I selfie sono diventati una moda irresistibile con il dilagare di cellulari e smarthphone. Oggi mi offrono l’occasione per parlare di stupidità di varia natura.
Madame ocà
Allo specchio in bagno e nei selfie non si può essere sinceri/ veri, poiché si è – nel contempo – soggetto-che-opera e oggetto-operato. E poi c’è l’altro che “gode” di te, forse. Ci sono alcuni tipi e modelli espressivi. Questi, grosso modo.
La boccuccia a cuore è una pura imitazione dei bimbi, che si atteggiano involontariamente per ottenere attenzione da parte dei grandi, e risultati convenienti dal loro punto di vista immaturo e già furbetto. A volte i grandi li imitano.
La faccia d’oca delle femmine che si mettono in posa per i social è una potente espressione di superficiale stupidità, che può traguardare anche a situazioni serie e pericolose, se ci si mette in mostra in modo tale da suscitare l’attenzione di malintenzionati che si nascondono dietro nickname accattivanti. Non si offenda chi tra le donne fa dei begli autoritratti che possono ricordare Antonio del Pollajolo da Florentia!
La faccia di pietra dei maschi, che loro pensano esprima virilità, forza e decisione, e invece esprime menti tarde e lente, come quella dell’asino di Buridano. Se quei maschi che si auto-fotografano in quel modo conoscessero l’apologo dell’asino di Buridano, non si farebbero i selfie (perché sufficientemente intelligenti). Ma non lo sono, ahiloro!
Temi come l’identità personale, il ruolo del soggetto e dell’oggetto, il rapporto tra l’io e il tu, così come studiati da Martin Buber, filosofo austro-ebreo, l’argomento dell’altro, del volto dell’altro, cui Emmanuel Lévinas, ebreo franco-lituano dedicò tanta attenzione, attestano quanto sia importante riflettere bene sulla questione, che rappresenta il centro delle relazioni interpersonali e non tollera, pena l’impoverimento della qualità relazionale, che si banalizzi ciò-che-mette-in-relazione soggetti umani, intelligenze e storie personali, come accade, invece, nei fenomeni falso-socializzanti dei… social media, che sono quasi un ossimoro concettuale e pratico-concreto.
I social sono dis-sociali e dis-socianti, proprio per i danni che fanno, quando vengono utilizzati nei modi che sto qui indicando.
Vediamo in pratica due esempi proposti nel titolo.
Justin (Giustino, chissà se il figlio di papà sa che San Giustino era un filosofo neoplatonico cristiano?) Trudeau, nell’occasione di incontro del G7 a Hiroshima, che ha all’ordine del giorno questioni fondamentali per gli equilibri socio-economico-politici del mondo (si sia o non si sia affini a questa parte), non trova di meglio che rimproverare Meloni per la scarsa attenzione o addirittura l’avversione ai diritti Lgbtq+. Non solo l’occasione è inopportuna per affrontare un tema del genere, ma i modi e i toni (che risultano) sono inadeguati e insensati… tra l’altro da parte di un politico che dovrebbe innanzitutto pensare a quello che per oltre un secolo è successo nel suo Paese: il massacro della cultura dei nativi, con la collaborazione delle chiese locali. Per tale devastazione lo stesso papa Francesco si è sentito in dovere di andare nella grande Nazione americana per scusarsi come Chiesa cattolica. Monsieur Trudeau boccuccia-a-cuore-faccia-di-pietra lo imiti, di grazia! Se parliamo di diritti, lo stesso premier spieghi la ragione per cui il suo paese è uno dei luoghi in cui più si pratica la gravidanza per altri. Sono questi i diritti che il giovin signore canadese intende difendere?
Guarda caso, si tratta dello stesso tema di Torino. Al Salone del libro, un congruo numero di giovanissime intolleranti boccuccia-a-cuore hanno impedito al Ministro Roccella di presentare il suo libro sui diritti civili, in particolare al femminile. Roccella, che ha una sua tradizione personale e politica di militanza antico-radicale, che non ha rinnegato (fu una delle leader che si occupò della Legge 194 ai tempi nei quali il diritto all’interruzione di gravidanza era reato), ha nel tempo temperato quei “giovanili furori” dirittistici con un’immersione in una sana antropologia realista-personalista. Dubito che alcuna delle ragazze contestatrici boccuccia-a-cuore fosse informata di questa biografia rispettabilissima. La proposta di discutere con civiltà formulata dall’autrice è stata rifiutata dalle fanatiche, e la presentazione del libro è stata sospesa, senza peraltro che il direttore della manifestazione prendesse posizione per consentire che si svolgesse quanto programmato.
Non basta, boccuccia-a-cuore-nazionale Schlein, ovviamente, è intervenuta per dire che il Governo (sempre lui) non tollera le contestazioni. Forse dovrebbe informarsi meglio sul caso e guardare il video di ciò che è successo.
Tra altre, non pochine, una boccuccia a rosa la si vede ogni mattina su Rai News 24, una giornalista grosso modo di bell’aspetto che, non so se distrattamente o per ignoranza semantica, ha definito “celebrazione” il ricordo della strage di Capaci del 23 Maggio 1992. Le stragi di ricordano, non si celebrano. Poi in regia la hanno corretta, ma…
Se, come insegnava Tommaso d’Aquino, contra factum non valet argumentum, cioè contro un fatto accaduto non ci son chiacchiere di sorta, potrebbe ritenere – magari eh – utile informarsi e pensare a che cosa dire prima di dirlo, contenendo entusiasmi mal riposti.
Infinite curve piene di bambini festanti e di persone che aspettano sul ciglio della strada che passi in un lampo il vento dorato, il fruscio delle trecento ruote del Giro. Stanno lì nel posto buono per ore, fin dal mattino, per quel fruscìo che dura venti secondi o trenta al massimo, del gruppo che vola a cinquanta all’ora in un barlumeggiar di ruote e di pedali. Più numerosi di tutti gli spettatori di tutti gli stadi del calcio, e gratis, sulla strada davanti a casa, gratis, a vedere la fatica e il coraggio. E la storia.
Gino Bartali e Fausto Coppi
Dentro il gruppo ci sono mille storie, mille fatiche, mille modi di affrontare la corsa, ma soprattutto c’è una doppia visione del mondo: da capitani e da gregari. Tutti faticano ma i secondi di più, perché devono provvedere ai rifornimenti per sé stessi e per i capitani. E allora pedalano su è giù per la fila, in salita e in discesa, cercando qualche tratto di pianura quando possono, fino in fondo all’ammiraglia e poi riempirsi tutte le tasche di borracce, gel e paninetti energetici, infilati perfino nella maglietta dietro la nuca. Ho visto corridori con otto borracce tutte assieme, al punto che il tronco magro del ciclista aveva assunto un’altra forma corporea.
E il gruppo vola. Vola per i lunghi rettilinei di pianura, che però in Italia non sono moltissimi, oltre a quelli che si trovano nella pianura Padana. Più spesso i percorsi sono misti, fatti di salitelle e discese, dove si raggiungono i novanta all’ora, e ancora di più di erti “muri” (per dirla alla “fiamminga”) appenninici, per poi arrivare alle “grandi montagne”, come le chiamava mio papà Pietro, tifosissimo di Bartali che, secondo lui (e non solo lui), se non ci fosse stata la Seconda Guerra mondiale, si sarebbe diviso con Coppi una cinquina di Giri d’Italia e una cinquina di Tour de France, collocandosi – senza dubbio alcuno – al vertice dei più grandi, dove comunque tutti e due stanno.
Quando arrivano le salite alpine, di solito dopo metà Giro e verso la terza settimana di gara, tutti nel gruppo sono stanchissimi, smagriti, quasi smunti, abbronzati “a pezzi”, perché nel corpo si disegnano grandi ombrature, sulle braccia in corrispondenza delle maniche delle magliette, mentre nelle gambe si notano netti i segni del pantaloncino.
E il gruppo vola, il vento dorato vola.
Dai tempi di Bottecchia, il bersagliere friulo-veneto, che correva per soldi fuori dalla miseria, che batteva Henri Pelissier in due Tour primordiali, di Girardengo con le sue trenta tappe vinte al Giro, il Gran Premio Wolber di 360 km, e poi Binda, cinque giri e tre mondiali, i citati Coppi e Bartali, Louison Bobet, Jacques Anquetil il più elegante cronoman di sempre, Hinault incredibile con la sua stazza ridotta, per me il terzo ciclista più forte di ogni tempo, al pari di Bartali e del giovinetto belga formidabile di oggi, Remko Evenepoel.
Come dimenticare Ercole Baldini e Gastone Nencini, assonanti nei nomi e quasi coetanei, capaci di vincere tutto, Giro, Tour, Mondiale su strada, Olimpiadi? E Michele Dancelli, razzente come pochi, il bresciano capace di vincere in volata con chiunque e di staccare chiunque, il coraggio fatto corridore? O Gianni Motta, di classe inarrivabile, in grado di competere dal ’64 al ’70 con Merckx, Gimondi, Adorni, Anquetil, Poulidor e di batterli spesso? Chiappucci Claudio un memore sguardo se lo merita? Dimanda retorica.
E gli inglesi, gli irlandesi? I tre baronetti Bradley Wiggins, Geraint Thomas e Chris Froome (in grado di vincere quattro Tour, una Vuelta e due Giri, diventando uno dei più grandi corridori di sempre), e poi Sean Kelly, quasi imbattibile nelle sue giornate, l’a me antipaticissimo Stephen Roche (Giro, Tour e mondiale in un anno, e poi più niente, perché, come dice il mio caro e sapiente di ciclismo frate Gigi da Lignano, mio consulente speciale per questo saggetto, era pieno come un uovo, quell’anno), e i due teutonici di trent’anni prima: Rudy Altig e Jan Janssen, entrambi campioni del mondo? Non dimentico l’elegante e facondo Vittorio Adorni, capace di vincere Giro e mondiale, e di diventare un empatico volto televisivo.
Come dimenticare Rik Van Looy, l’imperatore di Herentals, così lo cantavano aedi melodiosi del ciclismo come Dino Buzzati, Orio Vergani e Bruno Raschi, Merckx el mas fuerte, non el mas grande, que el mas grande es Fausto, fino a i nostri di questi anni quando battagliano sulle strade assolate del Tour de France Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard. La poesia pura di Marco Pantani. Non dimenticato. Non dimenticabile.
Come non avere memoria di chi è mancato cadendo sugli asfalti d’Europa, al Giro o al Tour o in corse di un giorno: Fabio Casartelli, Serse Coppi, Weilandt… e le cadute rovinose come quella di Tao Geoghen Hart in questo Giro 2023, che avrebbe potuto vincere. Quando cadono questi ragazzi magri, prima ancora di guardarsi abrasioni sanguinanti, cercano la bici per ripartire. Eroici? No, veri.
E i grandi ispanici? Da Federigo Martin Bahamontes, a Pedro Delgado, a Miguelon Indurain, grosso come un boscaiolo basco, fino al leggendario Contador, per me uno dei più grandi, e all’artista del pedale, el imbatidodon Alejandro Valverde?
E Charly Gaul? Lussemburghese capace di vincere un Giro e un Tour, forse lo scalatore più puro di tutti i tempi, dopo Marco Pantani…
E le frecce di un giorno come il Saronni della “fucilata” di Goodwood, che ho ancora negli occhi, e come mister Roubaix, il lampeggiante Argentin delle quattro Liegi e del mondiale americano, e come “lo zingaro di Aeklo” Roger De Vlaeminck, che poteva battere Merckx quando le pietre di Roubaix si facevano cattive sotto le ruote, e come Paolo Bettini bicampeon del mundo e olimpionico sotto l’Acropoli, e come Fabian il calabrese che scelse la Svizzera e girava padelloni impossibili? E i due potentissimi svizzeri vincitori di Giro e Tour Hugo Koblet e Ferdy Kubler? Come dimenticare Fiorenzo Magni, capace di vincere ovunque, tre Giri d’Italia e tre Fiandre. E Gimondi, che a me non piaceva nell’eloquio, ma vinse su ogni terreno? E Francesco Moser, il plurivincitore italiano, a volte cattivo oltre il giusto, denominato alla moda western, lo sceriffo? E i due draghi di un giorno di questi tempi nostri, il grande Mathieu Van der Poel, sangue di Adri e di nonno Raymond (Poulidor) e Wout Van Aert, che non si chiedono mai perché scattano, scattano e basta e poi vincono (spesso) o perdono, non gli importa molto. Corrono corrono senza guardarsi indietro. Un’immagine: lo scatto di Mathieu sul Poggio della Sanremo quest’anno…
Non voglio lasciar perdere nemmeno Luis Ocaña, potenziale “grande di Spagna”, che un gravissimo infortunio spazzò via prima che potesse mostrare al mondo ciò che poteva, anche battere bene il grandissimo Merckx. Come di lui parlo di Gianni Bugno, che pareva poter vincere con chiunque (basti guardare come vinse due mondiali consecutivi e il suo unico Giro d’Italia), ma si fermò prima di farlo. Carattere?
Anche Nibali, vincitore di quattro grandi giri merita un cenno, e fors’anche Ivan Basso, due giri e un Tour virtuale. Così come non voglio dimenticare il gentile Laurent Fignon, che con gli occhiali vinse due Tour de France e un Giro d’Italia, e Jan Janssen, forse il più forte corridore d’Olanda di ogni tempo: vince una Vuelta, un Tour e un Campionato del mondo su strada.
Un augurio al forte e simpatico, sfortunatissimo colombiano Egan Bernal, che ha già vinto un Giro e un Tour, è caduto e sono spiritualmente con lui perché torni quello che era e che può essere ancora.
Mettiamoci pure tra i “già-grandi” Filippone Ganna, che a ventisei anni ha già vinto diversi mondiali di inseguimento su pista e su strada, ha vinto alle Olimpiadi, e ha “fatto” il record dell’ora, un “potenziale” grande vincitore di classiche. E tra i potenziali più forti abbiamo (noi Friulani e Italici) Jonathan Milan da Buia, Friuli, Italia, capace di vincere l’europeo dell’inseguimento su pista, socio di Ganna nel quartetto olimpico e velocista su strada, forse ora il più potente del mondo.
E, purtroppo, non posso fingere di dimenticare Lance Armstrong, 7 Tour toltigli perché reo confesso, e un mondiale. Greg Lemond lo ricordo volentieri, con i suoi tre Tour e un mondiale.
E infine, ma non perché siano meno importanti, anzi, che dire ora dei gregari, che prendono una RAL di 30.000/ 50.000€ all’anno, come un impiegato, mentre Messi ha un’offerta dagli emiri di 500 milioni per anno, mentre ne prende trenta dal Parigi? Cristiano da Madeira quasi uguale, percepisce. Pogba otto milioni per aver giocato due o trecento minuti in una stagione, Lukaku altrettanto per mezza stagione. Da vomito.
Il vento dorato vola, anche se, come mi ricorda sempre fra’ Gigi da Lignano, oramai tutti prendono qualcosa (mio papà mi diceva che anche Coppi…) e le strategie sono freddamente decise a tavolino dai direttori delle squadre, che hanno sponsor, e obiettivi commerciali da raggiungere. D’altra parte, come riconosceva lo stesso Cipollini, come si può correre tappe di oltre duecento chilometri a 48/ 50 all’ora di media se non (e ciò che segue).
Il calcio è peggio, specie quando vedo le foto di un volto fanatizzato dall’espressione insopportabile come quello di Lautaro Martinez, tanto per citare uno tra molti, e mi sovvien la miseria di questi milionari senza cultura, o penso a Donnarumma, il portiere della Nazionale italiana, che se ne va a Parigi per soldi (a ventidue anni passa da sei milioni a dieci all’anno), un senso di desolazione mi afferra. Che poveri di (non in) spirito: vale a dire, evangelicamente, poveri non della povertà interiore che può anche ammettere il benessere, ma una povertà intellettiva, il cui rimedio non si può comprare con i milioni.
Due immagini e un verso poetico-sportivo ho in testa, per chiudere: la prima è quella di Gino e Fausto al Tour sul Col de Galibier (dove portai Beatrice bambina di dieci anni, a piedi, salendo dal Col de Lautaret, nel 2005) che si passano una borraccia, e non dissero mai chi la passò a chi; la seconda è la figura agile di Marco Pantani che, rimasto indietro per un piccolo guasto meccanico, risale tutto il gruppo a velocità doppia verso il Santuario della Madonna di Oropa nel Giro del 1998, e l’ultimo a farsi superare in quella salita cattiva è Laurent Jalabert, francese leale, che lo guarda ammirato sfilargli accanto; il verso poetico appartiene a Orio Vergani che quando Fausto Coppi muore di malaria all’ospedale di Tortona nel gennaio del 1960 per insipienza e presunzione medica (i medici di Parigi avevano informato quelli di Tortona che si trattava di malaria, perché Raphael Geminiani che avevano in cura, era stato con Coppi in Alto Volta (paese ora noto con il nome storico di Burkina Faso) per una battuta di caccia e si era ammalato), scrive sulla Gazzetta dello Sport “il grande airone ha chiuso le ali“.
Ma il vento dorato vola in un fruscio senza tempo…
…è il modo di dire “alpino” per ricordare un compagno, un amico, un commilitone, un fratello, che è morto in battaglia, oppure è mancato da civile dopo la guerra, e spesso anche per le conseguenze di infinite sofferenze e dolore.
La lunga fila della ritirata italiana dal Don
“E’ andato avanti” è come un atto di fede nell’anima immortale, cari professori Rovelli, Odifreddi, Hack (requiescat in pace)…, e cari voi che militate contro, incomprensibilmente. Prima di tutto, non lo capisco. Filosoficamente e teologicamente. Non occorre “militare” per l’inesistenza dell’anima immortale, e quindi di Dio. Non che uno sia obbligato a credere nell’anima immortale come credevano Platone e non pochi (!!!) altri, perché ciò non è di-mostrabile con argomentazioni logiche, così come non è di-mostrabile la sua non-esistenza, ma la semplice frase “alpina” fa capire come questo ambiente spirituale colga dell’uomo alcune caratteristiche intuitive di un qualcosa che potrebbe non avere fine con la morte fisica.
Chissà, forse, contro-intuitivamente, ce la farà la fisica dei quanta-qualia (con gran disdoro dei fisici di cui sopra) a mostrare la plausibilità dell’esistenza della coscienza-anima immortale (cf. Giacometti 2022/ 2023), fermo restando l’actusfidei, che si colloca in una dimensione teologico-metafisica.
…
Di seguito inserisco il testo della deliberazione governativa con la quale mio suocero Cesare, “andato avanti” prima, ma dopo la battaglia, è stato insignito di Medaglia di Bronzo al valor militare, a seguito dei suoi atti generosi durante la rotta dell’inverno ’42/ ’43 in Ucraina, lui caporal maggiore del )9° Battaglione della Brigata Alpina Julia. Durante la rotta che vide la Cuneense, la Tridentina e la Julia cercare di sganciarsi dalla sacca del Don attraverso Izjum (nome richiamato in recenti cronache guerresche d’aggressione), Nowo Kaljtwa, Nowa Postojalowka, Nikitowka e Njkolajewka.
“MINISTERO DELLA DIFESA, il Presidente della Repubblica (Giovanni Gronchi), con Suo Decreto in data del 8 Agosto 1955, Visto il Regio Decreto 4 Novembre 1932 n.ro 1423 e successive modifiche; Visto il RegioDecreto 23 Ottobre 1942n.ro 1195; sulla proposta del Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Difesa; ha conferito la Medaglia di Bronzo al Valor militare coll’annesso soprassoldo di Lire 5.000 al caporale maggiore, 9° alpini (Brigata alpina Julia)
Rivoldini Cesare di Evangelista , da Bertiolo (Udine), n. 1920
Puntatore di cannone da 47/ 32, in aspro combattimento, visto cadere il capopezzo ne assumeva con decisione il comando, assolvendo il nuovo compito con coraggio e calma esemplari e continuamente incitando i propri compagni alla lotta. Esaurite le munizioni, posto in salvo il congegno di puntamento, si lanciava coraggiosamente al contrassalto con i reparti fucilieri giunti in rinforzo. Kopanki (Russia, 20 gennaio 1943)
Il Ministro Segretario di Stato per gli Affari della Difesa rilascia dunque il presente documento per attestare del conferito onorifico distintivo.
