Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Apocalissi e apocalittica

Marlon_Brando_as_Col._KurtzDalla Treccani:

apocalìttico agg. e s. m. [dal gr. ἀποκαλυπτικός] (pl. m. –ci). – 1. agg. a. Che riguarda le apocalissi, o è da esse derivato: aspettative a.; letteratura a. (anche come s. f., l’apocalittica), designazione generica di tutti gli scritti, redatti fra il 2° sec. a. C. e il 2° sec. d. C. in ambiente giudaico e cristiano, che si propongono di spiegare religiosamente i misteri dell’origine e del destino del mondo. b. Per estens., in relazione con i castighi divini preannunciati nelle apocalissi, terribile, atroce, catastrofico: Goya dipinge i disastri della guerra con una fantasia a.; la visione a. di quell’immane incendio. c. Riferito a persona, fortemente pessimista, che vede tutto nero nel presente e nell’avvenire: scrittore, filosofo a.; come sei a. in queste tue previsioni! 2. s. m. Scrittore di apocalisse, apocalittista. ◆ Avv. apocalitticaménte, in modo o con fantasia apocalittica, con nero pessimismo: prevedere, descrivere, rappresentare apocalitticamente il prossimo avvenire.

Il colonnello Kurtz di Apocalypse now ne è un eponimo, per la tragica determinazione a essere quello che vuol essere.

“Apocalittica” è un vocabolo nato in Germania circa duecent’anni fa. Fu coniato da biblisti e studiosi delle antichità giudaico-cristiane per rappresentare testi che in qualche modo ricordassero l’Apocalisse di Giovanni.

Si tratta, dunque, di un termine moderno, che gli antichi autori dei libri cosiddetti “apocalittici” non conoscevano, né usavano. Il suo significato è molto ampio, come riconosce la declaratoria Treccani. Se il suo significato etimologico greco è “rivelazione”, con il tempo ha preso a voler dire anche ciò che la rivelazione rivela, cioè qualcosa di drammatico, catastrofico, terribile, tremendo, tragico, pauroso… quasi da fine del mondo.

Attualmente il termine si applica a testi giudaici e cristiani: esso descrive, con differenze teoriche anche notevoli,  movimenti o gruppi o correnti spirituali che sono stati socialmente significativi nel tempo, soprattutto legati a categorie sociali sofferenti e  oppresse, ma anche gruppi colti e socialmente elevati, e perfino, ovviamente, un genere (o più generi) letterari.

Da un punto di vista storico, l’apocalittica ha segnato i momenti più drammatici e cruciali per la storia d’Israele: l’epoca postesilica babilonese; il periodo ellenistico, specie riferito alla persecuzione dei Giudei ad opera del sovrano seleucide Antioco IV Epìfane (175-164 a.C.); infine gli anni che seguirono la distruzione del tempio da parte di Tito nel 70 d.C.

La profezia veterotestamentaria è stata sicuramente il primo ambito letterario dove si è manifesta l’apocalittica. Anche nel Nuovo testamento troviamo tracce importanti, oltre al testo fondamentale di Giovanni: citazioni o allusioni a testi apocalittici (anche non canonici), vocabolario e simbolismo, immagini e concetti che tuttavia devono essere compresi all’interno del contesto e delle forme letterarie in cui si trovano (vangelo o lettera) e, in particolare, della novità cristiana, che dà un’impronta cristologica ai testi.

Il Cristo è la manifestazione dell’intervento divino nella Storia della salvezza, la cui  “pienezza” è riposta, appunto, nella del Figlio come la persona umano-divina Gesù di Nazaret, che vive, muore e risorge… Quale “apocalisse” più grande se non l’Incarnazione stessa di Dio?

Nelle storie riferite a Gesù-Cristo sono presenti diversi elementi o temi apocalittici: il tema del giudizio con relativi castighi e ricompense, dei due “eoni” (il mondo presente e il mondo a-venire), la risurrezione dei morti, gli esseri angelici e demoniaci etc.. Gesù stesso ha utilizzato parole e perifrasi spesso molto legate all’apocalittica, come quando ha recuperato il tema del Figlio dell’uomo, tratto da Daniele (cf. sotto).

Tornando al rapporto tra profezia e apocalittica, possiamo far riferimento specialmente all’esilio babilonese, alla caduta della monarchia israelitica, alla perdita dell’indipendenza politica e alla distruzione del tempio di Salomone, tutti fatti che hanno messo in questione l’integrità della nazione ebraica nella storia. Di seguito alcuni estratti in tema dal  web, con qualche mio commento.

