Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Brandon Jones

brandon jones73 anni, da 36 in carcere, condannato a morte per omicidio, è stato ucciso ai primi di febbraio nel penitenziario di Jackson in Georgia (USA), con un’iniezione letale. Nell’America di Obama. A nulla sono valsi gli ultimi appelli dei suoi avvocati, perché la macchina della morte burocraticamente assistita ha compiuto il suo ultimo atto.

Jones ha sempre sostenuto di non aver commesso l’omicidio e nonostante ciò…

La grande democrazia americana lavora anche così, approssimativamente. Sappiamo che molti innocenti subiscono condanne, così come ci sono molti colpevoli in libertà. Dovrebbe valere sempre il principio di cautela che porta a far preferire un colpevole in libertà piuttosto che un innocente punito per colpe non commesse. Nel caso della pena di morte, dopo la sua esecuzione, nulla è più rimediabile.

Torna dunque in questione il tema della pena di morte, e della sua assurdità, immoralità e perfino inefficacia. Sappiamo infatti che dove vige, ciò non contribuisce a ridurre i reati, non è un vero deterrente. Basti pensare alla Cina, all’Iran, all’Arabia Saudita, o agli stessi USA.

Certo è che di fronte a certi atti di ferocia belluina, viene a volte da pensare che servirebbe, anzi, che certi delitti andrebbero puniti seduta stante, alla Tex Willer. Non ho dubbi che se dovessi essere coinvolto in un caso estremo, Dio non voglia, non esiterei a comminarla e a eseguirla personalmente, anche per vendetta.

Tuttavia, in generale, mi soffermerei sulla sua assurdità e immoralità.

Assurdità: nel caso che l’ordinamento penale lo preveda, come fu anche in Italia fino al 1947, lo stato si comporta come il reo condannato, uccide, certamente con tutti i crismi del diritto positivo consolidato, ma si arroga la potestà sovrana sulla vita del cittadino, che in democrazia non è più un suddito come pensava Luigi XIV o anche il generale Cadorna, noto fucilatore di contadini e operai in divisa.

Immoralità: sotto il profilo etico la pena di morte non si giustifica con il ristabilimento della giustizia, mediante l’espiazione di una pena suprema, perché con la morte del condannato, sia pure reo confesso, non si riporta in vita la sua vittima. Vale la pena togliere ancora una vita se le cose stanno così?

Mi pare di no. Piuttosto ciò che manca un po’ ovunque, anche nella civile e nobile Patria nostra è la certezza della pena e l’applicazione della stessa con rigore e volontà di recupero morale ed esistenziale di chi ha commesso atti anche gravissimi. Ancora inattuato è l’articolo 27 della Costituzione e gran parte del Codice penitenziario (1975).

La pena di morte è stata anche abolita in diverse occasioni, nella repubblica di San Marino prima del 1500, nel Granducato di Toscana nel 1786 e nel Regno d’Italia (codice Zanardelli 1889), poi qui ripristinata dal Codice Rocco nel 1930, e definitivamente abolita nel 1948.

Anche nell’Antichità qualcuno la riteneva non necessaria, come Seneca…

« Ma i costumi dei cittadini si correggono maggiormente con la moderazione delle punizioni: il gran numero di delinquenti, infatti, crea l’abitudine di delinquere, e il marchio della pena risulta meno grave quando è attenuato dalla moltitudine delle condanne, e il rigore, quando è troppo frequente, perde la sua principale virtù curativa, che è quella di ispirare rispetto. »
(De clementia, III, 20, 2)
« Nello Stato in cui gli uomini vengono puniti raramente, si instaura una sorta di cospirazione a favore della moralità, della quale ci si prende cura come per un bene pubblico. I cittadini si considerino privi di colpe e lo saranno; e si adireranno maggiormente con quelli che si allontaneranno dalla rettitudine comune, se vedranno che sono pochi. È pericoloso, credimi, mostrare ai cittadini quanto più numerosi siano i cattivi. »
(De clementia, III 21, 2)

Sant’Agostino, per primo tra i pensatori cristiani, pur talvolta ammettendola, condanna esplicitamene la pena di morte, come si legge nella lettera 153 dell’epistolario. Lì “Agostino risponde a Macedonio, un luogotenente imperiale che lamentava la continua intercessione dei vescovi africani per impedire le esecuzioni capitali. Agostino risponde che risparmiare i colpevoli non è affatto un segno di approvazione verso la colpa. Al contrario, il disprezzo per la colpa non può essere disgiunto dall’amore per la creatura umana che l’ha commessa.” (dal web)

« Quanto più ci dispiace il peccato, tanto più desideriamo che il peccatore non muoia senza essersi emendato. È facile ed è anche inclinazione naturale odiare i malvagi perché sono tali, ma è raro e consono al sentimento religioso amarli perché sono persone umane, in modo da biasimare la colpa e nello stesso tempo riconoscere la bontà della natura; allora l’odio per la colpa sarà più ragionevole poiché è proprio essa a macchiare la natura che si ama »
(Agostino, Lettera 153)

Agostino cita diversi passi evangelici che invitano al perdono. Per lui la condanna della pena di morte ha a che fare con la dottrina della grazia indebita e predestinata, poiché se la salvezza dipende solo dall’intervento imperscrutabile della divina grazia stessa, inconoscibile agli uomini, è inammissibile da parte degli uomini infliggere condanne definitive.

« Ma pensi tu, forse, o uomo, che condanni chi fa tali azioni e poi le fai tu stesso, di sfuggire alla condanna di Dio? Ti burli forse dell’immensa bontà, pazienza e tolleranza di Lui? Ignori forse che la pazienza di Dio t’invita al pentimento? Tu invece con la tua durezza di cuore impenitente ti ammassi sul capo un cumulo di punizioni per il giorno della collera e del giudizio finale, in cui Dio, rendendo pubblico il Suo verdetto, darà a ciascuno secondo quel che avrà fatto in vita »
(Agostino, Lettera 153)

Tommaso d’Aquino, invece, la ammetteva, ma da applicare con moderazione, come extrema ratio, usando la metafora dell’organo canceroso che è da asportare chirurgicamente.

Nel 1764, con la pubblicazione del trattatello Dei delitti e delle pene Cesare Beccaria avviò una profonda riflessione filosofica sul sistema penale vigente. Nel capitolo XXVIII Beccaria si espresse chiaramente contro la pena di morte, sostenendo che lo Stato, per punire un delitto, ne commetterebbe uno a sua volta:

« Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. »

Tuttavia, la condanna di Beccaria verso la pena di morte, pur nella sua portata storicamente innovativa, non era espressa in termini assoluti : essa è necessaria, ma non giusta, in quanto ” infrazione (come scrisse Piero Calamandrei) della legge morale per la quale l’uomo , anche nei confronti dello stato , è sempre non mezzo, ma fine”. (dal web)

Non dico di più.

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