Roma, addì 10 Gennaio 1956
Registrato alla Corte dei Conti
addì 18 Ottobre 1955
Registro 45 Foglio 116
f.to Massimo – il Ministro Gaetano Martino“
Tornato dalla guerra aveva fatto la sua parte nella Osoppo come partigiano.
Erano là innocenti, inviati nell’inverno russo con mezzi inadeguati e una strategia subalterna (alla Germania hitleriana) e potenzialmente suicida, dal criminale regime fascista del cavalier Benito, inerte e succube il re Savoia, che dopo l’8 settembre io avrei fatto arrestare. Un vigliacco. Mi risulta che in tempo di guerra i traditori vadano fucilati. A mio parere quello sarebbe stato il suo giusto destino, o almeno il confino, altro ché un dorato esilio egiziano. Mussolini ha pagato con la vita per le spicce, chiunque sia stato a fucilarlo, non mi interessa se Walter Audisio o “Colonnello Valerio” (pare di no) o il “Capitano John” per conto di Churchill che voleva avere tra le mani il suo carteggio segreto con il Capo del Governo fascista (quante volte nel dopoguerra Sir Winston è tornato in vacanza a dipingere paesaggi sul Lago di Como? e perchè?), Bruno Lonati o il “Capitano Neri” (alias Luigi Canali), su decisione del CLNAI (comandato dal Gen. Raffaele Cadorna, da Luigi Longo, da Sandro Pertini, da Leo Valiani, da Italo Pietra, etc.). Vittorio Emanuele III, no.
E poi i Savoia pretendevano che la monarchia continuasse, pur se il “Re di Maggio” Umberto II si comportò lealmente dopo il referendum che scelse la Repubblica, di certo ben consigliato da quella donna intelligente che era sua moglie, la regina Maria Josè del Belgio. Ti immagini, gentile lettore, se nel 1946 avesse vinto la monarchia, ancora oggi ci troveremmo come re Vittorio Emanuele IV, quello che sparò e uccise un turista all’Isola del Cavallo al largo della Sardegna una quarantina di anni fa. E come principe ereditario Emanuele Filiberto, il ballerino televisivo. Ogni tanto mi viene da pensare se sia stato meglio Andreotti… Ma sì, nonostante tutto, perché possiamo “mandare a stendere” chi non governa bene, però dobbiamo andare a votare!!!
Mio suocero Cesare Revoldini (la “i” nel documento è un errore anagrafico) e mio padre Pietro non combatterono per questi “signori”, e neanche per alcuni delinquenti repubblicani che gli succedettero dal 1946 a oggigiorno. Poveri Pietro e Cesare.
Tutti e due sono “andati avanti“, prima Cesare, che non ho fatto a tempo a conoscere bene, e poi Pietro, mio padre.
Nessuno dei due ha avuto il tempo di conoscere la nipotina Beatrice, ma da quando è nata la guardano con occhi buoni da lassù, perché loro due sono solo “andati avanti“.
Intellectus, ratio, noùs–phrònesis, intelletto, ragione, prudenza, modi diversi di descrivere le facoltà intellettive dell’uomo, in latino, in greco, in italiano. Termini, assieme a molti altri, collocati nella storia dell’uomo occidentale (tralascio quella dell’homoorientalis, per la quale non possiedo competenze specifiche).
Proviamo a dirci brevemente che cosa intendiamo di solito per “intelligenza”.
L’intelligenza è un insieme di facoltà mentali e psichiche le quali, tramite processi cognitivi come l’apprendimento, la riflessione e la comprensione, consentono di capire le cose e i concetti producendo idee e pensieri, atti ad organizzare il comportamento soggettivo, in ogni senso e per qualsiasi fine. L’intelligenza non appartiene solo all’homosapiens, poiché in modi differenti è parte delle strutture psichiche degli animali e comunque di organismi viventi.
Di seguito un elenco di capacità derivanti dall’intelligenza: astrazione, logica, comprensione di concetti e fatti, autoconsapevolezza, apprendimento, conoscenza emotiva, ragionamento, pianificazione, creatività, pensiero critico, risoluzione di problemi, etc.
Si può anche dire che l’intelligenza è la capacità di percepire o dedurre informazioni anche non evidenti mediante l’intuizione, per applicarle come conoscenza e produrre comportamenti adattivi, per cui l’uomo riesce a cavarsela anche in situazioni limite (le grenz Situazionen di K, Jaspers).
John Locke
In realtà, non si può dire che tutti gli studi sull’intelligenza umana, anche ad oggi, non hanno ancora definito una declaratoria ufficiale dell’intelligenza umana universalmente riconosciuta e condivisa, tali e tante sono le differenze tra le strutture antropologico culturali e filosofiche presenti nelle varie culture mondiali, tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud del mondo.
Forse si può riconoscere che tutti convengono sul fatto che l’intelligenza sia la capacità/ facoltà, in particolare di un soggetto umano, atta affrontare e risolvere con successo situazioni e problemi teorici e pratici nuovi o sconosciuti. Analoga, anche se diversa, è descritta pure l’intelligenza “animale”, fermo restando che, biologicamente, anche noi sapiens siamo “animali”.
Per alcune scuole di pensiero, soprattutto antiche, la sede dell’intelligenza non è il cervello e la si identifica come la qualità, esclusivamente umana, di capire un fenomeno e le sue relazioni con tutti gli aspetti non apparenti che interagiscono con tale fenomeno, la capacità quindi di leggervi dentro.
Tradizionalmente l’intelligenza è stata attribuita alle sole specie animali, a partire dall’uomo, ma oggi essa viene da alcuni attribuita, in misura minore, anche alle piante e agli organismi unicellulari. Direi che basta intendersi: se definiamo l’intelligenza con facoltà essenzialmente adattiva al mondo, per analogia, possiamo attribuirla anche a ogni altro essere vivente.
Cominciamo a introdurre il tema dell’intelligenza artificiale, anticipando solo che essa si propone lo scopo di creare macchine che tentino di riprodurre o di simulare l’intelligenza umana.
Forse a questo punto è utile tornare alla linguistica che concerne il concetto e il lemma “intelligenza”, prima di approfondire il tema di quella artificiale.
La parola intelligènza deriva dal sostantivo latino intelligentĭa, a sua volta proveniente dal verbointelligĕre, “capire”.
Il vocabolo intelligĕre è formato dal verbo legĕre, “cogliere, raccogliere, leggere” con la preposizione inter, “fra” (quindi, ‘scegliere fra, distinguere’); l’intelligenza, quindi, è letteralmente capacità di stabilire correlazioni e distinzioni tra elementi (di “leggere tra le righe”, come si dice).
Una opinione autorevole, quella di 54 ricercatori di tutto il mondo che concordarono su questo testo:
«A very general mental capability that, among other things, involves the ability to reason, plan, solve problems, think abstractly, comprehend complex ideas, learn quickly and learn from experience. It is not merely book learning, a narrow academic skill, or test-taking smarts. Rather, it reflects a broader and deeper capability for comprehending our surroundings—”catching on”, “making sense” of things, or “figuring out” what to do.»
(IT)«Una generale funzione mentale che, tra l’altro, comporta la capacità di ragionare, pianificare, risolvere problemi, pensare in maniera astratta, comprendere idee complesse, apprendere rapidamente e apprendere dall’esperienza. Non riguarda solo l’apprendimento dai libri, un’abilità accademica limitata, o l’astuzia nei test. Piuttosto, riflette una capacità più ampia e profonda di capire ciò che ci circonda – “afferrare” le cose, attribuirgli un significato, o “scoprire” il da farsi.»
(Mainstream Science on Intelligence, 1994)
Alcune altre definizioni risalenti ai decenni scorsi:
La capacità generale di adattare il proprio pensiero e condotta di fronte a condizioni e situazioni nuove. (William L. Stern)
La misura della capacità di un agente di raggiungere obiettivi in una varietà ampia di ambienti. – (S. Legg e M. Hutter, quest’ultima definizione è stata formulata nel tentativo di sintetizzare una varietà di settanta altre definizioni diverse).
Guardandoci un po’ indietro ci possiamo soffermare possiamo soffermarci sul Saggio sull’Intelletto umano del filosofo inglese John Locke nel quale egli descrive la mente umana, dalla sua nascita, come una aristotelica tabula rasa (anche se non usa esattamente queste parole) riempita in seguito attraverso le esperienze. Il Saggio fu una delle principali fonti dell’empirismo moderno ed influenzò molti filosofi dell’Illuminismo, come George Berkeley e David Hume.
In quest’opera, di carattere filosofico-pedagogico, Locke sostiene che il processo di apprendimento prenda avvio dall’esperienza, che può essere interna o esterna al soggetto, la quale attraverso l’associazione di idee semplici, porta alla formulazione di idee complesse e di un giudizio. A ben vedere si può percepire come questa tesi abbia non soltanto un fondamento di tipo pedagogico (storicamente innovativo) ma anche un fondamento di tipo psicologico; la psicologia infatti pone alla base del processo di apprendimento oltre alla percezione e all’esercizio anche l’esperienza.
Il Libro II del saggio descrive la teoria delle idee di Locke, inclusa la distinzione tra idee acquisite passivamente, cioè le idee semplici, come “rosso”, “dolce”, “rotondo”, e quelle costruite in modo attivo, cioè le idee complesse, come i numeri, le cause e gli effetti, le idee astratte, le idee delle sostanze e quelle di identità e diversità. Locke distingue tra le qualità reali primarie esistenti dei corpi, come la forma, il movimento e la disposizione delle particelle che li compongono, e le qualità secondarie che sono “il potere di produrre varie sensazioni in noi” come il “rosso” ed il “dolce“. Queste qualità secondarie, afferma Locke, sono dipendenti dalle qualità primarie. Egli inoltre delinea una teoria della identità personale, offrendo un criterio largamente psicologico.
Dopo questa carrellata assai sommaria (ad esempio non ho interpellato in grandi filosofi greci classici, perché proposti altrove in questo sito e per non appesantire troppo questo testo) sulle teorie moderne e contemporanee su ciò che si debba intendere con il termine “intelligenza”, passiamo a dire qualcosa sulla intelligenza artificiale (in sigla IA), che è una disciplina dedicata allo studio delle possibilità circa se e in che modo si possano progettare e realizzare sistemi informatici in qualche modo definibili “intelligenti”, al punto da essere in grado di simulare la capacità e il funzionamento del pensiero umano.
«L’intelligenza artificiale è una disciplina appartenente all’informatica che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.» (Definizione accettata dal Parlamento europeo nel 2020)
Definizioni specifiche possono essere date focalizzandosi sui processi interni di ragionamento o sul comportamento esterno del sistema intelligente e utilizzando come misura di efficacia la somiglianza con il comportamento umano o con un comportamento ideale, detto razionale:
Agire in modo analogo a quanto fatto dagli esseri umani: il risultato dell’operazione compiuta dal sistema intelligente non è distinguibile da quella svolta da un umano.
Pensare in modo analogo a quanto fatto dagli esseri umani: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere un problema ricalca quello umano. Questo approccio è associato alle scienze cognitive.
Pensare razionalmente: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere un problema è un procedimento formale che si rifà alla logica.
Agire razionalmente: il processo che porta il sistema intelligente a risolvere il problema è quello che gli permette di ottenere il miglior risultato atteso date le informazioni a disposizione.
L’intelligenza artificiale è una disciplina dibattuta tra scienziati e filosofi poiché manifesta aspetti concernenti in modo molto importante la dimensione etica dell’agire umano oltre che teorici e pratici. Ad esempio, Stephen Hawking nel nel 2014 ha messo in guardia riguardo ai pericoli dell’intelligenza artificiale, considerandola una minaccia per la sopravvivenza dell’umanità.
Riportare di seguito un parere recentissimo di Geoffrey Hinton, ritenuto il principale “inventore” della A.I. Hinton ha espresso opposizione all’uso di armi letali a controllo automatico. Generalmente si rifiuta di esprimere predizioni a lungo termine riguardo ai rischi della singolarità tecnologica, osservando che il progresso esponenziale nel settore causi troppa incertezza sul futuro.
Tuttavia, il periodico The New Yorker gli ha attribuito una recente conversazione con il ricercatore Nick Bostrom nella quale avrebbe affermato di non aspettare lo sviluppo di un’intelligenza artificiale forte prima di diversi decenni (“non prima del 2070”) e che non ci sia speranza di controllare l’uso dell’intelligenza artificiale nel futuro, affermando che i sistemi politici ne faranno uso per terrorizzare la popolazione, e che entità come la National Security Agency stiano già cercando di sfruttare tali tecnologie. Riguardo ai rischi della singolarità tecnologica, non esclude la possibilità di sopravvivenza dell’umanità, ma osserva che non ci sono precedenti di una specie di intelligenza inferiore capace di controllare una specie superiore.
In un’intervista rilasciata al New York Times nel maggio 2023 (qualche giorno fa), Hinton rivalutò le sue previsioni sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale, affermando che la sua precedente aspettativa sul tempo necessario per lo sviluppo della tecnologia (30-50 anni nel futuro) fosse sbagliata e il progresso stia avvenendo più velocemente, sostenendo che i ricercatori dovrebbero evitare di applicare la tecnologia su larga scala fino a quando non sono confidenti di essere in controllo.
Tanto per non dimenticare: l’Intelligenza artificiale. Molti certamente ricordano il film Minority report, nel quale Tom Cruise fa parte della polizia predittiva, che si occupa di prevenire i delitti e arresta i probabili/ possibili/ (quasi) certamente progettatori ed esecutori di delitti di tutti i generi.
Nella sceneggiatura di questo film di Spielberg l’intelligenza artificiale lavora mediante collegamenti informatici che imitano l’intelligenza umana mediante l’analogia e la logica razionale di base, ma, di contro, come abbiamo visto, un pensatore laicissimo come Stephen Hawking, ancora nel 2014, ha messo in guardia l’ambiente accademico e il sistema massmediologico dai pericoli dell’AI.
Per concludere può essere utile ricordare i prodromi dell’intelligenza artificiale, che si possono trovare addirittura nei secoli passati, in alcune ricerche di matematici e fisici come, nel 1623 Wilhelm Schickard, nel 1674 Gottfried Wilhelm von Leibniz, nel 1834, 1837 Charles Babbage, nel 1937 Claude Shannon a Yale, nel 1936 Alan Turing, e poi Mc Culloch e Pitts nel 1956 al Dartmouth College, fino alle ultime evoluzioni fisico-informatiche.
Tutto bello (o quasi), perché tutto ciò che la scienza produce è importante per l’uomo e per l’umanità tutta, specialmente quando scopre ciò che può essere utile in natura e si muove per proteggere la natura come in questo periodo sarebbe essenziale. La scienza e la tecnica possono servire per ridurre l’inquinamento da combustibili fossili… ad esempio, riprendiamo con il nucleare di ultima generazione? … e quando servono per migliorare la difesa del territorio e del clima terracqueo, nonché per sconfiggere sindromi e malattie.
Ma l’intelligenza artificiale, se considerata addirittura sostitutiva di quella umana, rischia di essere una delle modalità attuali del peccato di superbia. Sto pensando alla gravidanza surrogata, alla clonazione umana, a tutto ciò che mette in questione la struttura morale della realtà naturale.
Il rischio è che questo nuovo strumento sia considerato più per quello che può essere definito “Effetto Wow“, come spesso capita alle novità in questa società iper-mediatizzata e dell’immagine apparente sine ulla essentia (senza alcuno spessore).
E’ vero che la cultura umana ha modificato la natura delle cose, ma non bisogna esagerare. A questo proposito, ci si deve porre, a mio parere, una domanda: c’è un sapere che riesce e mettere in guardia da questo rischio? Domanda retorica, perché la risposta è di tutta evidenza, almeno da due millenni e mezzo.
Questo sapere è sempre e comunque la Filosofia. La filosofia non morirà mai e non potrà essere sostituita assolutamente dal machine learning, poiché questo sapere umano si interroga sui princìpi primi, sulle ragioni dell’esistenza umana cosciente nel mondo, sul funzionamento della logica e dell’argomentazione razionale,sul bene e sul male, sulle scelte morali e sulla scala virtuosa o viziosa dell’agire libero.
E, oltre alla frequentazione dei grandi classici, dai due Greci che non occorre nominare tanto sono conosciuti, che distinguevano fra intelletto e volontà, un modo straordinario di classificare le principali facoltà umane che si integrano, ad Agostino e Tommaso d’Aquino, fino a Kant e Hegel, a Heidegger, a Emanuele Severino, e al padre Cornelio Fabro, da Flumignano di Talmassons (Ud) per la cui biografia scrissi la prefazione, mi consolo con questo pensare.
Il compito di chi la pratica è immenso, ed è un consigliabile dovere per tutti accettarne le critiche e le proposte per partecipare a un dialogo in grado di definire il migliore utilizzo di questo strumento.
Ci penso ogni giorno per rinforzare il mio impegno, nel mio piccolo, per proporre la filosofia come sapere che riesce, analizzando con cura razionale ogni cosa e ogni fatto, a discernere le strade buone dalle strade male della vita di ognuno, delle famiglie, delle aziende e di ogni gruppo organizzato, dei popoli e delle nazioni.
L’incipit del titolo sintetizzato in a) mi servirà per concludere questa riflessione basata sul contrasto radicale che si registra tra qualità del lavoro italiano e qualità della politica attuale.
…la più clamorosa, (quasi) incredibile e ignorante è quella del Presidente del Senato (la Seconda carica dello Stato, vale a dire che, se l’attuale Presidente della Repubblica Mattarella dovesse essere indisposto al punto da non poter esercitare le sue funzioni costituzionali, lo sostituirebbe… La Russa! Ahimè). Ecco le parole di Ignazio La Russa: “…nella Costituzione non c’è nessun riferimento all’antifascismo“. Qualcuno ha risposto correttamente, mi pare Schlein, che la Costituzione della Repubblica Italiana è l’antifascismo, ontologicamente, prima ancora che eticamente e politicamente!
babbalei
Il leghista Lorenzo Fontana, invece, volendo citare il prof Vittorio Bachelet ucciso dalle Brigate Rosse il 12 Febbraio 1980, dopo una lezione a La sapienza, parla di un Vittorio Bàkelet. Troppo giovane, Fontana, forse, non ricorda…
Lollobrigida Francesco, di Fratelli d’Italia, per dire che, a fronte del calo delle nascite autoctone in Italia e al profluvio di arrivi di extracomunitari africani e asiatici, parla di sostituzione etnica. Nel mondo e nella storia i popoli e le persone si sono sempre mossi e mescolati. In realtà il meticciato variamente declinato è una conseguenza di molti movimenti. Noi stessi, che antropologicamente ci definiamo caucasici, abbiamo geni in misura diversa di indescrivibili ceppi etnici. Non sostituzione, dunque, ma mescolanza, che peraltro (come è noto) irrobustisce la struttura genetica.
Un giornalista parlamentare: “Scusatemi, ma ho un patè d’animo”, non si sa se scherzasse o meno. Un patè d’animo, magari per dire di avere l’anima un po’ sfilacciata… chissà.