Nella profezia classica il giudizio divino sui peccati del popolo ha in vista una conversione, un mutamento etico da viversi nella storia, ed è così anche nei profeti Geremia ed Ezechiele, in cui però si acuiscono i toni pessimistici circa la possibilità umana di un mutamento e si formula la speranza di una novità, un novum, certamente ancora intrastorico, ma che Dio stesso opererà: è la «nuova alleanza» che Dio stipulerà (Ger 31,31-34), è lo “spirito nuovo” che Dio metterà nei cuori dei figli d’Israele (Ez 36,26). Soprattutto in Ezechiele si fa strada una scrittura che prelude o già sconfina nell’apocalittica: visioni, simboli e immagini pittoresche (Ez 1-3; 37), descrizione visionaria del tempio futuro che esprime la speranza dell’Israele nuovo e ideale (Ez 40-48). Molti temi e simboli che saranno correnti nelle successive apocalissi (anche nell’Apocalisse giovannea) si trovano nella profezia di Ezechiele: i quattro esseri animati (Ez 1,4ss.); la figura dalle sembianze umane assisa su un trono di zaffiro, posto su un firmamento simile a cristallo splendente (Ez 1,26- 28); il rotolo scritto su un lato e sull’altro e la sua manducazione da parte del profeta (Ez 2,8-3,3); Gog e Magog (Ez 38-39); il tempio e la sua misurazione (Ez 40,1ss); la presenza dell’angelo mediatore che spiega la visione al profeta (Ez 40,3ss.) etc.”

Ecco, bisogna tener conto di tutta la simbologia, l’allegoria, il compendio di metafore che questo racconti propongono, senza cadere nel tranello di pensare che in qualche modo si possano interpretare alla lettera, salvo poi inorridire e far inorridire gli astanti, o i lettori, con storie di crudeltà “divine” e ingiustizie inaccettabili.

La fede nella forza della parola di Dio fa sì che in Israele le profezie antiche, che non si sono ancora storicamente compiute, non vengano abbandonate, ma rilette nelle nuove situazioni storiche, magari da discepoli di quegli stessi profeti che le avevano pronunciate, e vengano proiettate in un futuro ancora più lontano, alla ”fine dei giorni”. Quanto al Secondo-Isaia, negli ultimi anni dell’esilio, egli vede una “cosa nuova” (Is 43,19; 48,6) che Dio sta per attuare nella storia: questa novità sarà il compimento delle antiche profezie, il rinnovamento dei prodigi di un tempo e la piena realizzazione della salvezza. Il compimento solo parziale degli annunci dello stesso Secondo-Isaia e la nuova crisi e la profonda disillusione che il ritorno suscitò in un Israele profondamente lacerato al proprio interno fra rientrati dall’esilio e quanti erano rimasti in patria, fu il terreno in cui sorse la profezia del Terzo-Isaia, che accentuò i toni escatologici e l’attesa di un intervento salvifico divino e di una radicale trasformazione cosmica: ”Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra” (Is 65,17; vedi anche 66,22). Sempre nell’immediato post-esilio, l’attesa messianica presente nell’escatologia di Aggeo è ripresa da Zaccaria (Zc 1-8), che annuncia un intervento divino servendosi di visioni spiegate dalla mediazione di un angelo e di un’ampia gamma di simboli che ritorneranno nella letteratura apocalittica: i cavalieri su cavalli di diverso colore (Zc 1,7-17), le corna (2,1-4), il candelabro e i due olivi (4,1-5), il rotolo (5,2), i carri (6,1-8) ecc. Il brano chiamato comunemente dagli esegeti “grande apocalisse di Isaia” (Is 24-27), è di origine post-esilica e il suo inserimento tra gli oracoli dell’Isaia dell’ottavo secolo sembra già un’attuazione di quella pseudonimia a cui la letteratura apocalittica farà ricorso in modo metodico. Le immagini di un Dio guerriero che combatte l’ultimo nemico, la morte (25,7-8; 26,14.19), e i riferimenti a un conflitto celeste che oppone Dio all’«esercito di lassù» (24,21), rendono particolarmente eloquente l’inserzione di questi capitoli dopo gli oracoli sui popoli (Is 13- 3 23). Con il libro di Daniele, redatto intorno al 165 a.C., si compie il passaggio da brani o elementi apocalittici presenti in testi profetici a un libro di forma apocalittica. Il radicamento, tanto a livello di contenuto che di forme letterarie, dell’apocalittica nella profezia sembra dunque evidente, anche se in essa emerge pure la ripresa di elementi sapienziali: si pensi alla caratterizzazione di Daniele come sapiente, e a quelle tematiche – di chiara matrice sapienziale – che sottostanno a molti testi apocalittici giudaici, quali l’origine del mondo, il problema del male, la libertà dell’uomo, la giustizia di Dio, la retribuzione.”

