vie maestre per convivere e condividere la propria irriducibilmente unica storia con l’Altro che procede accanto a noi. Insieme con la lezione gesuana delle Beatitudini (cf. Matteo 5, 3-12, e Luca 6, 20-23).

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