Giornalisti vari nel tempo: avrai notato, caro lettore, che se costoro debbono riferire di una difficoltà, di un conflitto, di una controversia politica, a seconda della gravità dei fatti utilizzano un semplice climax (da un minimo a un massimo): bufera, solo e sempre bufera, se le cose sono componibili, mentre gli scappa indefettibilmente di penna… il termine biblico apocalisse, se sono di micidiale gravità. Vada per bufera, nel senso di un vento forte (metaforico), ma apocalisse proprio non c’entra, poiché significa “rivelazione”; eppure ci sarebbero anche altri termini in buon italiano, come catastrofe, cataclisma, disastro e perfino ecatombe, sempre una metafora, che significa “strage di cento buoi”… Tutte parole greche, ma apocalisse è proprio la meno adatta.
Un politico di qualsiasi gruppo o schieramento ebbe a dire: “Come dirò poc’anzi...” Ah ah ah…
Un politico di cui non ricordo il nome: “…la spada di Temistocle“, e perché non di Milziade o di Pausania o di Senofonte?
Un altro politico ebbe ad esclamare: “Cari amici, ho saputo di un’improvvisa moratoria di pesci in Adriatico“. Moratoria mortuaria.
Un ennesimo politico un giorno affermò tutto giulivo: “Sono felice di trovarmi nel luogo che mi ha dato i genitali“. Eccolo là.
Un politico vicentino: “Avete letto Arcipelago Gulatsch?” Io no, e tu, caro lettore?
Berlusconi un giorno giudicò il Presidente degli Sati Uniti Barack Obama “un po’ abbronzato“. Eeeeh!
Maria Stella Gelmini: “Per le sperimentazioni di una nuova tecnica di comunicazione esiste un tunnel scavato tra il Monte Bianco e il Gran Sasso“. Cavolo, non lo sapevo proprio!
L’ex ministro Claudio Scajola informò la stampa che “…aveva avuto una casa fronte Colosseo a sua insaputa“. Beatissimo lui. Ereditiero.
Di Battista, 5Stellato storico, per gli amici il “Dibba”: in un intervento politico si espresse con questa citazione “…la battaglia di Auschwitz“. Evidentemente l’assonanza con Austerlitz, non frequentando abitualmente (lui) testi di storia, lo ha imbrogliato nella memoria a medio termine. Si giustificò dicendo che si era sbagliato in un discorso a braccio (peraltro alla Camera dei deputati, non al Bar sport). Meglio preparare una scaletta, allora, evitando la supponenza, o no?
Il famoso Matteo Salvini un giorno si espresse su un modo verbale in questo modo: “...il gerundio “migrante” è un modo… etc.” Non avrebbe potuto evitare di mettere in evidenza le sue conoscenze grammaticali?
Un ennesimo politico disse un giorno: “…sarò breve e circonciso“, ma non era di religione ebraica, forse solo “breve” intellettualmente.
Il Presidente Luigi Einaudi segnalava che la maggior parte degli interventi dei politici erano scarsi o addirittura privi di contenuti, al suo tempo. Figuriamoci oggi, al tempo dei social e dei carneadi eletti.
E veniamo all’ultimo. Per dare una definizione di Personal Shopper basterebbe dire che è un consulente per gli acquisti: accompagna cioè i propri clienti nello shopping fornendo consigli su cosa comprare, curando la loro immagine, suggerendo gli acquisti migliori in fatto di abbigliamento e accessori per realizzare lo stile che meglio rispecchia i loro desideri e le loro necessità.
Per fare questo, innanzitutto deve capire chi è il cliente, che cosa vuole e di che cosa ha bisogno, cercando di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili per delineare il suo stile di vita. Compito primario del Personal Shopper è infatti curare l’immagine che il suo cliente vuole dare di sé al resto del mondo.
Per fare tutto questo il Personal Shopper sfrutta la propria conoscenza approfondita di boutique, negozi di moda, piattaforme di e-commerce, brand e trend del momento e va alla ricerca dell’acquisto più indicato a seconda delle diverse esigenze del cliente. Cosicché questa figura si impegna a accompagnare il cliente in tour di shopping nei negozi fisici e online; consigliare cosa comprare e dove per poter avere il prodotto migliore al prezzo più basso; suggerire abbinamenti e combinazioni di outfit; fornire consigli su colori, tessuti e vestibilità.
Da questa descrizione intuiamo come il lavoro del Personal Shopper sia totalmente personalizzato sulle esigenze di ogni singolo cliente: non esiste una ricetta comune a tutti da poter sfruttare per dare consigli sugli acquisti. Inoltre, il Personal Shopper deve creare un’esperienza di acquisto totale, che coinvolga sia gli aspetti dell’acquisto concreto che tutto ciò che a esso è correlato, come i pagamenti o il ritiro dei prodotti (nel caso venga effettuato online).
Non esistono ad ora corsi specifici per diventarlo, perché è una professione recente, che non è regolata e per cui non esistono percorsi di formazione accademici specifici.
Si stanno però predisponendo dei corsi per che affrontano tematiche come:
la psicologia dell’acquisto;
le tecniche di counselling;
l’analisi dell’immagine;
l’analisi del colore;
lo studio e organizzazione del guardaroba;
le tipologie di abbigliamento per le varie occasioni (da sera, business dress, casual…);
il suggestive selling;
la ricerca dei trend;
elementi di servizio clienti e customer satisfaction.
Ovviamente elemento imprescindibile per iniziare a lavorare come Personal Shopper è la conoscenza del mercato della moda, cioè negozi, marchi, prodotti e tendenze. Un plus (pronunzia “plus”) è rappresentato dalla conoscenza delle lingue straniere come arabo, cinese, russo, giapponese, soprattutto nel caso in cui si voglia sfruttare quell’ampia fetta di mercato rappresentata dal turismo per gli acquisti di cui l’Italia è meta
(Riprendo dal web) “A Schlein non si perdona invece quello che tutti i leader politici fanno dal Dopoguerra. Chissà cosa avrebbero detto di Alexandria Ocasio- Cortez che, nel 2020, fece una serie di video, proprio per Vogue, in cui parlava della sua make up routine quotidiana, spiegando che lo faceva per ribadire dire che «non è vero che se una donna impegnata in politica si interessa al beauty e alla moda questo la rende frivola». Chissà se Schlein quando ha scelto quel magazine voleva provocare i conservatori come la sua collega americana, che ha da tempo come modello.
Di certo l’armocromista- shopper Chicchio ieri non l’ha aiutata a dribblare i clichè, quando ha detto di averle scelto un trench verde glauco (tradotto: salvia) che ha «sostituito l’eskimo» e che «sposa il suo incarnato delicato e richiama il verde che nei nostri ricordi si accompagna a giornate immerse in quella natura che va protetta e custodita». Forse certi “consigli per gli acquisti” è meglio tenerli riservati. E magari, ogni tanto, riprendere dall’armadio quell’«eskimo innocente», che per magia sopisce ogni polemica.”
Non ho commenti ulteriori, perché sono d’accordo che una donna (ma anche un uomo) si tenga bene per rispetto di sé e degli altri, e mia figlia (che se ne intende) mi rinforza nel giudicare positivamente l’intervista di Schlein a Vogue. Dico solo che – politicamente – in questo momento storico avrei messo in ordine, molto prima di un’intervista del genere, altre priorità, soprattutto la preparazione storico-politica, come segretario del maggiore partito della sinistra italiana, anche per cercare di evitare al massimo le ovvietà, le imprecisioni e gli imbarazzi che si evidenziano o “scappano” a una inesperta come questa giovine signora.
…se si ha la voglia dell’ascolto. Racconti davanti a un taj di vin, nella quiete di un sabato tranquillo di mezza primavera. Eccoli…
La Fiera dei Sanz a Rivignano
Più o meno cinquanta anni fa il paesone è immerso nella calura. Il silenzio meridiano avvolge le case e i cortili. La gente è nascosta nelle case in attesa che rinfreschi per tornare ai campi. C’è chi è andato in fabbrica nella città di Pordenone o dove si fabbricano sedie a Est: gli uni e gli altri sono partiti prestissimo, verso le sei di mattina, con torpedoni blu verso la Rex e con pulmini da sette posti o automobili private (era già un car sharing ma si chiamava, grazie a Dio in italiano, “una settimana a testa”) verso Manzano e dintorni. Esperienze mie quando da operaio studiavo scienze politiche.
Le botteghe artigiane sono chiuse per la pausa pranzo. Riapriranno verso le quattro (in paese si usa il modo di contare le ore del giorno all’americana). Il calzolaio Sabatini, il fabbro Giona, il meccanico di biciclette Carlo e quello delle auto Bruno Cumar, il fabbricante di cisterne Rosario, il barbiere Mario e la parrucchiera siore Lise, i negozi di alimentari presenti in ogni quartiere, la rivendita di vino e olio di siôr Toni Grosso, hanno le serrande abbassate o i portoni chiusi. Stanno tutti sonnecchiando anche per un bicchiere di vino fresco bevuto con la pastasciutta.
Qua a là dagli scuri socchiusi delle finestre una radio trasmette canzoni; va di moda, a ora di pranzo, la trasmissione con le dediche di Radio Capodistria, che accoglie ogni tipo di richiesta di canzoni. Noto che dall’Emilia Romagna o dal “rovigotto” arrivano spesso calorose richieste di ascoltare Bandiera Rossa o l’Innodei lavoratori. Tra i cantanti e le cantanti spopolano Claudio Villa con Granada, Morandi con il meraviglioso trittico degli anni ’60 Se non avessi più te, Non son degno di te, In ginocchio da te, il confidenziale Bongusto con Una rotonda sul mare, Gino Paoli e la sua Sapore di sale, la Berti con Tu sei quello, la potente voce di Iva con La riva bianca la riva nera; poi c’è anche la Vanoni con La musica è finita, Caterina Caselli e la sua hit più grande Perdòno, Mina Mazzini esuberante e tenera con la Banda e Se telefonando, e vi è anche Nico Fidenco con l’estiva Un granello di sabbia. E i complessi! I Rokes con C’è una strana espressione nei tuoi occhi, l’Equipe 84 con Bang Bang e 29 Settembre, mentre la roca voce del cantante de I Corvi spiega chi è Un ragazzo di strada. Il primo Battisti con Per una lira, e poi dei comprimari di successo, come Riky Maiocchi, che canta la struggente Uno in più, e il tenebroso Roby Crispiano con Un uomo nella notte. E molti altri…
Ogni tanto qualche cantante estero: un Sinatra d’antàn con Strangers in the night, oppure la greca Nanà Mouskouri con Rosso corallo; mi fermo ad ascoltare Françoise Hardy, che mi piace molto, con Parlami di te. E Caterina Valente, raffinata come poche, molto “americana”.
Dimenticavo Bobby Solo e Little Tony, in gara a chi rockeggiava di più, e l’immenso (per quei tempi) Adriano Celentano che sparava nell’aria tersa del primo pomeriggio la sua Azzurro, che però era di Paolo Conte.
Non era ancora il tempo dei cantautori, anche se Guccini e De Andrè già avevano pubblicato alcuni capolavori, ma “il paese” non era pronto ad accoglierli. Solo io e pochi altri giovani “intellettuali” cominciavamo a comprare qualche Long Playing, tra i quali si intrufolava anche Bob Dylan.
Quella era la vita del paese, in un’estate qualsiasi di mezzo secolo fa. I bar o caffé e le osterie erano invece tutte aperte: uno spaccato di sociologia paesana, perché le frequentazioni erano diversificate. Il popolo operaio e contadino, ad esempio, non andava da Fantini, in piazza, ma piuttosto Alla Campana o Alle Piramidi (lis Peramulis, dalla presenza delle due statue dei leggendari fondatori del Paese, Drin e Delaide, Sandrin e Adelaide, buttati giù dalla fascistaglia durante il regime e rimessi in sesto da un’amministrazione di centro-destra intelligente in tempi recenti).
Anche le sedie marcavano le differenze di classe nei vari “ambienti”. Se quasi ovunque le sedie degli ambienti erano di metallo, solo da Fantini erano di vimini, poltroncine sistemate all’esterno, comode, dove si assidevano i maggiorenti semper giudicanti con piglio severo chi passava in bicicletta, mentre lanciava uno sguardo tra l’intimorito, l’invidioso e il rassegnato verso i siôrs.
Anch’io sono stato spesso oggetto di sguardi e giudizi, anche perché, figlio di povera gente, avevo “osato” andare al Liceo classico e prendere qualche posizione politica un po’ di sinistra, come quando avevo cantato in chiesa l’AveMaria di De André. Il mio “paese”, come peraltro il Friuli, è sempre stato un pochino “di destra”, salvo rari periodi, come quando fui eletto consigliere comunale, avevo ventidue anni, indipendente nella lista di Unione democratica, composta da PCI, PSI e PSDI. Sindaco PSDI, ovviamente, il più moderato. Io ero stato proposto unitariamente da tutti e tre i partiti per rappresentare “i giovani”, che mi avevano poi votato in massa.
Il barbe Toni , fratello minore di mame Gigje, o Luisa (come la chiamava mia cugina Lucilla Morlacchi di Milano, l’attrice: zia Luisa) era da Nando, un caffè pizzeria interclassista. Aveva bevuto un paio di MorettiSans Souci bionde da terzo di litro, con l’etichetta del Mercurio d’Oro, e stava affrontando la terza, con un paio di vecchi amici che non aveva dimenticato, dopo la sua migrazione nel Canada del Nord, in British Columbia. Al servizio si affacendavano Lucio, il figlio del titolare e Silvestro, un abile cameriere veneto oramai friulanizzato da un decennio. Lui veniva da San Bonifacio di Verona e si era sistemato con Toscana e papà Vittorio ad Ariis, sul fiume Stella. Contadini. A un certo punto Toni sbotta: “sint tu, sêtu tu che tu morosis cun me gneze, la Marina?” (Mia sorella).
“Si, che soi jo“, risponde il giovanotto friulanizzato… “va ben, viôt che vignarai a cjase to par cognossiti“. Così funzionava al tempo, caro lettore. E il barbe Toni andò a trovare il futuro nipote, che gli parve un uomo serio e posato, visto che aveva diversi anni più di Marina. Un lavoratore, così come si confermò nel tempo.
Villa Ottelio-Savorgnan ad Ariis, sul Fiume Stella
Una volta Silvestro era andato a Udine, ma era stato “dimenticato” all’Ospedale Santa Maria della Misericordia da don Adolfo, il parroco di Ariis, che lo aveva portato su con la sua Fiat Cinquecento. Avevano l’appuntamento alle dodici davanti al nosocomio, ma don Adolfo era tornato a casa senza il suo amico. Allora Silvestro si era arrangiato prendendo il bus e poi la corriera per il paese.
A sera il piccolo parroco era passato di là dicendo che gli dispiaceva di averlo abbandonato a Udine. Se lo era ricordato celebrando la Messa serale. Finì tutto con un bicchiere di vino in compagnia e una fetta di salame con la polenta arrostita di Toscana.
Anni prima, quando Silvestro faceva il militare di leva, mentre i suoi si erano trasferiti dal veronese al borgo rurale friulano, un bel giorno torna in licenza da Bolzano, arriva a Udine ma non sa come andare nella sua nuova casa di Ariis. Si guarda in giro finché un signore in età, vedendolo in difficoltà, gli chiede se ha bisogno di aiuto. “Sì”, risponde Silvestro, e gli spiega di avere perso l’ultima corriera per il paese. Il signore, gentilissimo, gli dice che non c’è nessun problema, perché lui abita vicino e lo avrebbe portato a casa non appena fossero tornati dal cinema sua moglie, sua figlia e suo genero.
E così andò. Silvestro fu a casa sua, la nuova casa nel borgo rurale perso nelle umide campagna di risorgiva. Ma ci fu un sequel, perché, una volta che Silvestro ripartì per il periodo di leva, quel signore gentile aveva cominciato a frequentare casa sua, laddove ogni volta mamma Toscana lo riforniva di un coniglio, di una faraona, di un pollo. L’uomo si faceva pagare in natura il piccolo piacere di quella notte udinese. Quando Silvestro, che è un tipo puntiglioso, seppe della vicenda e andò a trovarlo al suo paese, l’uomo gentile fece finta di nulla, ma non si fece più vedere al borgo rurale, forse un pochino vergognoso.
Pietro si sveglia a Zagabria. Non aveva cambiato a Salisburgo, perché si era addormentato sul treno, stanchissimo, e aveva dormito fino a Zagabria. Pietro tornava dalla “stagione” in cava di pietra a fine novembre. Avrebbe passato un paio di mesi a casa e poi sarebbe ripartito per quel paesino in mezzo alle foreste dell’Assia, come faceva oramai da anni, assieme a diverse decine di altri uomini che aveva trovato disponibili alla grave trasferta annuale. Un lavoro durissimo, pericoloso. La cava di pietra era un luogo di lavoro terribile e faticoso, ma Pietro lo aveva accettato anni prima, perché in Italia non c’era lavoro. In quel luogo poté lavorare per mantenere la famiglia e farmi studiare fino al diploma di Liceo classico. E da lì mi involai sul suo sacrificio eroico.
Toni “macchia” era così apostrofato perché gli avevano visto qualche macchia ambigua sui pantaloni. Lavorava da apprendista da un fabbro, il primo fabbro del paese, perché era forte e robusto come un toro: un metro e ottantadue per novanta chili, per quei tempi era quasi un colosso. Non si è mai capito quale origine potessero avere quelle macchie: c’era perfino chi insinuava di incontri clandestini con una delle sue spasimanti nell’officina del mastro fabbro e maniscalco, o il residuo di qualche starnuto di cavallo o mulo (si ferravano anche i muli, allora).
Una volta Pietro e Silvestro litigarono (per modo di dire). Pietro voleva sempre aiutare Silvestro nell’orto, ma ognuno dei due aveva un modo di lavorare che a volte non coincideva con quello dell’altro. Una volta, vi fu una gara con due badili per seminare le patate: quando Pietro vide che non poteva star dietro al genero in velocità (lui nella vita aveva sempre battuto tutti in velocità sul lavoro), buttò a terra il suo badile e andò a casa borbottando. Non poteva ammettere di non farcela.
Lo sticâ (vangare) era un compito storico di Pietro. Una volta Silvestro gli aveva affidato il compito di mescolare le zolle attorno a ogni vite del vigneto, ma in modo delicato e non molto profondo, ma Piêri che voleva sempre far fatica (altrimenti non era neanche un lavoro) non ci stava e vangò troppo profondamente a rischio di scoprire le radici. Silvestro allora si inquietò e Pietro non la prese bene. Come nel caso precedente, se ne andò via brontolando. Pietro, mio papà.
Un’idea, solo un’idea venutami mentre parlavo con i colleghi dell’Associazione Phronesis, quella di poter ciascuno di noi farsi ambasciatore di filosofia laddove vive, dove lavora, dove si diverte, dove si cura o cura gli altri, dove studia, dove fa sport.
Non si può imporre il sapere, nessun sapere, un sapere che si occupa del sapere non si impone, perché è uno stile di vita e una scelta morale. Ma la filosofia può “vivere” ovunque, come provo a fondare con esempi.
Un esempio concernente la filosofia e la famiglia: la famiglia vive avvalendosi di molte discipline e ambiti, a partire da quello relazionale. La famiglia è il luogo per eccellenza dove si sviluppa la relazione affettiva che “produce” sentimenti e quindi vita, ma nel contempo essa sviluppa economia e logistica, economia con il reddito prodotto dai partecipanti, dal lavoro che compiono, sia che i componenti siano imprenditori sia che siano lavoratori. E la filosofia? Beh, permea tutta la vita della famiglia con l’apprezzamento della pari dignità di tutti i componenti, insieme con l’irriducibile differenza di ciascuno, per ruolo, età, contributi alla famiglia stessa: in famiglia si praticano, di fatto, senza dichiararlo, saperi come l’antropologia filosofica, come l’etica della vita umana e come un’economia sociale egualitaristica. Quanta filosofia!