Quando l’apocalittica-profetica parla di “cieli nuovi e terre nuove”, ancora una volta usa un linguaggio immaginifico, adatto alle narrazioni, alle rappresentazioni verbali, pittoriche (quanti capolavori nell’arte occidentale!), metafisiche, e dunque, come insegnava Origene, bisogna sempre passare dalla dimensione letteralista a quella spirituale, e in seguito a quella morale, e infine a quella anagogica, cioè elevante come linguaggio solo parzialmente comprensibile con i criteri linguistico-razionali a disposizione. Occorre accettare “razionalmente” il mistero, come ossimoro umanissimo del limite umano.

La visione, elemento decisivo con cui l’apocalittico esprime letterariamente la sua conoscenza per rivelazione del piano divino, è già presente anche nella più antica profezia e, anche se qui essa è normalmente subordinata all’elemento “parola”, che deve trasmettere e comunicare il senso della visione stessa, in certi casi appare come un vero e proprio ingresso alla presenza di Dio e della sua corte celeste (1Re 22,19-23; Is 6,1ss.). L’apocalittico agisce in una condizione storica e politica molto diversa da quella in cui si muovevano i profeti: non c’è più la monarchia e non ci sono più gli scontri tra profeta e re; inoltre il profeta è normalmente un uomo della parola, che si rivolge al popolo parlandogli direttamente, sicché la profezia è fenomeno anzitutto orale, mentre l’apocalittica nasce “scritta”. Il libro profetico specifica (spesso, ma non sempre) il nome del profeta e magari anche le circostanze storiche in cui egli ha operato; il testo apocalittico, invece, è solitamente pseudepigrafo, cioè attribuito non al suo vero autore ma a un personaggio autorevole del passato. Gli orizzonti sovente ristretti o centrati su Israele nella profezia, si allargano a livello cosmico, universale e mondiale nell’apocalittica. Se per i profeti il castigo o il male può essere evitato con la conversione, con un mutamento di condotta, nell’apocalittica la salvezza viene da un intervento sovrano e straordinario di Dio. Il libro di Daniele è pseudepigrafo (ambientato a Babilonia all’epoca di Nabucodònosor, in realtà è stato composto nei primi anni della rivolta maccabaica, probabilmente intorno al 165 a.C.), e va spiegato in riferimento alla situazione tragica d’Israele: il sovrano Antioco IV Epìfane perseguita i figli d’Israele fedeli all’alleanza e cerca di ellenizzare i costumi giudaici. Si pone il problema dell’imperversare devastante del male nella storia (concepita come un movimento di progressiva degenerazione in cui si susseguono regni che incrudeliscono sempre più finché sono distrutti: Dn 7,1ss.) e della giustizia di Dio, del suo intervento salvifico: molti giusti vengono martirizzati e vanno incontro alla morte pur di non rinunciare alla propria fedeltà alla Legge. Di fronte a questa situazione l’autore afferma l’assoluta signoria di Dio: la risurrezione dei giusti, dei martiri, dei fedeli, per la vita eterna (Dn 12,1-3) ne è il segno. L’apocalittico valuta il presente a partire dal futuro: Daniele sa dove va la storia e può fornire anche una visione globale della storia futura e del destino degli individui. La visione delle settanta settimane di anni (che collocano l’ultima nel tempo di composizione di Daniele: Dn 9), la figura del Figlio dell’uomo, la visione delle quattro bestie mostruose (Dn 7,1-7), sono elementi che segneranno l’apocalittica posteriore.”

La visione è dunque rivelazione della parola “divina”, se e quando questa si esprime, con modalità e tempistiche del tutto diverse dalla umane narrazioni, e perciò assume valenze meta-storiche e meta-politiche, capaci a volte di illuminare il presente. Quanti Antico IV Epifane abbiamo rivisto nella storia antica, moderna e contemporanea?

