Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il profumo dei tigli

20160530_204106Caro lettore,

ieri pomeriggio ho sentito di nuovo il profumo dei tigli in fiore, e mi ha ricordato giovinezze antiche. I tigli della piazza del Paese dove sono nato, Rivignano, e dove si indugiava quasi fino a notte in conversari acerbi e appassionati. Nomi di amici del tempo ancora a me presenti, alcuni non li vedo quasi da allora, altri qualche volta.

Erano tempi ed erano sogni, che ognuno portava nel cuore, condividendoli in parte, ma con pudore, quasi una timidezza, tipica del non-osare pensare tanto in grande, come da cultura furlana. “Sta tal trop“, cioè “stai nel gruppo“, nel senso di “non distinguerti molto” (ché può essere pericoloso, retro-pensiero del parlante anziano), usava sentirsi dire se mai si aveva il coraggio di accennare a progetti “grandi”, che prevedessero l’uscita dal Paese, studi universitari, cose che non appartenevano alla tradizione atavica di evitar perfino di pensare a qualsiasi forma di ascesa e di affrancamento sociale. Ricordo che ero uno dei tre che frequentavano il Liceo Classico, e ciò suscitava mormorii e pensieri critici: “Cemut ise, il fi di Piereto, c’al lavore in Gjermanie in gjave di piere, al Liceu?, cioè “Com’è, il figlio di Piero, che lavora in cava di pietra in Germania, al Liceo?”. Eh, certamente, io, secondo il comune sentire e un certo social silenzioso consenso, avrei dovuto, tuttalpiù, studiare da operaio specializzato. Ricordo ancora di aver suscitato rispetto oltre le perplessità, solo quando -iscrittomi all’università- andavo a lavorare come operaio a Udine prima e a Manzano e Corno di Rosazzo, poi. Ahhh, sentivo dire, “A si manten ai studis“, vale a dire “si mantiene agli studi”. Moralismo subalterno insopportabile della nostra antropologia furlana.

Ricordo che sopportavo con fastidio questo sentimento paesano, gretto, chiuso, geloso, sintetizzato così, ogni tanto “Ma che lì, cui sa cui c’al crôt di iessi“, “Ma quello, chissà chi crede di essere”, e così via. E ricordo, sempre, come un mantra o un’anafora retorica, che il sentimento cambiò quando cominciarono a leggermi sui giornali e a vedermi in tv: allora molti erano onorati di bere un bicchiere di Tocai con me. Coglioni. Sempre quello ero, semplice e complesso, povero di risorse economiche e ricco di idee e pensieri, collerico e umile, sempre quello che non contava un c., e anche dopo, quando contavo qualcosa, nella dialettica sociale o in qualche grande azienda. Coglioni.

Erano tempi ed erano segni

e qui di seguito, ringraziando l’amico filosofo Francesco Ferrari, fine esegeta di Martin Buber, aggiungo un brano del pensatore austro-ebreo da lui proposto, che c’entra molto con la mia breve biografia di sopra:

“Ognuno di noi è chiuso in una corazza, la cui funzione è di difenderci dai segni. Ininterrottamente ci accadono segni, vivere vuol dire essere appellati, occorrerebbe solo essere pronti, solo percepire. Ma per noi il rischio è troppo alto, tuoni silenziosi sembrano minacciarci di annientamento, e di generazione in generazione, perfezioniamo il sistema di difesa. Tutta la nostra scienza ci rassicura: “Stai tranquillo, tutto succede come deve succedere, ma nulla è rivolto a te, non si tratta di te, questo è appunto il “mondo”: puoi sperimentarlo come vuoi nella vita, qualsiasi cosa tu faccia dipende solo da te, non ti si chiede nulla, tutto è silenzioso”.

Ognuno di noi è chiuso in una corazza che presto per via dell’abitudine non avvertiamo più. Solo rari istanti riescono a penetrarla e a risvegliare l’anima alla ricettività. E quando ci è toccato qualcosa di simile e lo notiamo, ci chiediamo: “Che cos’è successo di così speciale? Non era dello stesso genere di cose che incontro tutti i giorni?”, allora possiamo risponderci: “Certo, nulla di speciale, è così tutti i giorni, soltanto che noi non ‘ci siamo’ tutti i giorni”.

I segni dell’appello non solo qualcosa di straordinario, qualcosa che esca dall’ordine delle cose, sono semplicemente ciò che succede sempre, sono proprio ciò che comunque succede: con l’appello non si aggiunge nulla. Le onde dell’etere spumeggiano sempre, ma per lo più abbiamo staccato i ricevitori.

Ciò che mi capita, è l’appello rivolto a me. In quanto è ciò che mi capita, l’accadere del mondo è appello rivolto a me. Solo sterilizzandolo, privandolo del suo nucleo di appello, posso comprendere ciò che mi capita come parte di un accadere del mondo che non mi riguarda. Il sistema coerente, sterilizzato, in cui basta solo che tutto ciò si inserisca, è opera titanica dell’umanità. …

La vera fede – se posso chiamare così il predisporsi e il mettersi in ascolto – incomincia là dove il consultare cessa, dove si dilegua. Ciò che mi capita mi dice qualcosa, ma cosa sia ciò che mi dice non mi può essere svelato da nessun’arte segreta, poiché non è mai stato detto prima e non è formato da suoni che siano stati pronunciati altre volte. È impossibile da interpretare e da tradurre, non me lo si può spiegare, non è affatto un ‘qualcosa’: è stato detto dentro la mia vita, non è un’esperienza, che si lascia ricordare indipendentemente dalla situazione, rimane sempre l’appello di quell’attimo, non isolabile, rimane la domanda di uno che interroga, che pretende risposta.”

(M. Buber, Dialogo (1930), in: Id., Il principio dialogo e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 195-197)

 

La mia vita ha cercato e cerca sempre di essere nell’autenticità dell’appello ad essere quello che sono. Sogni e segni si dileguano solo apparentemente, perché tutto quello che càpita è per sempre. Faccio fatica, a volte, a sopportare le falsità, gli infingimenti, i trucchi furbeschi e volgari di molti che pensano di essere intelligenti, e invece sono solo furbi. C’è, per la verità, anche un’intelligenza furbesca, ma non è mai profonda, e soprattutto è spesso immorale, se non a-morale, se vogliamo dar peso anche alle neuroscienze, com’è saggio fare.

Il profumo dei tigli è un ricordo nel cuore e memoria nella mente, è costitutivo della mia anima spirituale e dell’intero mio essere, eternamente grato a chi mi ha voluto e mi vuole bene, e anche agli altri, che mi hanno fatto capire l’intrico intrigante del mondo, e il suo lento cammino.

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