Un esempio concernente la filosofia e la politica: addirittura possiamo dire che la filosofia costituisce i fondamenti della politica, sia come filosofia politica sia come filosofia del diritto, poiché la politica – tautologicamente – governa la polis e la governa tramite leggi condivise perché votate a suffragio universale, che è il sale e il metodo aureo della democrazia. Nella politica, però, sopravvive subdolamente un nemico acerrimo della filosofia: l’ideologismo. Si badi bene, non sto riferendomi alle ideologie politiche, che dai tempi antichi fino alla contemporaneità sono state il sistema nervoso e “affettivo” dei sistemi politici e di governo: vi erano partiti nel mondo semitico ebraico (da destra a sinistra, utilizzando indebitamente e anacronisticamente lo schema della Rivoluzione Francese), i sadducei, i farisei, gli zeloti, gli esseni; vi erano dei partiti nell’antica Roma, i populares e gli optimates; sono vissuti dei partiti nel Medioevo, i guelfi e i ghibellini addirittura, gli uni e gli altri, suddivisi al loro interno in sotto gruppi (i bianchi e i neri tra i guelfi: Dante Alighieri era un guelfo nero, vale a dire un cattolico laico, Romano Prodi direbbe “adulto”); i partiti moderni sono nati, infine, per sintetizzare, dalla Rivoluzione Francese, con i concetti “logistici” di destra, centro e sinistra (in quei frangenti si distinguevano da destra a sinistra, in vandeani, girondini, giacobini e montagnardi), a loro volte ulteriormente suddivisi – in tempi recenti – in numerosi altri partiti, più o meno numericamente e politicamente consistenti.
Non cito in questa sede le suddivisioni politiche orientali, come quelle del ceppo indo-cinese e giapponese, che complicherebbero troppo il testo.
Le ideologie politiche sottese a ogni schieramento, ad esempio, citando quelle moderne, il conservatorismo storico, il liberalismo, il socialismo, il comunismo, il cattolicesimo democratico e/o conservatore, l’ambientalismo, etc., sono state e sono ciò-che-dà-senso e ragion politico-morale alla stessa militanza e appartenenza a uno schieramento. Ben diverso dalle ideologie, che sono non solo legittime ma necessarie, è l’ideologismo, che è quella forma di pensiero escludente che pone davanti a ogni giudizio su un atto o una posizione altrui non condivisa, la lente della militanza, che non solo non è di aiuto alla qualità dell’analisi, ma è fuorviante proprio sotto il profilo di una filosofia politico-morale che rispetti, democraticamente, sia il pensiero altrui, sia la sua legittimità etica, così impedendone la legittimazione fors’anche giuridica.
Mi spiego meglio: non sto dicendo che non si debbano riconoscere i diritti incomprimibili di chi vuole lottare contro una tirannia, un’autocrazia o una dittatura criminale (ho in mente ovviamente il nazismo, il fascismo e il comunismo staliniano e polpottiano) con ogni mezzo, anche militare, poiché si tratta di lottare contro delle deformazioni mostruose e disumane della politica, che non intendono ragioni democratiche, ma sentono solo l’uso di una forza o addirittura l’esercizio di una necessaria violenza (ad e. la Resistenza italiana), ma sto dicendo che non si devono applicare le lenti dell’appartenenza politica quando, in un regime liberal-democratico come il nostro, garantito da una splendida Carta costituzionale, che è intrinsecamente antifascista, si rischia di non legittimare esplicitamente un avversario politico, semplicemente perché si ritiene che non abbia completo “titolo democratico”, magari perché provvisto di mezzi comunicazionali importanti (Berlusconi, ad e.). Questo è stato uno dei limiti di cultura politica della sinistra in Italia negli ultimi trent’anni. Un esempio illuminante: si pensi agli USA, dove i candidati alla presidenza sono legittimati a raccogliere risorse pressoché senza limiti per le loro campagne elettorali tese a vincere, nazione dove sussiste, pure nei limiti umani, una vera democrazia e un reale equilibrio “montesquieiano” tra i poteri, soprattutto tra quello esecutivo (governo) e quello giudiziario (magistratura).
Contro l’ideologismo la filosofia è un anticorpo forte, perché può mettere in campo la logica, l’etica, un’antropologia umanistica completa, e anche (se si vuole) la stessa metafisica classica, che riconosce la validità/ verità essenziale di ogni ente, quindi, nel nostro caso, anche dell’avversario politico, che non va mai “demonizzato”, ma vigorosamente combattuto.
Un esempio riguardante la filosofia e la scuola: a scuola la filosofia permea ogni agire, dai suoi contenuti culturali e disciplinari agli aspetti pedagogici e didattici. La filosofia è un “ambiente”, non solo una materia che andrebbe proposta nelle scuole di ogni ordine e grado, se pure in modi metodologicamente diversi, ma è anche un anticorpo previo contro l’ideologismo che può svilupparsi nell’età adulta. Mi spiego meglio con alcuni paradossi, citando tre grandi pensatori contemporanei, Karl Marx, Friedrich Nietzsche e Giovanni Gentile. Ebbene, pur essendo (nel comune sentire) i prodromi ideologico-filosofici, rispettivamente, del comunismo realizzato (spesso chiamato furbescamente socialismo, che è tutta un’altra “cosa”), del nazionalsocialismo e del fascismo, se si volessero studiare nel profondo, possono anche essere il fondamento di una critica alle tre deformazioni politiche. Marx, pur fondando una politica che poteva essere, in sé, violenta e autoritaria (peraltro ai tempi dei suoi studi e della sua militanza politica eravamo a metà Ottocento, e i lavoratori erano ferocemente sfruttati), non avrebbe mai accettato le derive paranoiche e delinquenziali dello stalinismo e del polpottismo, dicendola qui con molta semplicità; Nietzsche, proponendo una critica al cristianesimo in qualche modo “prono ai troni” dei suoi tempi, e proponendo ed esaltando il concetto di “superuomo”, l’Übermensch, non sottende alcun sentimento razzista e antisemita, ma intende e propone che l’uomo debba saper trovare dentro sé stesso la forza per “superarsi”, per andare-oltre la mediocrità e raggiungere il livello morale e culturale che gli spetta: nulla, dunque, a che vedere con il nazismo; Gentile è stato iscritto al fascio, ha vissuto al suo interno, è stato ministro nei primi governi Mussolini definendo anche una robusta riforma della scuola che è sopravvissuta fino a pochi decenni fa, riforma criticabile per certi aspetti, come la suddivisione troppo rigida tra saperi scientifici e umanistici (che invece sono co-esistenti e co-presenti in tutte le discipline di insegnamento), ma non è mai stato razzista e antisemita. Ed è stato ucciso da un commando partigiano sulle porte di casa, con un’azione che, a mio giudizio, è stata inutile e stupidamente crudele.
I tre paradossi stanno a significare come la filosofia, nella sua storia, dai pre-socratici ai contemporanei, possa essere un filo rosso unitivo di tutti i saperi proposti, magari attraverso la logica formale che collega la matematica alle discipline “umanistiche”.
Un esempio riguardante la filosofia e la sanità: i servizi sanitari si occupano dell’uomo, di tutto l’uomo, dell’uomo integrale, della psiche e del sòma, dell’anima–mente-spirito e del corpo. Quello sanitario è – con quello della scuola e dell’università – il servizio pubblico di gran lunga più importante. La filosofia permea tutto quell’ambito, completamente, anche se non ci si rende sempre conto di ciò. L’eticadella vita umana o bioetica deve sovrintendere a tutto l’agire medico-infermieristico, dalla nascita alla dipartita di ogni essere umano da questa vita. Ogni azione sanitaria con le sue correlazioni socio-assistenziali possiede intrinsecamente una dimensione eticamente fondata e quindi filosofica, sia quando si tratta di scelte cliniche di merito, che prevedono sempre un discernimento morale, sia quando si gestisce ciò che attiene alla spesa e agli investimenti nel settore, che non deve essere considerato secondario a nessun altro.
Temi come l’inizio e il fine vita, come l’affacciarsi al mondo e le “cose-ultime”, sono filosofici, e per chi ha la fede, religiosi, e non possono essere trattati in modo meccanicistico e ancora meno economicistico, come traspare abbastanza spesso. Non ci devono essere schieramenti contrapposti tra chi-è-per-l’eutanasia e chi è contrario, ma si deve riflettere a partire da ciò che si attribuisce in termini di valore alla vita e a ciò che significhi l’abusato sintagma qualità-della-vita. Non faccio esempi di cui ho già qui trattato nel corso del tempo: la mia raccomandazione è questa: non ci si faccia, anche su questi temi, travolgere dall’ideologismo dell’appartenenza, per cui se si è radicali-di-sinistra si è per l’eutanasia e per la gravidanza per altri, mentre se si è cattolici (magari, prodianamente “poco o non-adulti) si è contrari. Ho opinioni che si sono evolute nel tempo: se ai tempi della decisione sulla sorte della povera Eluana Englaro ero, nelle condizioni di informazione oggettiva in cui vivevo, molto perplesso sulla decisione assunta che poi determinò la fine della sua vita il 9 Febbraio del 2009 (giorno del mio compleanno, forse segno di un qualche genere, a volte penso…), ora mi sono convinto che in certe situazioni debba essere assunta in scienza e coscienza una decisione che appartiene al nesso logico-morale, inevitabile e necessario, caro alla teologia/filosofia morale di Tommaso d’Aquino, tra male minore e maggiore e tra bene maggiore e minore, per cui si possa essere guidati alla scelta più congrua sotto il profilo etico. Circa invece la gravidanza per altri ho e conservo una contrarietà radicale, per ragioni etiche già più volte illustrate in questa sede, così come per l’adozione di bimbi da parte di coppie omosessuali. Sono arretrato? Non mi interessa questo giudizio, perché fondo la mia posizione morale sulla riflessione filosofica che si avvale, in questi casi, di nozioni pedagogiche e di clinica psicologica, che non sono condivise da tutti, non so se dai più o dai meno, ma stanno nel dibattito, e soprattutto nella mia coscienza razionale.
Infine, anche sull’infinito dibattito intorno alla pandemia Sars Cov-19, ho registrato il fervoroso dibattito nel mio Cronache dall’Humanovirus, pubblicato alla fine del 2021, nel quale, tutto sommato, apprezzo quanto fatto dalla politica amministrativa con i vaccini e le terapie varie, ma sono rimasto nel dibattito anche con persone amiche, che hanno – in scienza e coscienza – dissentito, segnalando dubbi scientifici sugli effetti delle vaccinazioni e gli aspetti economico-industriali tutt’altro che disinteressati (come è ovvio che sia, dico io) sviluppatisi attorno e sul tema, e che hanno comunque voluto (e vogliono tuttora) confrontarsi con me.
Un esempio concernente la filosofia e il lavoro: l’ambito del lavoro si può basare molto sulla filosofia, per quanto concerne tutti i lavori, a partire dal concetto di valore e da quello di proprietà. Il valore ha a che fare prima di tutto con il patrimonio umano, che deve essere analizzato innanzitutto alla luce di un’antropologia attenta alle differenze, all’unicità irriducibile di ognuno, ma anche alla pari dignità tra le persone, siano essi lavoratori e imprenditori, clienti e fornitori, ovvero rappresentanze dello stato o del mercato; va considerato il valore come entità economica che nel lavoro si manifesta e cresce; la proprietà stessa va considerata da due punti di vista: quello legale e civilistico, per cui si può definire “privata”, e quello sociale, per cui la si deve intendere come valore comunitario. Abbiamo qui dunque interpellato l’antropologia filosofica, la morale economica e la giustizia sociale: in altre parole, in termini generali la Filosofia. Un intreccio straordinario e quasi ancora del tutto da esplorare e praticare è quello relativo al Modello 231 dell’Aziendaetica(-mente fondata), cui mi sto dedicando da anni.
Un esempio concernente la filosofia e la giustizia: quanta filosofia dentro l’ambito della giustizia, intesa sia come ambito e potere giudiziario costituzionalmente riconosciuto, sia come virtù umana o cardinale fondamentale! Partendo da questa ultima accezione, il termine giustizia, prima ancora che afferente al diritto, appartiene – letteralmente – al contesto della filosofia morale, dai tempi di Aristotele, che scrisse ben tre “Etiche”, tra le quali ricordiamo di più quella “a Nicomaco”, scritta con intenti pedagogici per suo figlio, ma anche per il suo più grande studente Alessandro il Grande, re di Macedonia, di cui fu precettore. La “Giustizia” è la virtù/ valore/ principio che aiuta l’uomo a dare a ciascuno ciò che è suo, a dirimere le controversie (si ricordi anche l’esempio biblico del re Salomone che di fronte a due madri che reclamavano come proprio un bimbo, ordinava di dividerlo in due con la spada, per capire chi amasse veramente quel bambino in tal modo rivelandosi la vera madre); la “Giustizia” è il sistema che definisce i confini del diritto, e si fonda sui valori condivisi da una comunità, ma soprattutto sul valore assoluto (vale a dire “sciolto-da-ogni-vincolo”) dell’essere umano e dei beni di natura su cui ha un mandato, non la proprietà.
Un esempio concernente la fede religiosa: la filosofia ha sempre avuto a che fare con le religioni, nel corso della storia e fino ad oggi. I filosofi greci non erano dei grandi “tifosi” dei dèi olimpici, e per questo a volte le città che li ospitavano non gradivano la loro presenza. Con l’avvento del Cristianesimo, sulle prime, con Costantino, Galerio, Teodosio e Graziano imperatori, all’inizio, con il Decretum di Milano del 313, il Cristianesimo fu considerata religio imperii, e poi l’unica religio imperii, con pene annesse per i renitenti, i fedifraghi e gli apostati.
Ma due sommi pensatori riportarono in auge le filosofia, se pure “dentro” la religione cristiana e la teologia, Origene di Alessandria prima e sant’Agostino in seguito. Da lì in poi la filosofia rinacque, se pure sotto l’egida della teologia, finché Tommaso d’Aquino, con il raffinatissimo prologo di sant’Anselmo d’Aosta (o di Canterbury), pur definendola ancilla Theologiae (ancella della Teologia, con tale titolo intendendo, però, non una subalternità ma una fornitrice di strumenti speculativi e dialettici indispensabili per una buona teologia) ri-sdoganò del tutto la riflessione filosofica, ben presto seguito da moltissimi altri, dentro la Chiesa stessa e poi, dai secoli XV, XVI e XVII prevalentemente al di fuori, nel mondo laicale, a partire da Descartes e Galileo, che pure erano integerrimi cristiani cattolici. A quel punto si compiva la separazione storica fra sapere teologico e saperi filosofico-scientifici, per dare vita al pensiero moderno.
Filosofi moderni insigni come Hegel, che era un teologo per studi accademici, ritenevano che la religione fosse un sapere previo alla filosofia, cioè alle scienze dello Spirito, per cui la religione, sostenuta da una struttura sempre più imponente, la Chiesa, anzi le Chiese, Cattolica, Ortodossa e Riformata (e qui tralascio riflessioni più approfondite), ha iniziato a vivere di una sua vita del tutto autonoma e vicina soprattutto alla sensibilità popolare, pur non essendo mai (stata) trascurata dai regnanti e dagli uomini di potere, cui piaceva far benedire sempre le proprie “legioni” da un presbitero o da un vescovo, come già fece il vescovo Ademaro di Puy nel 1089 con i Crociati sotto le mura di Jerusalem, fino ai nostri tempi.
Accademicamente si studia anche la filosofia delle religioni che affronta i percorsi storico-teologici di ogni pensiero legato al tema del divino, così come ci sono studi di sociologia delle religioni, di antropologia delle religioni e di psicologia delle religioni. Un mondo.
Un esempio riguardante la filosofia e lo sport: nello sport l’atteggiamento morale fondamentale è la lealtà, poiché si tratta di un ambito che – di per sé – può essere considerato la metafora dello scontro fisico classico uomo-contro-uomo. Nello sport la filosofia comporta l’apprezzamento e l’accettazione reciproca fra i contendenti dell’egualedignità fra loro, sia tra quelli che vincono spesso o quasi sempre, come certi “campioni”, sia tra quelli che non riescono ad ottenere grandi risultati, o solo raramente. La filosofia può far capire a chi pratica sport che chi vince non è-superiore a chi perde in quanto essere umano, ma gli è pari in dignità, pur vincendolo nella prestazione. Si tratta di etica sportiva, che deve governare anche l’organizzazione e la gestione dello sport, evitando gli eccessi presenti soprattutto in certe discipline professionistiche come il calcio, il basket americano, gli sport motoristici, il golf e perfino il ciclismo, dove c’è chi, il campione, prende milioni e il gregario percepisce compensi come un operaio generico, facendo pero, tutti e due, gli stessi chilometri, e il secondo più fatica, perché meno forte e perché deve portare la borraccia al primo.
Mi si spiega da parte dell’amico economista che il compenso-lo-fa-il-mercato. Sì, capisco, ma anche il mercato, se tutti i soggetti si accordano in un modo eticamente fondato sull’equilibrio tra prestazioni ed emolumenti, può essere calmierato.
Infine. Da tempo sto proponendo all’associazione della filosofia pratica nazionale (che peraltro ho presieduto per un biennio) cui afferisco, di uscire dal guscio di una fors’anche troppo elegante specializzazione e dall’allure della raffinatezza speculativa e intellettuale, promuovendo anche un soggetto “parallelo”, dove possano ritrovarsi i non-filosofi, che comunque hanno la stessa (o anche maggiore) passione per l’uomo e per la sua vita nel mondo, avendo conoscenze e specializzazioni diverse.
Lo si potrebbe chiamare Philia, Amicizia, proprio nel senso che davano a questo termine gli antichi sapienti, che non ritenevano molto utili le pur elevate teoresi che elaboravano, se queste non si diffondevano con una condivisione più larga, ad esempio in una “scuola” di pensiero, o tra il popolo.
A questa passione, Socrate pagò il prezzo della propria vita.
Due notizie previe su quest’uomo, che conosco molto bene e stimo. Professore di discipline chimico-ingegneristiche, è stato uno dei rettori più dinamici dell’Università di Udine, nonché Presidente dei Rettori italiani. Va ascritto alla sua intuizione accademica lo sviluppo del dipartimento di Ingegneria gestionale, che ha dato al territorio regionale – e molto oltre – una congerie di ingegneri-economisti che stanno già facendo bellissimi percorsi in molte aziende ed enti pubblici.
Durante il suo rettorato ho avuto modo di insegnare Sociologia industriale nel corso interfacoltà, con un’impostazione antropologico-filosofica umanistica che lui apprezzò e apprezza molto.
Alberto Felice De Toni
Uomo sensibile e competente sulle dinamiche economico-industriali, fa parte di board e consigli di famiglia, ambiente dove lo ho ritrovato trovandomi io in analoghi ruoli.
Tra i suoi numerosi studi e pubblicazioni scientifiche mi va di citare qui Prede o Ragni, pubblicato presso UTET una quindicina di anni fa. Un libro composito, indefinibile come genere, ma pieno di suggestioni logiche ed epistemologiche, adatto a studiare la complessità in tutte le sue manifestazioni, a partire dalla struttura umana e dal suo agire.
De Toni interpreta volentieri e con grandi capacità diplomatiche una funzione propositiva e di mediazione, con la quale ci si integra facilmente e volentieri.
Il cambiamento a Udine era necessario. Vorrei dire più che necessario. Tra l’altro, direi anche che l’amico Pietro Fontanini (perché conosco benissimo anche Pietro, da quando mi intervistava per Radio Onde Furlane, io giovane segretario regionale del sindacato degli edili e poi segretario generale della UIL di Udine e regionale). Allora il giovane Pietro insegnava economia alle superiori, era un sociologo, e militava in un raggruppamento di Nuova Sinistra (così si chiamavano i raggruppamenti collocati alla sinistra del PCI), non ricordo quale dei due o tre del tempo… Lotta Continua? Forse Avanguardia Operaia? Qualcuno, lo stesso Pietro, me lo ricordi.