L’arco di tempo coperto dai testi apocalittici giudaici copre quasi mezzo millennio: dal V/IV sec. a.C. alla fine del I sec. d.C. Posto particolarmente rilevante all’interno di questa letteratura occupa 1Enoc (o Enoc etiopico), comprendente cinque opere composte in epoche diverse: dopo un’introduzione (1Enoc 1-5), abbiamo il Libro dei Vigilanti (1Enoc 6-36, scritto probabilmente fra il V e il IV sec.; è il più antico testo apocalittico), il Libro delle Parabole (1Enoc 37-71; risalente al periodo tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C.; è di capitale importanza per il NT a motivo del rilievo che esso accorda alla figura del Figlio dell’uomo), il Libro dell’Astronomia (1Enoc 72-82; del III sec. a.C. o forse più antico, quasi contemporaneo del Libro dei Vigilanti; si occupa soprattutto di problemi di calendario), il Libro dei Sogni (1Enoc 83-90; databile intorno al 160 a.C., è praticamente contemporaneo del libro di Daniele), l’Epistola di Enoc (1Enoc 91-104; metà del I sec. a.C.). Questo “pentateuco enochico” gode a tutt’oggi di grandissima importanza 4 spirituale, teologica e liturgica nella chiesa etiopica. Ad esso si deve accostare 2Enoc (o Enoc slavo), del I sec. d.C. Nell’attuale, magmatica fase degli studi sull’apocalittica, tra gli studiosi vi è chi adotta la definizione di “tradizione enochica” o “enochismo” per indicare le opere attribuite al veggente Enoc, e nelle quali è riconoscibile una vera e propria corrente di pensiero apocalittica centrata sulla figura di Enoc (destinatario delle rivelazioni divine). Estremamente importanti sono anche le apocalissi giudaiche che vanno sotto il nome di Quarto libro di Esdra (4Esdra: testo molto conosciuto e citato nel mondo cristiano antico, medievale e anche moderno, visto che, benché dichiarato non canonico dal Concilio di Trento, alla fine del XVI sec. fu stampato in appendice, dopo il NT, nella edizione Clementina della Vulgata), e Apocalisse siriaca di Baruc (o 2Baruc), entrambe da situarsi alla fine del I sec. d.C. La conoscenza rivelata di cui gode l’apocalittico e il messaggio trascendente che intende trasmettere (spesso concernente la vita nell’aldilà, la risurrezione, l’immortalità dell’anima, il giudizio finale, la trasformazione cosmica che segnerà il passaggio dall’eone presente all’eone futuro ecc) trova nel linguaggio aperto ed evocativo del simbolismo il mezzo più adatto per esprimersi. Le apocalissi abbondano di simboli, spesso sgargianti e barocchi: simboli teriomorfi (che cioè utilizzano animali per significare altre realtà), cosmici (in particolare i fenomeni e gli sconvolgimenti cosmici), cromatici, antropologici (ad es. le vesti), numerici. Se l’apocalittico volge uno sguardo intriso di pessimismo sulla storia, che vede traversata dall’azione del Maligno, egli rassicura i credenti che vivono tempi bui riaffermando la signoria di Dio sulla storia stessa. La concezione della storia come preordinata da Dio, già scritta sulle “tavole celesti”, rientra in questo intento. Il carattere simbolico del linguaggio apocalittico è espresso anche dall’ampio ricorso ad allusioni e riferimenti al patrimonio di immagini tradizionali quali, soprattutto, i testi biblici, in particolare profetici, che vengono reinterpretati: si può pensare alla profezia di Geremia sui settant’anni dell’esilio (25,11-12; 29,10) ripresa e reinterpretata da Daniele (9,1ss.). Il destinatario umano delle rivelazioni è normalmente un personaggio venerabile del passato (Enoc, Daniele, Esdra, Baruc…) capace di predire ciò che avverrà in futuro, un futuro che comprende sia il tempo critico in cui si situa l’autore reale – spesso l’ultimo periodo della storia del mondo – sia il futuro ulteriore che sarà l’epoca della salvezza. L’autore reale, nascondendosi dietro alla pseudonimia, non ottiene solo il fine di conferire autorevolezza e antichità allo scritto, ma lo pone anche in continuità con la tradizione anteriore. Il procedimento accentua anche il senso del determinismo storico che traversa le opere apocalittiche.”

Ho ripreso questi testi per dire come occorra fare attenzione quando si parla di “apocalisse e apocalittica”, proprio perché il senso e l’accezione dei termini vanno inquadrati nel divenire storico. Troppe volte e in troppe occasioni e contesti si usano termini a vanvera, trascurando la loro origine, i significati etimologici e i contesti in cui sono stati proposti , si sono sviluppati e vivono tuttora. Usare il termine “apocalisse” per “catastrofe”, “cataclisma” e affini, va bene, purché si sappia da dove viene il termine, e come è stato usato nella letteratura mitico-religiosa e nella poesia tragica e lirica.

Peraltro, quello che sta accadendo in questi anni conserva la drammaticità consueta della storia umana, amplificata dai media e dalla velocità dell’informazione.

Forse occorre anche richiamarsi a una “nuova apocalittica”, rivelativa dello “stato di avanzamento” in cui si trova l’uomo, intendendo con tale espressione proprio il “processo di ominizzazione” ancora ampiamente in corso, probabilmente in termini diacronici a livello individuale, senza che ciò risulti emotivamente drammatico.

In altre parole pare di poter dire che alcuni “esseri umani” sono “meno umani” di altri, superando il “sociologismo” politicamente corretto degli ultimi tre decenni di analisi socio-politica ed etico-antropologica, ed accettando la lenta crescita, che opera senza fine, dell’ordine logico nel mondo, e nell’uomo di questo mondo.

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