Villa Ottelio Savorgnan sul fiume Stella ad Ariis di Rivignano

Il linguaggio è la “casa dell’essere”

radiazioneCaro lettor della domenica,

mi va di andare a concludere questa lunga giornata autunnale con alcuni pensieri di Martin Heidegger, controverso filosofo del nostro tempo, che commento breviter

Heidegger afferma che la verità dell’essere è, in greco, a-lètheia, cioè non-obliamento o disvelamento che si manifesta tramite il linguaggio umano: «Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora» [Sein und Zeit, Essere e Tempo, 157]. La questione dell’essere [Seinfrage] come linguaggio [sapere ontologico] differenzia la questione dell’essere come esistere [sapere ontico o esistentivo], che va considerato nel tempo. Ancora Heidegger: «Ciò che determina ambedue, essere e tempo [Sein und Zeit, 198], in ciò che è loro proprio, cioè nella loro coappartenenza, noi lo chiamiamo Das Ereignis [l’Evento]”. Vale a dire che è-in-ciò-che-accade che avviene la conoscenza della verità. E in ambito etico: «Se in conformità al significato fondamentale della Parola ethos, il termine etica vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno [terreno] dell’uomo, allora il pensiero che pensa la verità dell’essere […] è già in sé l’etica originaria” [Sein und Zeit, 203]. Il filosofo tedesco vuol dire che l’uomo è valore-in-sé, non valore derivato, come vogliono altre prospettive. Infatti, secondo lui Genesi [1, 27] conferma ciò con più forza, presentando l’uomo come immagine del divino.

E, in questo contesto, è la parola che be-dingt, rende cosa la cosa [Ding].[1] Le cose, i fatti, ogni evento [Ereignis] appaiono dunque attraverso la parola, trascendendo ciò che si intende correntemente, e dunque risalendo a ritroso per le rive del significato originario, dell’etimo, fino al fonema fondante.

Il pensiero è ermeneutica pura, perché è in ascolto del linguaggio. E lo è, almeno a partire dal significato che diede a questo termine Schleiermacher. L’interpretazione, dunque, in questo senso, altro non è che risalire dal segno al significato. È l’ermeneutica che permette in qualche modo di superare [forse perché siamo consapevoli dell’enorme debito cognitivo e riflessivo che dobbiamo al sapere metafisico classico], quello che dice principium reddendae rationis, e di collegare gli spazi vuoti che si aprono fra l’essere e il nulla, o fra l’ente e il ni-ente, posti ai limiti della percezione e delle possibilità di conoscenza.[2] Specialmente quando questa conoscenza approccia il linguaggio, sia come detto sia come scritto. Heidegger chiama questo tipo di interpretazione Er-örterung, cioè il luogo-dove-la-Parola-risuona

Dunque, l’uomo deve porsi davanti all’essere rispettando e coltivando il linguaggio, rifuggendo la sciatteria e l’approssimazione, il pressapochismo e l’illazione, ponendosi in una situazione di ascesi [gr. àskesis, che vuol dire letteralmente “esercizio”], di raccoglimento-che-lascia-essere [Gelassenheit], ma avendo presente il rischio di un ottundimento che oggi può essere causato dalle tecnoscienze e dalla sottovalutazione della crisi cognitiva ed etica in atto.

[1] Cfr. In Heidegger M., Unterweges zur Sprachen, 96.

[2] Sia essa di tipo analitico, o sintetico, o dialettico, o analogico.

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