Come passa il tempo e come cambiano le cose, isal cussì, Pieri? Poi ha fatto un carrierone politico, ambientandosi da altre parti. Gli è mancato solo un ministero e la Presidenza della Repubblica. Scherzo dài (ma non troppo).
Torno ad Alberto Felice. Lui è un moderato perché è intelligente e colto, ovvero è intelligente e colto perché è un moderato (entimema aristotelico), conditiones sine quibus non… per fare bene. Come me, socialista democratico (io) fin dall’adolescenza. Con questa categorizzazione non voglio dire che una posizione estremista è di per sé incolta e poco intelligente: dico solo che non funziona perché di solito fa fatica a non ammettere di avere previamente delle soluzioni a tutti i problemi senza ascoltare alcuno e non accettando di sbagliare. Quasi mai. Perché l’estremismo è in generale (non in assoluto e non in tutti) presuntuoso e arrogante, come mostra la Storia tutta.
Sono certo che saprà coinvolgere molte forze, economiche, culturali, sociali e politiche, perché non ha da chiedere granché oltre a quello che ha avuto finora meritandoselo. Non vive ansie e affanni arrivistiche. E’ da un’altra parte.
Vediamo se sono riuscito a non dare ai miei lettori l’impressione di aver scritto un panegirico encomiastico, che sarebbe inutile e dannoso, e soprattutto non potrebbe in alcun modo essere “roba mia”.
Qualche decennio, nel 1999, fa abbiamo reintrodotto gli orsi sulle Alpi in Trentino con il progetto Life Ursus, dopo che li avevamo sterminati circa un secolo fa. Come abbiamo fatto con i lupi. Mi sono chiesto come fosse stata preparata la reintroduzione e leggo/ ascolto molte voci, tra chi afferma che si era proceduto, prima con una ricerca scientifica a cura di illustri etologi e poi con una inchiesta tra circa un migliaio di abitanti che aveva dato esito favorevole, e chi invece ritiene che le cose non siano state fatte per bene, soprattutto non considerando che l’antropizzazione attuale non è paragonabile a quella di cent’anni fa, quando gli orsi furono sterminati, e che tale stato di cose avrebbe probabilmente sconsigliato l’operazione.
Sulle montagne Friulane della Carnia e del Tarvisiano, fino alle prealpi e al Carso, invece, l’orso è arrivato per conto suo dagli affollati boschi della vicina Slovenia.
Ora, questi grossi e intelligenti animali si sono ripresi il loro lebensraum (spazio vitale), e quindi lo difendono, ma noi ci arrabbiamo e decidiamo di “abbattere” (verbo tecnico che sta per “uccidere”) quelli che “rompono” di più, perché magari hanno “abbattuto” uno di noi.
Dalla Treccani: ‹léebënsraum› s. m., ted. [comp. di Leben «vita» e Raum «spazio»]. – Termine – tradotto in ital. con la locuz. spazio vitale – che ha costituito l’idea centrale della geopolitica e, successivamente, del nazionalsocialismo, secondo cui alcuni popoli avrebbero avuto una sorta di «diritto naturale» ad espandersi su territorî limitrofi e a spese di altri.
…ma gli orsi non sono nazisti.
Ascolto il Presidente del Trentino Fugatti che ironizza sul fatto che molti chiedono di spostare un congruo numero di questi plantigradi in zone spopolate, addirittura invitando chi protesta a farsi carico di alcuni di essi, salvo quelli che devono essere “abbattuti”.
Sarei quasi tentato di chiederne uno.
Vediamo “chi è” l’orso bruno eurasiatico (Ursus arctos arctos – Linnaeus, 1758) è una sottospecie di orso bruno diffusa in tutta l’Eurasia settentrionale. Questa sottospecie è nota anche come «orso bruno comune» e con molti altri nomi colloquiali. Come sia fatto tutti lo sanno, quanto sia forte e temibile, idem.
Gli orsi ad est degli Urali, quelli siberiani e della Kamciatka, sono di dimensioni maggiori ed hanno una colorazione più chiara e più rossastra. Gli orsi asiatici, inoltre, sembra che siano più aggressivi di quelli europei.
Un cenno storico: in seguito alla distruzione del suo ambiente, nel tardo Medioevo la carne costituiva solamente il 40% della sua alimentazione, mentre oggi ammonta a non più del 10-15%. Diversamente dall’America, dove ogni anno vengono uccise in media dagli orsi due persone, in Europa nell’ultimo secolo vi sono stati solo tre attacchi fatali all’uomo (per la precisione in Scandinavia) più quello recentissimo in Trentino nel 2023. Si tratta del povero ragazzo che correva nel bosco.
L’orso è un animale solitario. Soprattutto in ambienti frequentati dall’uomo è attivo prevalentemente nelle ore crepuscolari e notturne. E’ schivo e diffidente, difficile da incontrare. Ha indole per lo più pacifica; può attaccare se provocato, o spaventato a sorpresa a breve distanza.
E ora parliamo dei vari atteggiamenti che si registrano sul “tema orso”, soprattutto a seguito della morte del ragazzo trentino, e addirittura delle filosofie sottese. Vi è la posizione politico-amministrativa del presidente del Trentino, che è per l’abbattimento dell’orsa responsabile, JJ4, restando disponibile al trasferimento altrove di un congruo numero di esemplari.
Vi è poi la posizione degli ambiental-animalisti che nega tout court l’eticità della soppressione dell’orsa “colpevole”.
Tutte e due sono posizioni prive di fondamenti riflessivi filosofici, che devono sempre partire dalla domanda “chi é/ che cosa è?”, per dare il giusto valore all’oggetto esaminato. Oggetto, per dirla filosoficamente, perché anche un soggetto è oggetto-di-riflessione. Anche noi umani siamo oggetto di riflessione di noi stessi in quanto soggetti. Bene.
Quale è dunque la differenza evidente tra l’essere umano e gli altri animali, orsi compresi? L’autoconsapevolezza e il senso morale. Questa differenza ne costituisce il valore, tant’è che non ci consideriamo “cannibali” se ci nutriamo di carne animale. Ricordo che per me bambino era festa quando la domenica mia nonna Catine faceva polenta e coniglio.
La linea filosofica anti-specista, che è la più estrema dell’animalismo, ritiene che non vi sia soluzione di continuità dalle alghe all’uomo, per cui non si possa dire che è vietato dalla norma morale (oltre che dalle leggi positive) l’uccisione di un essere umano, mentre è legittima l’uccisione di un orso, ma anche di un toporagno o di una lucertola.
Nel caso che si sta discutendo, mi pare si possa dire che la soluzione, rimediando a un’imprudenza iniziale, di cui non possono essere incolpati gli orsi, si possa procedere in modo differenziato e articolato nel tempo, con delle priorità: a) spostare quanto prima un congruo numero di orsi trentini in un’altra area alpina che li accetti, b) individuare e catturare JJ4 e gli altri due esemplari di cui si è attestata l’aggressività pericolosa; c) avviare una formazione alla convivenza delle popolazioni interessate, con gli elementi comportamentali che stanno suggerendo con chiarezza gli etologi.
Se si può evitare l’uccisione dell’orsa JJ4 è meglio, anche tenendo conto dell’opinione dei familiari del ragazzo. Ricordo che in molti codici penali, anche attuali, a partire dal Codice biblico deuteronomico, se i parenti di una persona uccisa “perdonano” l’uccisore, la giurisdizione penale accetta di tramutare in carcerazione la pena di morte comminata.
Trovo nel caso alcune analogie con quanto qui sopra scritto.
Infine, auguro buon senso e di accettare una semplice riflessione filosofica al Presidente del Trentino e a tutti quelli che si occupano a vario titolo della questione.
L’attuale Segreteria del PD corrisponde, più o meno, numericamente, a come era composto l’Ufficio Politico del Praesidium del Soviet Supremo fino al 1989. Aspetto questo di cui forse la stessa Schlein, che allora aveva appena quattr’anni forse non è stata resa edotta, né – sempre forsitan – lo ha studiato dopo.
Praesidium
Dunque: il compito di una minoranza è senz’altro quello di fare-opposizione, in democrazia, in ogni democrazia. Questo è previsto dalle norme costituzionali, per cui se non fosse riconosciuto e rispettato, verrebbe meno un caposaldo della democrazia.
Infatti, una delle ragioni per cui in Russia, in Turchia, in Egitto e in diverse altre “democrazie formali” non è consentita un’opposizione libera, è proprio questo aspetto che ci permette di definirle non più democrazie, ma, con orrendo neologismo, demo-crature, cioè termine costituito da una una crasi fra democrazia e dittatura. O Auto-crazie.
In Italia, grazie alle tragiche prove subite nel secolo scorso (il fascismo), e alla sapienza dei Padri costituenti, ciò non è possibile, per cui, se pure nei limiti dell’agire umano imperfetto, da noi esiste, vige e vive un sistema democratico parlamentare vero.
Torno alla frase schleiniana riportata nel titolo. Non posso che essere d’accordo che l’opposizione faccia l’opposizione con la massima competenza e decisione, e, ad esempio, contribuisca a smascherare e a cassare le eventuali stupidaggini che qualche personaggio “governativo”, in questi primi sei mesi, ha già iniziato a proporre, come l’idea dell’on. Rampelli, di FdI, peraltro vicepresidente della Camera dei Deputati, di multare chi usi parole inglesi. Per salvaguardare l’italiano come lingua basta fidarsi e seguire le indicazioni dell’Accademia della Crusca, che interviene puntualmente e con la massima competenza. Siano i linguisti a proporre il da farsi, non un parlamentare, che per sua natura ha di solito conoscenze abbastanza generiche, se non scarse, sui vari temi.
L’opposizione intervenga sui temi importanti, criticando con decisione il Governo, ma anche formulando proposte alternative e realistiche, spendibili sotto il profilo politico e finanziabili correttamente. Ad esempio, sul superbonus 110 mi sarei aspettato qualcosa di più serio da parte del PD, non una pedissequa elettoralistica sequela di quelli che pensano il denaro si faccia con il ciclostile, intendo i “contian-grillini”. Eppure nel PD ci sono fior di amministratori, a partire da Bonaccini (e da De Luca, da Sala e da Lorusso), che ha perso la partita con la segretaria per la guida del partito. Chissà perché? Anch’io lo davo e lo volevo vincente. Si vede che non ho il polso della situazione.
Si tratta però di vedere se creare problemi al Governo coincida con il creare problemi all’Italia, Nazione o Paese, comunque la si voglia chiamare. In questo caso, cara segretaria, nel mio piccolo mi troveresti avverso e inimico. Anche se non sono della parte politica che attualmente ci governa tutti, proprio in base al risultato elettorale regolamentato dalla Costituzione della Repubblica.
Eviterei di fare come ha fatto qualche suo predecessore (Letta), di andare a sput.nare l’Italia all’estero, quando andò da Scholz a metterlo in guardia sull’incapacità di Meloni ad “essere-europea”. Ad esempio, specialmente quando si tratta di problemi serissimi come quello delle migrazioni o dei sistemi fiscali. Mi chiedo, peraltro, quanti voti possa portare tale sput.mento alle elezioni successive.
Danni certi all’Italia, di sicuro.
Sulla riforma fiscale, a mero titolo di esempio, l’opposizione potrebbe smetterla di recitare solo la parte della lotta ad evasione, elusione et similia, accettando che non si può attribuire quel vizio immorale meramente ai lavoratori autonomi, professionisti e imprese, che pagano aliquote proporzionate ai redditi lordi, perché oramai si fattura tutto da decenni, se si è onesti. Le sacche di furbetti vanno smascherate e sanzionate, ma senza ideologismi e categorizzazioni moralistiche. Le tasse NON-LE-PAGANO solo i lavoratori dipendenti, lo impari il PD, magari facendosi aiutare dalla Lega delle Coop, che si intende di imprenditoria.
Vengo un po’ ai titoli para-giornalistici che si susseguono, nel titolo:
a) sempre di più si sente parlare in tv e sui media vari di guerra in Ucraina confondendo aggressore ed aggredito. Certamente il conflitto ha origini lontane, ma l’inizio delle ostilità più virulente è recentissimo; i numeri di attacchi (a proposito, quando parlano di attacchi intendono colpi sparati o vere e proprie azioni unitarie che prevedono l’utilizzo di molti proiettili? Nella guerra aeronautica si definisce “attacco” l’azione di un solo cacciabombardiere, mentre nel conflitto di terra un attacco è plurimo per mezzi, uomini, armi e munizioni usate), morti e feriti variano al variare del tg e del giornalista parlante, così come i mezzi a disposizione e il numero di munizioni;
b) capitolo migranti: lasciando da parte qui le riflessioni etiche, geo-politiche, strategiche, economiche e diplomatiche, non si capisce bene quando parlano di ricerca e soccorso e dicono 3000 persone, e poi parlano di 800, e poi di 1200, e di 600 e infine di 400, si debba ritenere i 3000 la somma del tutto o si tratti solo di un addendo;
c) sul palazzo crollato a Marsiglia si sente dire di sei morti e x dispersi il giorno 9 aprile, il 10 aprile si sente ripetere la notizia come se fosse crollato un altro palazzo a Marsiglia, l’11 di nuovo la medesima notizia senza specificare che si tratta di un fatto accaduto due o tre giorni prima;
d) stesso fenomeno si osserva nel racconto degli incidenti stradali con morti: il primo giorno c’è la descrizione dei fatti, il giorno successivo si ascolta il medesimo servizio senza specificare che si tratta di un repetita, il terzo giorno di nuovo un richiamo che non fa ben capire che si tratta sempre dello stesso incidente di cui alle cronache di due giorni prima;
e) misterioso omicidio sul Gargano, o in Lombardia o in Veneto, accaduto o scoperto il giorno x, stessa notizia e medesime interviste il giorno y, idem con patate il giorno z, per cui l’ascoltatore, che non è tenuto a una conoscenza approfondita della scienza statistica, magari memorizza che vi sono stati tre omicidi;
a volte accade stessa cosa con le morti sul lavoro, che certamente vanno monitorate e vanno garantite tutte le sicurezze, ma mai nessuno che dica mai che rispetto a trenta anni fa i morti sul lavoro per anno si sono dimezzati (2000 vs 1000), e quindi il mega trend è comunque positivo. Non occorre qui dire che a chi capita capita, e il suo dolore è tutto il dolore del mondo, ma le notizie vanno contestualizzate;
f) gruppo di persone che fanno un picnic travolte da un ubriaco che esce di strada con un Suv (notizia, sempre la stessa, data consecutivamente in tv per tre giorni, in modo tale che sembra triplice, cioè accadute per tre volte);
g) neonato abbandonato alla Clinica Mangiagalli di Milano, bene: ascolto il Direttore prof tal dei tali, che si esprime con grande rispetto e proprietà espressiva sul caso; successivamente appare a video una neonatologa che aggiunge anche la sua tenerezza femminile; tertium, si presenta alle telecamera un neonatologo che parla in questo modo: “Si preme questo pulsante che alza la paratia, si inserisce il bambino e poi si chiude, fatto. In quaranta secondi al massimo“. Tutto contento e sorridente, senza accorgersi di aver parlato di un essere umano come di un pacco di immondizia. Resto esterrefatto, incredulo, anche perché la sua collega aveva spiegato che i quaranta secondi servono anche ad un eventuale ripensamento della madre, che comunque, come ben specificato dal Primario, potrebbe sempre farsi viva per riprendersi il proprio bimbo. Medici tutti e tre, ma “persone umane”, solo due.
h)…e, per finire questa carrellata, una notizia buona: l’ultimo mio esame emato-chimico di controllo ha dato esito buono, peraltro come tutti i controlli fatti dopo il debellamento (che spero perpetuo) del tumore ematologico che mi aveva colpito sei anni fa. Nessun tg ha dato la notizia (ovviamente, perché privata e non di interesse pubblico). Di notizie del genere è però pieno il mondo, ma è come se questi fatti non ci fossero, perché ciò che fa-notizia (vendibile con la pubblicità in mezzo), solletica e a volte solluchera il pubblico è la mala notizia, non quella buona.
L’ultima riflessione che mi pare utile proporre in questa sede riguarda il fatto che non pochi ritengano vi sia in atto un grande complotto mondiale atto a controllare le menti, anche imbrogliando sull’informazione, senza minimamente peritarsi di svolgere o di far svolgere le necessarie inchieste/ ricerche, anche se a campione, per fondare scientificamente tesi che, fino a prova contraria, sono preconcette e spesso paranoiche.
Mi spiego: non si può mettere tutto in un calderone: guerra in Ucraina, crisi climatica, crisi energetica, pandemia, migrazioni, etc., come se facessero parte, appunto di un gigantesco complotto atto al controllo assoluto delle menti e dei cuori dei cittadini di tutto il mondo. Ciò non può darsi perché il pensiero democratico, anche se contrastato nelle e dalle autocrazie e dalle dittature, e i sistemi politici dove vige il suffragio universale, nonché la scolarizzazione che si è fatta sempre più di massa progressivamente in tutte le parti del mondo, costituiscono anticorpi sufficienti a contrastare queste semplificazioni pericolose e antiscientifiche.
Forse mai come di questi tempi, il mondo-azienda è la cartina di tornasole della società contemporanea. La coeva crisi delle due maggiori agenzie formative, la famiglia e la scuola, affidano e quasi “rilasciano” al mondo del lavoro giovani spesso sconcertati, indifesi e privi di solidi punti di riferimento, come quelli che costituivano il nerbo dell’agire dei loro padri e nonni, valoriesistenziali e lavorativi condivisi, come l’onestà, il rispetto reciproco, l’impegno, il senso di responsabilità e quello di appartenenza.
I media contribuiscono anche a fare una gran confusione sui termini e
sui linguaggi. Proviamo a recuperarne il senso profondo e veritiero.
“Valori” è un termine “polisemantico”,
cioè dai-molti-significati, usato e abusato di questi tempi. Potrebbe essere
quasi sinonimo di “Principi”, e anche di “Virtù”.
Il lemma “Principi”, soprattutto se li si intende di tipo morale, si usa molto, mentre invece il termine “Virtù” è forse un pochino affidato alle nostre memorie giovanili se non addirittura infantili, quando sentivamo questo termine solenne a catechismo in parrocchia.[1] In seguito lo abbiamo pressoché dimenticato, perché utilizzato sempre meno, e noi stessi non lo abbiamo più utilizzato.
In quegli anni un po’ lontani avevamo imparato anche l’elenco delle Virtù, distinguendole tra quelle “cardinali”, cioè Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, e quelle “teologali”, che sono Fede, Speranza, Carità, non dimenticando quello dei sette vizi capitali, vale a dire Superbia, Invidia, Avarizia (o Cupidigia), Ira, Gola, Lussuria e Accidia.
Perché questa piccola
lezione di catechismo teologico o di morale
cristiana?
Perché il tema dei Valori, Principi e Virtù (e anche dei Vizi) è attinente a tutte le sfere della vita umana, ovviamente compresa la dimensione del lavoro, che di essa è parte assai importante. E a Pasqua ancora di più.
Proviamo a parlarne brevemente, citando solo le Virtù, i Principi e i Valori che più ci interessano sapendo che il Valore principale che voglio sottolineare, anche oggi, è quello del Lavoro, con la “L” maiuscola. Ma iniziamo (senza che la scelta appaia strana), da un vizio, il più taciuto, il meno conosciuto: il vizio dell’Accidia.
La parola, come tutte
le altre che danno il nome a vizi e virtù, deriva dal greco antico: akedìa, che significa diverse cose: apatìa, svogliatezza, malinconia,
malessere, pigrizia mentale, tristezza,
mal stare, distrazione, cattiva volontà,
e via definendo. Di questi tempi alcuni psicologi hanno deciso di chiamarla
addirittura depressione.[2] Ma
io non sono d’accordo, perché il termine medico-psicologico “depressione”
rinvia a una malattia psichica, non ad atteggiamenti mentali e morali
liberamente scelti dalla persona. Se così fosse non potremmo intervenire più di
tanto, perché la malattia si deve curare, se non si è riusciti a prevenirla.
