Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

La scarpa di Pajetta

giancarlo pajettaCaro lettor gentile,

quando si assiste alle confuse bagarre di Monte Citorio, ci si chiede che testa abbiano i parlamentari litiganti come ossessi o come squadristi, neanche fossero popolani in una jacquerie del tredicesimo secolo: urla, gesti scomposti, spintoni reciproci, lanci di documenti, esposizione di cartelli o di altri oggetti, corpo a corpo con i commessi, insulti agli avversari (nemici?) e a chi dirige il dibattito (?). Una vergogna. Non consola ricordare passate performance di animosi politici della prima Repubblica (la scarpa sbattuta sul banco e scagliata nell’emiciclo da Giancarlo Pajetta, ad esempio), né episodi più recenti (i cappi di corda esposti dalla Lega nei “gloriosi” anni ’90). Ogni volta sono scene penose, rinnovando un malcostume violento e ignorante.

Chi sono questi figuri, eletti dal Popolo Italiano, che litigano senza civiltà, ottenebrati dall’ira e fors’anche alla ricerca di una ribalta mediatica?

Non so, però, se il peggio sia il venire alle mani, i contatti fisici, le urla e i gesti minacciosi, ovvero certi discorsi, certi interventi davanti al microfono. A volte mi soffermo, viaggiando, ad ascoltare le cronache radiofoniche dei lavori parlamentari. Di solito, dopo un minuto o due di ascolto, cambio canale, perché l’eloquio, il tono (a volte anche il timbro e l’inflessione vocale), i contenuti e la qualità oratoria, sono insopportabili, anche per il più indulgente degli ascoltatori.

Partiamo dal tono: nonostante vi sia l’amplificazione, quasi tutti tendono ad assumere l’atteggiamento del comiziante, o del laico omileta, che deve convincere della propria posizione “colleghi riottosi e disinformati”. Il tono è declamatorio, ex cathedra, censorio, spesso minaccioso. Quanto siamo lontani dalle magistrali lezioni ciceroniane e agostiniane del “docêre, delectâre, flectere” (insegnare convincendo piacevolmente)! Numerosissimi parlamentari parlano come buzzurri in una fiera, non come persone politicamente responsabili.

Passiamo ai contenuti: quasi mai l’oratore riconosce dei meriti di razionalità nelle posizioni dell’avversario politico; piuttosto tende a forzare le interpretazioni, così seguendo (inconsapevolmente ut in pluribus) i consigli degli antichi sofisti combattuti da Platone, i filodossi amanti della mera opinione, anche se deformata, e disinteressati alla ricerca comune della verità. Nei discorsi parlamentari raramente si rinviene una legittima parte critica (destruens), accompagnata, però, da una parte propositiva (construens) che sia capace di recuperare quanto ci può essere di buono anche nella proposta di un avversario politico.

La divisione è radicale, polare, è fatta di aut-aut, quasi mai di et-et, sapendo che nessuno ha mai ragione del tutto. Per questo aborro da sempre una militanza acritica, un’osservanza pedissequa alla linea, anche quando questa è palesemente irragionevole, o chiusa ad ogni possibilità di modifica.

La qualità oratoria, infine, soffre delle magagne di cui sopra: è infatti impossibile imbastire un discorso accettabile anche da chi non la pensa allo stesso modo, se uso un tono apodittico, cattedratico, pesantemente retorico, e se non ammetto vi possano essere ragionevoli motivi di dissenso nell’altro. Di suo, se la qualità del dire è scarsa, bolsamente ripetitiva e povera di concetti, oppure confusa nell’enfasi declamatoria del dicente, costituisce un’aggravante, che rende incapaci di ragionare e discutere con il dovuto rispetto, anche con chi la pensa diversamente.

Un altro genere di insopportabili parlanti è quello dei “recitatori di libro stampato”, quelli e quelle che “mai un refuso”, talmente abili nel rispondere con il nulla alla scontatezza delle domande, o nel politically correct delle affermazioni, da diventare quasi una species anthropologica, riconoscibile di primo acchito e prevedibile perfin nelle espressioni che devono ancora esser proferite.

Last, si osserva in molti abitanti temporanei di quelle nobili sale, un livello culturale, dialogico ed espressivo desolante. Nomi non ne faccio, anche se mi piacerebbe, lasciando al lettore il sottile dispiacere dell’auto-documentazione.

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