E dunque, questa accidia è un qualcosa che si può attribuire più ad atteggiamenti e comportamenti per i quali agisce anche la volontà umana. Leggiamo, per la cronaca, che decine di migliaia di ragazzi, dal lockdown in poi si sono fatti “prendere” da questo stato d’animo dal quale fanno una enorme fatica ad uscire, ed alcuni proprio non ce la stanno facendo e “sono in cura” da psicoterapeuti, psicanalisti e addirittura psichiatri. Avverto subito che quando un caso va in mano a questi ultimi specialisti che, in quanto medici, sono anche adusi alla prescrizione di farmaci, la situazione è già – in qualche caso – preoccupante.
È bene dunque
intervenire subito, ma in altri modi, il primo dei quali è un’analisi seria del
caso e l’avvio di un dialogo trasparente e rispettoso con l’interessato.
Proseguiamo ora con altri valori (principi o virtù).
La costanza e la perseveranza sono altri due nomi che descrivono virtù/valori del lavoro. Cerchiamo – nel quotidiano – di utilizzare questi termini, invece del modaiolo resilienza, che è una parola dell’arte metallurgica malamente metaforizzata, che suggerirei proprio di non usare in contesti relativi alle persone che lavorano.
Ancora, ricordiamo altri
valori (principi o virtù). La fortezza,
o coraggio
può essere un ausilio necessario per l’impegno in azienda, moralmente previsto
nel rapporto equo e giusto tra prestazione e retribuzione, così come è
indispensabile per affrontare prove ardue che la vita ci presenta, come
malattie, lutti, difficoltà nello studio e lavorative.
Il menefreghismo è un altro
sentimento negativo molto diffusa che si coglie di questi tempi… si tratta di rassegnazione? Di stanchezza? Comunque lo si riscontra in giro, e abbastanza spesso.
Che fare del menefreghismo? Se lo si constata, non si
può stare inerti, perché anche questo è un segnale
di disagio e di perdita del senso
generale delle cose e, ancora una volta, dei valori, come quello del lavoro. Ecco che qui viene utile far capire
la differenza sostanziale e concettuale fra “lavoro” e “posto di lavoro”, in
questo modo: l’azienda non dà “posti di
lavoro”, ma “lavoro”, vero,
sostanziale, fatto di commesse, di processi, di organizzazione, di gestione di
macchine e persone. Il “posto di lavoro”
deriva solamente dal “lavoro” che, se
non c’è, e deve essere un lavoro di valore
(ecco che torna il termine valore, e
la sua catena ordinata, sia moralmente sia economicamente), non può
assolutamente fornire “posti di lavoro”!
Smascheriamo dunque questo equivoco, soprattutto con chi lavora di malagrazia e con menefreghismo!
Andiamo avanti con il
ragionamento. Non dimentichiamo che la responsabilità di ogni lavoratore
(così come quella dell’imprenditore), si connette in modo organico con una
nozione corretta del concetto di libertà
in questo senso ed espressione: la Libertà
è “Volere ciò che si fa”, non “Fare
ciò che si vuole”.
Ogni
lavoratore è libero di… essere responsabile, non di-non-esserlo. E questo si chiama obbligo
morale!
Un altro difettuccio antropologico “Friul-Veneto” è la gelosia professionale, che spesso alligna soprattutto nei lavoratori “anziani” ed esperti, che forse vivono inconsciamente o implicitamente l’antica paura dei popoli “sottani” (sottoposti a nazioni dominanti, come è stato storicamente per Mille anni, prima sotto Venezia e poi sotto gli Asburgo)[3] di morire di fame, perché superati in abilità e forza da colleghi più giovani. Anche su questo bisogna essere vigili e parlarne apertamente, da un lato dando fiducia a chi lavora da tempo in azienda, e dall’altro incoraggiando i giovani, mediante la formazione e un uso ponderato della delega di crescita, sul quale progetto devono essere d’accordo anche gli anziani, in quanto persone di riferimento professionale.
Eccoci dunque con un vademecum pratico che dovrebbe stare nel cassetto e nell’agenda di ogni “Capo” di tutti i livelli (dal Capoturno all’Amministratore delegato!), per poterlo trasmettere ai collaboratori ogni giorno, in ogni momento e situazione, al FINE di conseguire il Bene comuneche è costituito da un lavoro buono e redditizio, i cui risultati possano essere condivisi mediante il fondamentale principio-valore virtuoso dell’Equità, che significa “A CIASCUNO IL SUO SECONDO GIUSTIZIA E MERITO”.
Buona e serena Pasqua del Signore Risorto, a voi e alle vostre famiglie.
[1]
Quello che ci veniva impartito, ancora ia tempi delle elementari, in parrocchia
e risaliva ai precetti voluti da Papa Pio X, il venetissimo Papa Giuseppe
Sarto, di Riese Pio X, appunto.
[2] Cf. Manuale medico diagnostico pratico per le
malattie mentali V, Editore Masson.
[3]
Con il solo intermezzo del Patriarcato di Aquileia, che comunque spesso
annoverava Patriarchi-Principi di origine germanica.
La destra di governo attuale è composita e differenziata. Non è la mia “patria politica”, non lo è mai stata e mai lo sarà. La mia patria politica, finché vivrò, sarà sempre quella che ho scelto quasi dall’uso di ragione. Dicevo a mia zia Enrica, che mi interpellava fin da bambino sul tema politico (incredibile dictu!), che mi sentivo… socialista. Mia cugina Lucina, sua figlia, famiglia benestante, si diceva liberale.
Provenendo dalla tradizione della destra classica post seconda guerra mondiale, cioè dal Movimento Sociale Italiano prima e da Alleanza Nazionale in seguito, Fratelli d’Italia è il più forte partito conservatore d’Italia. La leader Meloni lo ha portato in pochi anni dal 4% a poco meno del 30%, percentuali che la storia repubblicana, prima d’ora, ha riconosciuto solo alla Democrazia Cristiana, al Partito Comunista, a Forza Italia e al Partito Democratico. In una tornata anche alla Lega salviniana.
Forza Italia, dopo essere stata per un ventennio la principale forza conservatrice, si può dire di centro-destra, con l’invecchiamento del suo leader Berlusconi, ha iniziato un declino, di cui è difficile vedere l’inversione di tendenza.
La Lega è invecchiata precocemente, dopo i picchi della prima gestione bossiana e salviniana, che in due momenti diversi la hanno resa centrale per la politica italiana, dopo la scelta di essere un partito nazionale, non più solo “padano”.
Il PD schleiniano è molto diverso da quello che immaginava il suo primo fondatore Veltroni, perché a differenza di quello questo PD ha una vocazione chiaramente minoritaria, comportandosi come un partito radicale di massa, o partito dei “diritti civili” (semmai tutte le battaglie in tema possano dirsi “diritti”), dopo avere oramai quasi dimenticato da tempo quelli sociali. In una quindicina d’anni ha cambiato dieci segretari e più. Comments? Non vedo questo partito in grado di riprendere con un linguaggio adeguato ai tempi la tradizione riformista della sinistra storica del PCI migliorista, quello degli Amendola, dei Napolitano e dei Chiaromonte, del PSI turatiano, del “secondo” Nenni e di Craxi, e del PSDI saragattiano.
Il Movimento 5 Stelle è un partito improbabile, in quanto partito. Guidato da un parvenù senza storia, viene dalle piazze e dalla protesta, e negli anni ha fatto il pieno di persone senza arte né parte, cui spesso ha dato un reddito (non solo di cittadinanza) e un linguaggio fatto di slogan stantii prima che siano pronunziati, o detti in cattivo italiano. Con rare eccezioni come il deputato triestino e, forse, la ex sindaco di Torino. I due primattori della prima ora, i Di qualcosa (non ricordo più cosa) hanno fatto una ben triste fine, mentre il comico fondatore se ne sta rintanato nella sua lussuosa villa marina. Si pensi che la nostra disgraziata Nazione ha avuto negli anni scorsi un Ministro degli esteri come Di Maio. Cose marziane.
Un Terzo polo liberal-social-democratico – a mio avviso – è l’unica via plausibile in questo momento storico. Quello che si è nominato in questo modo pare però poco capace, almeno finora, di diventare un soggetto politico riformista decisivo. Vero è che alle Politiche del 2022 ha sfiorato l’8%, ma i due leader non sono mostri di simpatia: Renzi pare voglia fare di tutto fuorché il senatore (da oggi, 6 Aprile 2023, ha assunto la direzione del quotidiano Il Riformista), mentre Calenda sa di “pariolino” anzichenò. Capi di cosa? Così come sono messi, di assai poco.
Proviamo a ragionare. La destra ex fascista (paradossalmente quivi non comprendo Meloni) e quella leghista salviniana non sono riformisti, costituzionalmente. Le sinistre di Schlein e di Conte non lo sono, altrettanto, anche se per ragioni diverse. Lasciamo stare i frammenti dell’estrema.
Auspicherei un rassemblement che possa contare sui liberali di Forza Italia, sul Terzo Polo di Azione&Renzi e sui Dem delle aree di Del Rio e di Guerini. Una forza cristiano democratica e socialista, ideologicamente ed eticamente, direi addirittura ontologicamente riformista. Io starei lì, almeno per vedere se si può fare qualcosa.
Quando i politici parlano, specialmente se hanno rilevanti posizioni istituzionali, è bene che vigilino con cura, anzi con acribia, su quello che dicono, sulle parole che usano, sui giudizi che esprimono.
Ignazio La Russa è un politico di destra di lunga lena. Viene dalla gioventù universitaria missina del FUAN, poi dal Partito MSI, da Alleanza Nazionale e ora con Fratelli d’Italia, è al governo come Presidente del Senato della Repubblica. Ha fatto le sue battaglie di destra senza mai nascondersi. Umanamente è un tipo che si mostra come è. Interista doc, ha un carattere e modi da avvocato popolar-popolano. In questi giorni la ha fatta grossa, dicendo che la Resistenza, e quella romana in particolare, farebbe bene a non gloriarsi dell’attentato di Via Rasella del 23 Marzo 1944, perché colà morirono per l’attentato (afferma più o meno) alcune decine di veterani altoatesini, più che altro una banda militare, non un gruppo di spietate Waffen SS. A supporto della tesi negatrice della valenza resistenziale dell’attentato di Via Rasella, La Russa cita anche l’eroico sacrificio del brigadiere Salvo D’Aquisto, come esempio virtuoso, vicenda che qui non riprendo, perché conosciutissimo.
Quando si parla di cose del genere, in particolare, bisogna dirla giusta, altrimenti chi-la-sa-giusta, come uno storico di professione, fa presto a smascherare l’incauto, raccontando le cose coram populo (su Youtube si trova una bella video-conferenza del prof. Alessandro Barbero).
In quei mesi Roma, dopo ciò che accadde a seguito dei fatti dell’8 Settembre 1943 (in sintesi estrema: arresto di Mussolini, incarico di Governo a Badoglio, divisione in due dell’Italia, con il re fuggito al Sud e la neonata Repubblica di Salò al Nord, i Tedeschi che si sono impadroniti dell’Italia fino a Roma e oltre, sotto il pugno militare di Albrecht Kesselring, gli Alleati sbarcati, prima in Sicilia e poi ad Anzio e Nettuno, ma fermati da una robusta barriera corazzata della Wehrmacht, che era tutt’altro che allo sbando, Roma ogni giorno bombardata dagli Alleati, papa Pacelli prigioniero in Vaticano a fare la politica che gli sembrava opportuna, la Resistenza armata in tutta l’Italia occupata dai Tedeschi, etc.) era stata dichiarata “Città aperta” (vedere o rivedere il film omonimo diretto da Roberto Rossellini).
A Roma si registravano attentati e scontri quotidiani tra partigiani, tra i quali i più attivi erano i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) guidati da alcuni intellettuali del PCI che nel Dopoguerra avrebbero avuto ruoli di rilievo, come Antonello Trombadori, Franco Calamandrei figlio di Piero, e Carlo Salinari, insigne storico della Letteratura italiana (che si trovò di fronte agli studenti “rivoluzionari” del ’77 come Preside di Lettere a La Sapienza, ironia della Storia!) sotto la supervisione del dirigente comunista Giorgio Amendola, presente nei pressi anche un fumigante Sandro Pertini e il giovane Giuliano Vassalli, che fece fuggire lo stesso Pertini e Saragat, già condannati a morte, dal carcere Regina Coeli. La decisione di colpire un reparto germanico viene presa dopo un’attento studio di fattibilità, della logistica e delle modalità di azione.
Viene effettuato sapendo dei rischi che si sarebbero corsi, e anche della quasi certa vendetta tramite rappresaglia, peraltro atto previsto dai codici militari di guerra e anche dalla Convenzione dell’Aja. Guerra era, e non solo fatta di scontri tra armate, ma anche dalla sua versione a-simmetrica, di guerriglia urbana.
A Berlino Hitler e i generali Jodl e von Mackensen, in Italia l’ubriacone generale Meltzer, operativi il colonnello Kappler, capo della Polizia tedesca a Roma, assistente il colonnello delle SS Dollman. Kappler fece la lista pescando dai condannati a morte detenuti a Regina Coeli (assai pochi), da detenuti “condannabili” a morte (molti), Ebrei (non pochi), giovani e vecchi (in numero significativo). Gli diede una mano il Questore di Roma Caruso, compilando una lista contenente una cinquantina di nomi.
Arrivarono a 330, dieci ogni soldato tedesco morto per Via Rasella, anzi a 335, per un errore burocratico.
Li fucilarono con le loro pistole Mauser con un colpo alla nuca, uno a uno. E tutto il reparto di Kappler fu coinvolto. Poi fecero saltare gli ingressi delle cave di pozzolana Ardeatina. Caruso fu fucilato dopo un processo italiano post Liberazione. Kappler fu condannato all’ergastolo, e Priebke pure, anche se catturato anni dopo. Kappler riuscì anche a fuggire dalla detenzione di Gaeta e morì libero in Germania non molti anni fa.
Suggerisco la visione sul tema del bel film Rappresaglia, diretto da Pan Kosmatos nei primi anni ’70, con Richard Burton e Marcello Mastroianni.
…
Trump sarà accusato dalla Procura di New York di avere utilizzato soldini della sua campagna elettorale del 2016, quando vinse contro Hillary Rodham Clinton, per zittire una signora a cui si era accompagnato. Agli Americani sembra – moralmente – un peccato mortale, per dire, ma è ben poca cosa rispetto alle altre ipotesi di reato federale che pendono sulla sua testa: la prima è quelle di avere accusato il Governatore della Georgia di aver falsificato i risultati delle elezioni presidenziali a favore di Joe Biden, accusa respinta; la seconda di avere fomentato l’attacco dei suoi supporter a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.
Ora, si tratta di vedere se, addirittura, come potrà accadere, la vicenda Stormy Daniels si possa rivelare quasi una semi bufala, Trump potrebbe addirittura trarre un vantaggio in termini di popolarità, ponendosi come un perseguitato da una giustizia secondo lui “politicizzata”, e in particolare nel caso newyorkese, dove il Procuratore è il democratico (nero) Bragg. Si sa che negli USA i Procuratori dello Stato vengono eletti dal popolo, ed operano in un sistema “duale” nel quale fungono da contraltare dell’avvocato dell’imputato, con il Giudice che è parte chiaramente terza. In Italia dovremmo imitare questo sistema, a mio avviso.
…
In contemporanea con i fatti di cui sopra, quasi a fare da controcanto fastidioso (per me), registro le cazzate degli imbrattatori di monumenti cui dà una sorta di sinecura politica la segreteria del PD Schlein, incomprensibilmente e improvvidamente.
A sinistra sarebbe bene evitare di impantanarsi nell’apertura totale al politicamente corretto, ma non so se ce la faranno, i capi, come la citata giovane politica.
Grave, deludente, demotivante, escludente gente come me. Basta.
In queste settimane/ mesi negli USA ferve un dibattito distinto e delineato su tre posizioni: la prima, detta pro-life, concerne la scelta per la vita, assolutamente contro ogni ipotesi di interruzione di gravidanza; la seconda, chiamata pro choice, riguarda la scelta libera che può portare anche all’interruzione di gravidanza; la terza, definita pro voice, si riferisce al diritto di ogni donna di fare una scelta libera, senza condizionamenti e/o manipolazioni che la costringano in qualche senso, in qualsiasi senso.
In Italia c’è addirittura – come sempre – ancora più confusione e polemica politica e mediatica. La stampa, i media in generale e la politica, al di là delle legittime e anche utili differenze di opinione, registrano una sostanziale incapacità teorica, culturale, di affrontare il tema (che è anche problema, si tenga conto della differenza semantica tra i due termini – problema che dice inciampo, difficoltà e tema che dice argomento– che spesso sono erroneamente utilizzati come sinonimi).
E’ difficile, quasi impossibile, ascoltare o leggere opinioni fondate su riflessioni di carattere antropologico e morale, riflessioni capaci di collocare il tema della scelta di abortire, di non abortire, o di ottenere un figlio in qualsiasi modo, in una cornice di ragionamento completa, che tenti di tenere in considerazione tutti gli aspetti connessi, da quelli riguardanti le scelte valoriali e morali individuali, passando per quelle culturali e politiche, fino a quelle relate al tema demografico e al tasso di fecondità nazionale, e alla sua formidabile differente distribuzione nel mondo, ad esempio tra Europa e Asia/ Africa.
La valenza etica di queste tematiche è immensa, come si può ben concordare, mentre l’argomento può essere trattato in diversi modi, da quello prevalentemente accademico e scientifico ivi comprendendo gli aspetti medici, giuridici, politici e sociologici, a quello etico e valoriale, fino al modo più dialogico ed empatico. Ed è il modo che in questa sede ho scelto, ovviamente “sullo sfondo” delle mie convinzioni etiche, per affrontare il tema, al fine di non attizzare – se pure nel mio piccolo – il fuoco sulla polemica, assai facile in questi casi.
Proverò a scrivere una lettera a ciascuna delle donne o madri che si riconoscono in ciascuno dei tre “modelli” sopra distinti.
Cara signora che hai deciso di abortire, e che sei tormentata nel cuore e nella mente… ti sono vicino come un fratello. Ti sono vicino, perché sei una persona, che vale come me e come ogni altra persona umana di questo mondo. Ti sono vicino perché immagino che tu non stia molto bene con te stessa, che tu sia pensierosa su di te, su chi ti è vicino e sulla scelta che hai deciso. Immagino che decidere possa essere stato per te molto difficile. Penso che tu sia stata tormentata per diversi giorni fino a che, per qualche motivo che neppure mi permetto di chiederti, hai deciso… Ho sentito da voci circostanti che una delle ragioni della tua decisione è stata anche questa: “come fai a mettere al mondo un bimbo in un mondo del genere?” Mi chiedo: in che mondo? Forse che i “mondi” precedenti, magari quelli del XX o del XIX secolo, erano migliori?
Cara signora che hai deciso di tenere il tuo bambino, e già pensi agli impegni grandi che ti toccheranno per anni… ti sono vicino come un fratello, perché so quanto sia difficile tirare su un figlio. Ti sono vicino perché immagino quanti momenti di sconforto incontrerai e quanto stanca moltissime sere sarai. Sono con te perché sei una sorella nella genitorialità, di questi tempi difficili, in una situazione che non ti aiuta sempre a pensare al futuro con equilibrio e con un ragionevole grado di fiducia. Ti sono vicino nella speranza di potercela fare e nella fede che ciò accadrà. Vedi come qui si citano due delle tre virtù teologali, fede e speranza, perché la carità, la terza, non finisce mai, in quanto è sinonimo dello stesso amore che ci hai messo nella scelta di avere un figlio e di tirarlo su, finché sarà compito tuo.
Cara signora che non sai ancora che cosa decidere, e stai valutando sballottata tra sentimenti contrastanti e parole che senti non sempre opportune ed equilibrate, consigli pro e contro, valutazioni su e per… ti sono vicino come un fratello, perché sei nell’incertezza. Ti sono vicino perché ascolti mille tesi che si scontrano e ti sconcertano senza requie, e lo devi fare perché vivi nel mondo come me e incontri tante esperienze differenti e anche contraddittorie. La ricerca della tua verità di vita, in questo momento, passa per la scelta se (provare ad) avere un figlio, o meno. Si tratta di una ricerca nella quale, mi permetto di dire per esperienza, occorre mettere davanti a sé con chiarezza tutto, positività e negatività che conosciamo di noi stessi, perché se il fine è quello di diventare genitore, nel momento in cui la nuova vita ti farà visita, dovrà essere messa al primo posto, nella tua vita. Non sempre, te lo dico con sincerità, io stesso sono stato in grado di rispettare questa Legge di natura, che è semplicemente umana.
Inoltre, due ultime brevi lettere voglio scrivere, la prima a una donna che vuole essere madre a tutti i costi, anche chiedendo a un’altra donna di diventarlo per lei, biologicamente, la seconda a quella donna che vorrà, dovrà (?) accettare di essere disponibile.
Cara signora che vuoi essere madre a tutti i costi, anche al costo di incaricare una tua simile a partorire per te. Qualche domanda. Sono d’accordo che se si adotta un figlio da un orfanotrofio lo si ama come se fosse proprio (esperienza della mia famiglia). Perché dunque desideri che nasca un bambino da un’altra, provenendo da due gameti altri, la cui origine sarà: per il “padre” tenuta rigorosamente nascosta, perché gamete deposto in un’agenzia specializzata, e circa la madre idem, anche se la “madre” accogliente dovrà certamente conoscere la “madre” donante. Che cosa potrà pensare un figlio nato da un’altra madre biologica e da un padre-gamete, nel momento in cui comincerà a farsi delle domande? Cara “madre-che-accoglie” il figlio d’altra, forse che nasconderai per sempre quanto accaduto, a tuo figlio?
Cara signora che “presti” (non voglio dire “affitti”) il tuo corpo per partorire per altri, che cosa te lo fa fare? Il bisogno? Un illustre giurista italiano ha scritto recentemente che la legittimità di una “gravidanza-per-altri” è moralmente analoga alla donazione di un organo sano a chi lo ha irrimediabilmente ammalato: un cuore, un fegato, del midollo osseo, per il citato giurista, sarebbero come un figlio nato da altra. Non sono d’accordo, perché un essere umano non è comparabile a un organo di un essere umano, perché è un vivente cosciente, mentre un organo è una sua parte, che non vive se non dentro l’intero.
In questo caso, filosoficamente, non si dà autosimilarità, vale a dire che la parte non rappresenta il tutto. E di conseguenza, a me pare, ciò sia un illecito morale e dovrebbe essere, per tutti, un illecito giuridico e quindi un reato.
La maternità surrogata o gravidanza per altri, o utero in affitto (horribile dictu, che rinvia alla legislazione sulle locazioni immobiliari) non può essere legittimata da alcuna aspirazione alla genitorialità, perché, diciamolo chiaramente: avere un figlio NON E’ un diritto, ma un desiderio che può diventare DONO.
Infine, il tema delle adozioni è una delle connessioni pratiche e operative a quanto sopra trattato. Quando un bambino deve venire al mondo o è già venuto al mondo, innanzitutto DEVE essere (comunque e in ogni caso) riconosciuto e registrato. Sull’adozione di coppie omosessuali ho già scritto più volte e non mi ripeto. Dico qui, ancora una volta, che non la condivido, per ragioni che ho spiegato in altri scritti.
Il 27 Marzo 2023 è mancato all’improvviso Gianni Minà, si legge, di un male cardiaco.
Lo conoscevo di fama televisiva e giornalistica fin da quando ero ragazzino. Visibile, inconfondibile, particolare, quell’ometto dal baffo furbetto e dal capello lunghetto. Dalla voce, anch’essa, inconfondibile.
La pietas per chi non c’è più viene prima di tutto. Quando muore qualcuno, chiunque, si fanno sempre i bilanci orientati al bene, alle capacità, all’unicità, all’eccezionalità del defunto. Ed è normale. Quando la morte accade, come insegnava Epicuro, non c’è più nient’altro… di chi chi muore. Solo un corpo che non ha più vita, il suo soffio, la coscienza, il pensiero. Quello che Rovelli spiega essere quasi l’effetto del vento solare e di altre “cose” fisiche. Mah, solo questo? Boh.
Ed è ciò che ha fatto, quest’uomo. Quello non scompare, quello è “eterno” come ha insegnato Emanuele Severino. Da un punto di vista metafisico, se si riconosce la plausibilità di questo sapere, il filosofo di Ca’ Foscari non può avere torto, come pensano sia taluni che ritengono amenità le dottrine di Platone. Ciò che è stato e che ha fatto Minà non smetterà mai di essere-stato-fatto, ed appartiene, a questo punto, all’eternità di ciò che ha fatto, agli “essenti” che sono ciò che ha fatto. Gli “essenti” non passano, come passa la vita.
Certamente empatico, anche troppo, perché l’empatia non può essere tale da far identificare, pressoché, l’interrogante e l’interrogato. Certo, il dialogo, come insegnava il solito Platone, quello dai pensieri strani, è naturaliter aperto-all’altro, ma non può e non deve essere con-fusivo, cioè confondente A con B. Nel caso di Minà questo mi è sembrato accadere in più casi, come in quello dell’intervista a Fidel. 16 ore di quasi pura adorazione, mi si dice da parte di chi, persona fededegna, ha ascoltato l’intera intervista. Non so se questo sia proprio il miglior giornalismo. Certamente il giornalista può anche parteggiare per l’intervistato o tifare per una squadra, ma è preferibile lo faccia con più discrezione che passione.
Le altre interviste, quelle a Pantani, a Muhammad Alì-Cassius Marcellus Clay, il Dalai Lama, Pietro Mennea, le ho viste quasi integralmente. Buone, molto buone, ma con un pizzico di servilismo sottile che mi ha sempre dato un po’ di fastidio.
Minà è stato certo un grande giornalista, pieno di risorse e coraggioso, ma ha anche avuto al massimo grado l’istinto di riflettersi nel suo ospite, perché quello è il mestiere del giornalista, quello di vivere di luce riflessa.
Mi permetto di mettere giù questo saggetto divulgativo pensando ai miei lettori più giovani, che poco o nulla sanno di questi ultimi sessanta/ settanta anni di storia patria.
Non sarà un testo scientifico, perché non ne ha la pretesa, né io sono precisamente uno storico: la mia prospettiva sarà dunque politologica e sociologico-antropologica, su uno sfondo etico-filosofico.
Per poterne parlare con lo stile annunziato, riporto di seguito – integralmente – il titolo del pezzo. Ne commenterò solo una parte.
C’è un’Italia meravigliosa, ricca, intelligente, onesta, laboriosa, quella della storia, della letteratura, della musica, dell’arte, del pensiero, della solidarietà, dello spirito che, nonostante tutto prevale, ma c’è anche un’Italia marcia, oscura, terribile, anche perché (ancora) solo parzialmente svelata e conosciuta: se partiamo dagli anni ’50 cominciamo con il citare il cosiddetto “caso Montesi”, e poi la morte strana di Enrico Mattei, il “Piano Solo” e la strage di piazza Fontana, il (tentato) golpe Borghese, il terrorismo di sinistra e lo stragismo di destra sui treni e alla stazione di Bologna il 2 agosto 1980, l'”affaire Moro” dalle sue premesse a via Fani, a via Caetani, etc., la P2, la morte improvvisa di papa Luciani, la tragedia di Ustica, il cosiddetto “mostro di Firenze”, la scomparsa (sempre meno misteriosa) di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, l’attentato a papa Wojtyla, le stragi di Via d’Amelio e di Capaci, i Servizi deviati e la Banda della Magliana, Sindona, mons. Marcinkus e lo IOR (la Banca Vaticana), l’omicidio Pecorelli, e la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri a Londra, tacendo di parecchie altre… molte delle quali sono connesse a quelle sopra citate.
C’è infatti un filo nero e rosso che collega in qualche modo un po’ tutte le vicende che ho elencato, come se una mente malvagia avesse armato tante mani altrettanto malvagie.
Vi sono episodi, come la morte di Mattei e la strage di Ustica che non hanno ancora trovato, a quasi sessant’anni e a oltre quaranta – rispettivamente – alcuna conclusione chiarificatrice ufficiale, anche se si sa che l’aereo Itavia, con ottantuno passeggeri a bordo, decollato da Bologna e diretto a Palermo, fu abbattuto quasi certamente da un missile Exocet dell’aeronautica militare francese, e probabilmente da un Mirage 2000, che stava inseguendo dei Mykoian–Mig 25 libici, forniti dall’Unione Sovietica, uno dei quali fu trovato abbattuto sulla Sila; mentre il piccolo jet sul quale viaggiava Mattei, che era inviso alle cosiddette “Sette sorelle” del petrolio, Shell, Total e Bp in testa (Olanda, Francia e Gran Bretagna), per il suo legittimo attivismo con i Paesi arabi del Vicino oriente al fine di dar valore alle attività delle società energetiche italiane Agip e Eni, cadde per un guasto a qualche decina di minuti dal decollo.
Che dire dell’immensa letteratura che si è sviluppata attorno al “caso Moro”, dei tre processi, delle testimonianze, delle connivenze, dei silenzi, del commando assassino di via Fani (da chi era veramente composto, Morucci? Solo da lei e dai suoi compagni più o meno in seguito resipiscenti?)?
Perché si è impedito che il PSI di Bettino Craxi, Signorile e Martelli continuasse a provare la strada della trattativa con le BR? Anche recentemente l’on. Claudio Signorile, che nel 1978 era vicesegretario del Partito Socialista, in quota “sinistra lombardiana”, ha spiegato in una intervista che tramite il suo conoscente (amico? non so se, e fino a che punto…) Franco Piperno, docente di fisica in Calabria e uno dei capi di Potere Operaio, avrebbe potuto avere contatti con il gruppo (posso dire “riformista” o “gradualista” o “moderato” delle Brigate Rosse?) di Valerio Morucci e della sua fidanzata di sempre Adriana Faranda, per trovare una via d’uscita per il Presidente Moro? E chi è stato il più severamente inflessibile? Andreotti, Cossiga (mi vien da dire con un po’ di rabbia, poverino), Berlinguer, Ugo La Malfa? Che voleva un’immediato ripristino della pena di morte per i brigatisti per “Stato di guerra”, misura che non si sarebbe potuto costituzionalmente assumere, come ebbe a spiegargli Cossiga, che era un valente giurista. D’accordo con La Malfa si dichiararono, allora, il combattente della Resistenza Azionista Leo Valiani, e anche il Presidente Pertini non pareva contrario. D’altra parte il compagno Sandro aveva, per parte sua, accettato la sua condanna a morte, poi evitata con una rocambolesca fuga da Regina Coeli, una cum Saragat, auspice il compagno Giuliano Vassalli e un medico connivente con il partigianato romano, e aveva in qualche modo partecipato alla decisione del CLN Alta Italia per la fucilazione immediata del Duce, una volta arrestato. Dongo e Giulino di Mezzegra furono decisioni, certamente del compagno Luigi Longo, ma anche sue. Anche sugli esecutori materiali c’è stato contrasto tra l’ipotesi che sia stato il “colonnello Valerio”, cioè Walter Audisio o altri, forse anche inglesi (o giù di lì).
Et de hocargumento, satis.
Quanto dava fastidio Aldo Moro ad Americani e Sovietici? Quanto la sua strategia (di lungo periodo) di completamento del coinvolgimento della parte produttiva italiana e delle sue storiche rappresentanze, collideva con quelle menti e quelle mani malvagie che ho citato supra?
In tema suggerisco al mio solerte lettore di cercare sul web (you tube) l’ampio servizio curato dal giornalista Andrea Purgatori e l’intervista a Francesco Cossiga, che tanta parte ebbe nella vicenda.
E sull'”album di famiglia” delle Brigate Rosse? Per quanto tempo la sinistra storica (il PCI) e quella extraparlamentare scrissero e dissero che le BR non erano di sinistra, ma esaltati killer fascisti? Fu la meravigliosa compagna Rossana Rossanda che scrisse chiaro e tondo che le Brigate Rosse appartenevano alla grande famiglia della sinistra storica. Si ascolti qualche video intervista del co-fondatore (con Renato Curcio e la moglie di questi Margherita “Mara” Cagol) Alberto Franceschini, figlio e nipote di partigiani emiliani, in gioventù iscritto alla Federazione Giovanile Comunista, per capire che-cosa-erano le BR, peraltro mossesi – in modi anche molto diversi (si pensi al cosiddetto “movimentismo” assassino del professor Giovanni Senzani) – per quasi trent’anni, dal breve rapimento del dirigente Siemens ing. Amerio (il volantino di rivendicazione diceva “rapirne uno per educarne 100”, maoisticamente), che è del 1974, se non ricordo male, alla crudelissima uccisione del professore Marco Biagi, economista e giurista del lavoro dinnanzi all’uscio di casa. Intellettuale socialista e cristiano, uomo buono, come Moro.
Anche il professor D’Antona subì la stessa sorte, ed era un uomo del Partito Democratico di Sinistra. Così, senza – grazieadio – morirne, ebbe sorte analoga il famosissimo giurista professore Gino Giugni, che ebbi modo di conoscere personalmente (a Roma, bevendo un caffè con Giorgio Benvenuto, in una pausa di un convegno nazionale della Uil, quando ero segretario regionale di questo sindacato e componente della Direzione nazionale), “padre” dello Statuto dei Diritti dei Lavoratori, almeno due decenni prima. Le BR erano di una sinistra radicale (cf. il pezzo precedente su questo blog) che non accettava gradualismo, moderazione, condivisione, ricerca dell’accordo tra le parti sociali, e pretendeva di rappresentare le classi “subalterne” con la violenza e senza avere ricevuto alcun mandato. Per presunzione, superbia, orgoglio spirituale? Sì, un sì grande come una casa. Infatti, nonostante siano riuscite, con altre formazioni similari a terrorizzare l’Italia per trent’anni, alla fine sono finite.
Potrei approfondire il tema per conoscenze dirette di varia natura di questo tema, ma preferisco fermarmi qui. Ritengo opportuno solo dire che ai tempi di quando anche dalla mie parti questo movimento si stava radicando a partire da gruppi di “autonomi” (che erano la sinistra della sinistra extraparlamentare), essendo io quello che sono ancora, un socialista moderato cristiano, venivo accuratamente evitato da qualche mio amico che stava prendendo una brutta strada. Anche su queste tristi italianissime vicende consiglio di cercare qualche video, dove gli ex brigatisti si raccontano, o con lo stile freddo e “politico” di un Mario Moretti, oppure con la commozione sincera di Franco Bonisoli. “Uomini” delle brigate Rosse, come ebbe a chiamarli il grande papa Paolo VI. Uomini, come te e come me, come gli altri eversori e come le loro vittime.
Antropologicamente (lo dice la parola stessa!), uomini, fatti come il dottor Karl Marx non ha mai capito (o non ha voluto capire): commistione inestricabile di bene di male, laddove il male non è mai banale, cara Hannah Arendt!
E delle “cose di destra”? quella eversiva dei Nar e di altre formazioni, come Ordine nuovo. Come hanno potuto nascondersi dietro terrificanti stragi, riuscendo a non farsi “beccare” per anni? …magari per poi ricomparire a distanza di tempo, tipi come Massimo Carminati, amico di Fioravanti, e anche dei banditi della Magliana, e anche di cooperatori “regolari” come Buzzi.
Che cosa può pensare un teologo come me delle segrete/ secretate vicende vaticane, dalla morte strana di papa Luciani, all’attentato a Giovanni Paolo II, al rapimento di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, del comportamento di mons. Marcinkus e dei suoi rapporti con il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi?
Che cosa pensare del ruolo e dei rapporti di Enrico De Pedis “Renatino”, il leader dei banditi del Testaccio della Banda della Magliana con esponenti e prelati vaticani? Forse che Emanuela fu rapita per farsi restituire denari prestati allo IOR (Istituto Opere di Religione, la banca del Vaticano) dalla mafia tramite i banditi romaneschi? Come fa il “recuperato alla ragione” Antonio Mancini, sempre di quel conglomerato di criminali, a sapere tutte le cose che dice nelle interviste che ognuno di noi può trovare sul web? Io lo trovo sincero, ma resto sconcertato.
Come è stato possibile che quattro contadini o postini ultra sessantenni “sderenati” (termine friulano per dire senza arte né parte), intendo i Pacciani, i Lotti, i Vanni, i Faggi e le loro amiche compiacenti (peraltro oramai tutti deceduti), abbiano ucciso in un paio di decenni otto coppie di giovani che si erano appartati nei dintorni di Firenze, senza che gli inquirenti riuscissero a fondare delle prove inconfutabili per le quali le verità processuali potessero finalmente coincidere con le verità fattuali? In che misura e senso c’entrano le famiglie del medico Vannucci da Perugia e del farmacista fiorentino? Personalmente ritengo che i sopra citati c’entrino in parte, e certamente meno di qualche personaggio di ben altra collocazione sociale.
Continuo con le domande…
E se dovessimo interessarci delle connessioni fra mafia e politica, che cosa ne uscirebbe? Forse non solo le ipotesi infondate di un Ingroia (che strana fine professionale e politica per un magistrato che sembrava sulla cresta dell’onda, ma altrettanto è accaduto a Di Pietro: chi troppo vuole e ciò che segue...).
Ma le vicende che hanno portato alle crudelissime morti di Falcone e Borsellino dicono di coperture e indicibili rapporti… Chi ha raccattato con gesto furtivo la famosa agenda rossa del dottore Paolo? Per farne che? Per portarla a chi? Come mai l’uomo di Castelvetrano ha potuto latitare per tre decenni, rimanendo quasi sempre nella sua grande Trinacria?
Chi ha chiuso uno, due, tre, quattro, decine di occhi, in modo da permettere che per mezzo secolo mafia, camorra e n’drangheta imperassero su un terzo dell’Italia e ne invadessero anche la restante parte? Come faceva un Salvo Lima a stare seduto vicino al “divo Giulio” al Congresso della Democrazia Cristiana e poi in “patria”, laggiù nella più bella terra del mondo, accompagnarsi ai “dazieri” fratelli/ cugini Salvo e compagnia sparante?
Chi, chi, chi? Perché? E la domanda filosofica per eccellenza resta ancora senza risposte soddisfacenti.
Un titolo così netto pone immediatamente problemi gnoseologici, intellettuali e storico-politici. Tento ugualmente una sintesi, soprattutto rivolta ai lettori miei più giovani, ma non solo a loro.
Giulio Alessio
Innanzitutto ci si deve chiedere: che cosa è in generale il Radicalismo politico? Si può tentare una risposta sotto due profili, come sempre accade quando si tratta di descrivere movimenti socio-politici o culturali: a) il radicalismo storico, e b) quello meta-storico e u-cronico.
In altre parole, si può parlare, innanzitutto, come si definisce supra: a) di radicalismo pensando al Partito radicale ottocentesco che si presentò con successo anche al Parlamento savoiardo e in altri consessi di nazioni europee, dove i sovrani stavano lentamente venendo costretti a “concedere” Leggi costituzionali atte a superare il modello autocratico del potere monarchico in vigore da secoli, e al radicalismo novecentesco, di stampo – dici potest – cultural-liberale; inoltre, b) si può anche pensare al radicalismo politico come estremismo.
Il radicalismo storico è caratterizzato dalla sua posizione intransigente in ordine a una serie di principi umanisti, razionalisti, laici, repubblicani e anche anticlericali, e per una visione più socialmente e culturalmente più avanzata della società da una prospettiva “liberale” progressista, con particolare attenzione ai diritti civili e ai diritti politici.
Nella seconda metà dell’Ottocento i “radicali” erano l’ala più estrema del liberalismo, come una sorta di sinistra liberale. Le proposte politiche del movimento tendevano all’egualitarismo politico, a partire dal sistema elettorale, circa il quale sostenevano il suffragio universale, superando prima di tutto le distinzioni di censo, cioè economiche, l’abolizione dei titoli nobiliari dell’aristocrazia, e il sistema istituzionale repubblicano. Non poco. Per i radicali, inoltre, era fondamentale la libertà di opinione e di stampa e la separazione netta delle prerogative dello Stato da quelle della Chiesa cattolica.
Il radicalismo storico è intransigente circa l’affermazione di principi umanisti, razionalisti e laici, fino a un anticlericalismo spesso molto spinto. D’altra parte si trovavano ancora di fronte i papi-re, alla Pio IX soprattutto, ma anche à la Leone XIII. Per i radicali dovevano dunque essere affermati e perseguiti nuovi diritti civili e politici. Questo accadeva, in particolare in Italia, mentre altrove questa cultura politica si sviluppava in modo diverso.
Ad esempio, negli Stati Uniti, dove la cultura e i partiti di ispirazione socialisteggiante non potevano trovare spazio, si sviluppò una cultura politica di tipo radicale denominata liberal, che diede origine storica a uno dei due grandi partiti americani, il Partito democratico, un partito, si può dire, di stampo socialdemocratico, se vogliamo utilizzare una definizione “europea”. In America, dunque, i liberal erano socialdemocratici, mentre il termine radical già significava un qualcosa di simil-marxista, area che si sviluppò poi nel Novecento con i movimenti giovanili, di genere (Angela Davis) e nella militanza antirazzista (Malcolm X).
Tonando alla storia italiana contemporanea, il radicalismo ottocentesco traeva la sua linfa etico-politica dal mazzinianesimo, laico e repubblicano, e dal retaggio garibaldino, con riferimento, tra altri, al federalista repubblicano Carlo Cattaneo, e al mazziniano Carlo Pisacane.
Tra i radicali della seconda metà dell’Ottocento si poteva anche annoverare una fascia relativamente più moderata, che accettava un transizione democratica più lenta e implementabile anche con l’accettazione della monarchia regnante, visto che l’unità d’Italia era avvenuta sotto i Savoia.
I punti fondanti del programma della sinistra radicale, l’unica che aveva deciso di distinguersi dai moderati, si possono sintetizzare in questo modo, così come furono proposti e approvati nei loro Congressi di Roma del novembre 1872 e del 13 maggio 1890:
la completa separazione tra Stato e Chiesa;
il superamento del centralismo a favore di un decentramento amministrativo di matrice comunale;
la promozione dell’ideale federale degli Stati Uniti d’Europa così come proposti da Carlo Cattaneo;
l’opposizione al nazionalismo, all’imperialismo e al colonialismo;
l’indipendenza della magistratura dal potere politico;
l’abolizione della pena di morte;
la tassazione progressiva;
l’istruzione gratuita e obbligatoria;
l’emancipazione sociale e nel lavoro della donna;
il suffragio universale per uomini e donne;
un piano di lavori pubblici per la riduzione della disoccupazione;
sussidi, indennità, pensioni e garanzie sociali per i lavoratori;
la riduzione dell’orario di lavoro e del servizio di leva. …non sembra essere poco, vero? Obiettivi che sono stati raggiunti, e certamente non del tutto, solamente solamente con la Repubblica democratica fondata sul lavoro di cui alla Costituzione del 1948!
Tornando brevemente alla storia, Il Partito Radicale Italiano si costituì ufficialmente in partito politico nel corso del I Congresso Nazionale a Roma il 27-30 maggio 1904. All’epoca il presidente del partito era Ettore Sacchi, che progressivamente lo condusse alla partecipazione ad alcuni governi liberal democratici dell’età giolittiana (1903-1914). Contemporaneamente un altro esponente radicale, Giuseppe Marcora, fu per molti anni alla presidenza della Camera dei Deputati (1904-1919).
Nei confronti dei governi presieduti o sostenuti da Giovanni Giolitti i radicali assunsero un atteggiamento inizialmente ambiguo. Il rifiuto dei socialisti di Filippo Turati all’invito di Giolitti di aderire al suo secondo governo (1903-05) ebbe come conseguenza il ritrarsi dei radicali da ogni trattativa, fino alla nomina di Marcora alla presidenza della Camera. Dopodiché tra il 1904 e il 1905 parte dei deputati radicali fornirono un appoggio esterno al governo Giolitti II. Successivamente non vedendo soddisfatte le aspettative di riforme democratiche contribuirono alla sua caduta.
I radicali si scissero poi sul sostegno dei due governi guidati da Alessandro Fortis (1905-1906), antico militante radicale. Infatti anche se la maggioranza del gruppo parlamentare si schierò all’opposizione, accusando il governo di poca chiarezza programmatica e di trasformismo (malattia endemica della politica italiana. Se chiedessi al mio gentile lettore se riesca a individuare un campione contemporaneo del trasformismo più bieco, sono convinto che anche i meno frequentanti i discorsi politici non avrebbero dubbi nell’indicarlo nell’avvocato Giuseppe Conte, capace di tutto e del suo contrario, non tanto nell’agire, ma nel dire e disdire), due deputati radicali vi entrarono come sottosegretari.
Dopo la caduta di Fortis, Sacchi strinse un accordo con il presidente della destra storica Sidney Sonnino per la formazione di una maggioranza antigiolittiana, sia pure eterogenea. Il governo Sonnino I nacque con il sostegno dei radicali, del Partito Socialista Italiano e del Partito Repubblicano Italiano. Nel successivo governo presieduto da Giolitti i radicali si schierarono nuovamente all’opposizione. Nel 1910 vi entrarono invece nel governo Luzzatti, con Sacchi come Ministro dei Lavori pubblici e nel 1911 (Governo Giolitti IV) e Francesco Saverio Nitti come Ministro dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio.
Nell’imminenza delle lezioni politiche del 1913 il Partito Radicale riuscì a fare approvare dal Parlamento una delle sue istanze prioritarie, il suffragio universale, sia pur soltanto maschile. Le elezioni successive in cui il partito conseguì il massimo numero di deputati della sua storia (62) furono tuttavia segnate dalla svolta della politica giolittiana impressa dal Patto Gentiloni (dal nome dell’avo dell’attuale politico del PD Paolo Gentiloni, conte Silveri), cioè l’accordo elettorale del partito di governo con le gerarchie cattoliche in funzione anti radicale e anti socialista. Di conseguenza nel successivo congresso che si tenne a Roma nel febbraio 1914 in un ambiente infuocato il Partito Radicale votò a grande maggioranza l’uscita dal governo. La figura di Nitti, molto importante in quella fase politica, merita si riporti qui una sua foto.
Francesco Saverio Nitti
Alla vigilia della Prima Guerra mondiale il Partito Radicale nel solco della tradizione mazziniana e risorgimentale si collocò per la maggior parte sulle posizioni dell’interventismo democratico. Tale linea, non fu unanime (lo stesso Ettore Sacchi evitò di pronunciarsi nettamente) e soprattutto segnò un fossato non facilmente colmabile con i socialisti, isolando il radicalismo dal panorama politico parlamentare. I radicali rientrarono nella compagine governativa solo nei due governi di unità nazionale (1916-1919) di Paolo Boselli e di Vittorio Emanuele Orlando.
Il radicalismo laico e democratico italiano ebbe – all’inizio del secolo – figure significative quali il repubblicano Ernesto Nathan, ebreo, e il Nitti, eccellente economista e fautore della dottrina politica denominata Meridionalismo, atta a superare l’enorme divario socio-economico con la restante parte dell’Italia. Su questo il lettore farebbe bene a informarsi su come il Regno sabaudo incorporò il Sud Italia e anche sul tema del così detto “brigantaggio”, che non fu storia di mero banditismo, come la vulgata ufficiale dell’epoca voleva.
Nathan, dal 1907 al 1913 fu sindaco repubblicano di Roma con il sostegno dei socialisti, si rese fautore di accese battaglie a beneficio dei ceti più poveri della Capitale e contro le ingerenze della Chiesa Cattolica, con un papa, Pio X, Giuseppe Sarto da Riese, che riteneva essere (a mio avviso, sbagliando) la Chiesa unica depositaria dell’educazione dei bambini e dei giovani.
Nitti era stato Ministro dell’agricoltura, dell’industria e del commercio nel governo Giolitti IV ed esponente della minoritaria corrente neutralista del partito alla vigilia della grande guerra. Fu il primo radicale a diventare Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920, per cui si trovò alle prese con il problema della smobilitazione dell’esercito dopo la prima guerra mondiale; varò un’amnistia per i disertori, avviò un’ampia indagine sull’arretratezza e i bisogni del Mezzogiorno e fissò un prezzo politico per il pane. Fu tuttavia travolto dalla crisi connessa all’impresa di Fiume guidata dal poeta Gabriele D’Annunzio, su cui scrissi tempo fa un piccolo saggio pubblicato su questo sito dal titolo “ll Poeta Soldato”, e che non fu mai fascista come molti ritengono.
Il 12 giugno 1921 la delegazione alla Camera del Partito Radicale costituì un gruppo parlamentare unico, Democrazia Sociale, insieme agli eletti di Democrazia Sociale e a quelli di Rinnovamento Nazionale (una lista di deputati eletti in rappresentanza degli ex combattenti) per un totale di 65 deputati. Un analogo raggruppamento fu costituito in Senato. Il 25 novembre 1921 avvenne la fusione tra i gruppi demo-sociale e demo-liberale in un unico gruppo democratico, che divenne il più numeroso, sia alla Camera (150 deputati) sia al Senato (155 senatori).
Nel gennaio del 1922 fu costituito il Consiglio nazionale della Democrazia Sociale e Radicale, cui aderì anche la direzione del Partito Radicale, sancendo di fatto la propria dissoluzione. Quest’ultimo organismo al primo congresso svoltosi a Roma nell’aprile 1922 dette forma al nuovo partito denominato Partito Democratico Sociale Italiano, cui peraltro non aderirono alcuni esponenti radicali quali Francesco Saverio Nitti] e Giulio Alessio.
Il PDSI accordò la fiducia al governo Mussolini e fece parte della squadra governativa con due ministri sino al 4 febbraio 1924; il giorno successivo il partito abbandonò la maggioranza di governo, passando all’opposizione. Si presentò poi alle elezioni politiche italiane del 1924 con una lista autonoma e ottenendo un misero 1,55% dei suffragi e 10 seggi.
Nonostante l’iniziale fiducia del partito demo-sociale al fascismo, il radicalismo italiano continuò a esprimersi prima e dopo il delitto Matteotti nel rigoroso antifascismo di uomini come Piero Gobetti, la cui Rivoluzione liberale (nome del movimento e anche della rivista da questi fondata e diretta) ha rappresentato il tentativo di rifondare il liberalismo in senso progressista e popolare con un occhio all’ideologia socialista o come allo stesso Nitti. Nel novembre 1924 numerosi esponenti radicali indipendenti (Giulio Alessio, Piero Calamandrei, Meuccio Ruini e Nello Rosselli) aderirono al movimento fortemente antifascista dell’Unione Nazionale delle forze democratiche e liberali di Giovanni Amendola (in seguito morto a causa di un’aggressione fascista e padre del noto esponente del PCI Giorgio, leader con Giorgio Napolitano dell’area cosiddetta “migliorista”, cioè moderata e gradualista, del Partito Comunista Italiano nel Secondo dopoguerra).
Nel dopoguerra il radicalismo storico ha fatto capo a personalità come Ernesto Rossi, e soprattutto a Riccardo (più noto come “Marco”) Pannella, che guidò importanti lotte per i diritti civili, come il divorzio e l’interruzione di gravidanza, che pongono non banali problemi di riflessione morale e furono occasioni di gravi divisioni nel Paese.
L’importante, oggi, è non ritenere che questi due diritti civili siano un qualcosa da cui possono germinare ulteriori normative di legge che rispondano a esigenze non strettamente legate a ciò che si può configurare come “Diritti fondamentali” dell’uomo. Non approfondisco in questa sede il tema, perché lo ho già affrontato recentemente, sempre qui, ma mi limito ad un breve elenco.
Se si dice che può definirsi come diritto civile la separazione e il divorzio in una coppia umana, e che anche l’interruzione di gravidanza può essere considerato dolorosamente tale, non altrettanto – a mio avviso – si può dire che la gravidanza per altri, la fecondazione eterologa e l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali siano comparabili ai due “diritti” sopra citati, ma piuttosto si tratti di desideri, se non di capricci egoistici. Sempre a mio avviso, sapendo che molti (non credo la maggioranza) la pensano diversamente da me.
Avere un figlio non può essere ritenuto semanticamente ed eticamente un DIRITTO, ma un DONO della natura e dell’intelletto umano!
Alcune righe dedicherò, inoltre, all’altro tipo di radicalismo, quello che ritengo sbagliato, negativo, pericoloso, dannoso e diseducativo. Quello connotato da idee, organizzazioni, comportamenti e atti estremistici che possono traguardare nel terrorismo, negli attentati e negli omicidi.
Ho conosciuto nella mia vita molte persone coinvolte in idee e anche atti “radicali”, estremi di varia gradazione e natura. Ad esempio militanti dell’estrema sinistra, un tempo detta extra parlamentare, dagli ultimi anni ’60 agli anni contemporanei. Ebbene, distinguo tra chi – tra costoro – si è limitato a dire, scrivere e sostenere la liceità di un cambiamento sociale usando anche metodologie radicali, come lo sciopero generale, e programmi in comune con le sinistre storiche, e chi invece, seguendo le idee marx-leniniste e anarco-estremiste, hanno ammesso, sostenuto e anche praticato la lotta violenta, armata.
Bene, quest’ultimo è il radicalismo sbagliato, dannoso, pericoloso, diseducativo, prima ancora che per ragioni di carattere giuridico-legale, per ragioni di carattere antropologico-filosofico ed etico. Fondamentali.
Costoro NON CONOSCONO l’uomo nella sua struttura complessa, fisica, psichica e spirituale, e ritengono che il cambiamento sociale radicale modifichi l’uomo nella sua struttura, per cui in una società comunista o anarchica, l’uomo smetta di essere egoista, egocentrico o addirittura egolatrico, e diventi, per il fatto stesso che vive in una “società-giusta”, giusto, virtuoso, generoso, altruista, buono. Sia che sia povero, sia che sia ricco, sia che sia dipendente, sia che sia imprenditore o dirigente, ognuno deve guardarsi dentro e cercare di vedere le proprie imperfezioni, cercando, prima di tutto di auto-riformarsi, come insegnano il radicalismo moderato e la dottrina evangelica.
NON E’ VERO che cambiare la società cambia interiormente l’uomo, perché l’uomo è una commistione irrisolvibile di sentimenti (natura) buoni e malvagi, di comportamenti egoisti e generosi, di pensieri corretti e sbagliati, di obiettivi ragionevoli e irragionevoli.
Perciò il radicalismo estremista è sbagliato, non solo per ragioni politiche, ma primariamente e più di tutto perché relate allastruttura stessa dell’uomo, che è cagionevole, fragile, imperfetta. Di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, perché un filo di malvagità così come un filo di bontà alberga in ogni cuore, come insegnavano bene sant’Agostino e Blaise Pascal, più e meglio di altri.
Il (non l’, ooh, distrattucci scrittori di documenti di lavoro) R.S.P.P. (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, cerca di imparare l’acronimo, lavoratore che mi leggi!) di un’azienda manifatturiera del Nordest assai importante, mi racconta che un preposto, a fronte di una sua (del RSPP) opportuna, utile, necessaria e obbligatoria segnalazione di una mancanza di vigilanza in tema di sicurezza del lavoro, si è sentito rispondere che (allora) anche il RSPP avrebbe dovuto provvedere a mettere a posto un’altra “cosa” della sicurezza…
…come se si trattasse di un piccolo mercanteggiamento tra due carenze/ mancanze/ omissioni: se non mi metti a posto quella cosa io non mi occupo di quelle che mi stai segnalando. Più o meno. INFANTILE (ed è dire poco).
Il tema della sicurezza del lavoro NON è una moda e NON è un… lavoro. Bisogna che questi due concetti entrino nella testa delle persone. Sono assertivo e poco filosofico, perché me ne occupo e conosco i sentimenti e i meccanismi del “settore”. Come presidente di organismi di vigilanza sono stato coinvolto recentemente da due “mancati-infortuni-mortali”. Tecnicamente così si chiamano e vanno registrati da chi si occupa di sicurezza in azienda, cioè il R.S.P.P., e devono essere presi in considerazione anche dal Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (il R.L.S.) e dalla Direzione aziendale, nonché da chi si occupa di Risorse umane.
Dove è stato istituito il Modello Organizzativo e Gestionale (M.O.G.) previsto dal Decreto Legislativo 231 del 2001, ed opera – secondo la Legge – un Organismo di Vigilanza (O.d.V.), ove accada un infortunio e anche un “mancato-infortunio”, detto Organismo deve essere informato per iscritto insieme con gli Enti aziendali sopra descritti. Questo Ufficio, autonomo e giammai eterodiretto da alcuno, pena la decadenza di ogni sua efficacia de facto et de iure, si muove immediatamente verso i vertici aziendali scrivendo un verbale contenente un giudizio sull’accaduto ed eventualmente dei suggerimenti per migliorare l’organizzazione e la gestione degli aspetti rilevati carenti.
Ogni lavoratore e ogni preposto è tenuto ad osservare le regole della sicurezza, senza chiedersi se altrettanto fanno anche gli altri e, se lo riscontrasse dovrebbe farsi parte diligente per far osservare garbatamente l’obbligo di tutela e di autotutela sempre e comunque, senza far gare a chi è più furbo.
Ricordo qui al lavoratore e al preposto che in Italia vige una legislazione forte in tema di tutela della sicurezza del lavoro, che ha inizio fin dalla metà degli anni ’50, con i Decreti legislativi 547 sull’antinfortunistica del 1955 e con il 303 del 1956 sull’igiene del lavoro; ricordo il famoso Decreto legislativo 626 del 1994, e il Testo Unico contenuto nel Decreto legislativo 81 del 2008, con le integrazioni del Decreto 106 del 2009. Non si dimentichi l’articolo 9 dello Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, Legge 300, né regolamenti e norme territoriali e aziendali che pure vigono.
Ogni lavoratore, nessuno escluso, anzi ogni addetto, dal giovane appena assunto all’amministratore delegato, tutti, sono tenuti al massimo di attenzione per la tutela della salute e sicurezza di sé stessi e dei colleghi.
Ogni altro commento del tipo: spetta a te spetta a me, guarda lui che non lo fa... sono chiacchiere. Talvolta pericolose.
La formazione, sia in ambito scolastico-accademico, sia in ambito aziendale o in altri ambienti dove necessita un’organizzazione e una gestione dei vari fattori, si può svolgere – in generale – in tre modalità principali: frontale, seminariale, laboratoriale.
a) quella denominata frontale è tradizionale, “verticistica”, nella quale vi è un docente-maestro-professore-formatore che propone degli argomenti concernenti determinate discipline o materie d’insegnamento, sulle quali a un certo punto è prevista una verifica di ciò che gli allievi-alunni-studenti-discenti-partecipanti hanno imparato, con delle verifiche (un tempo chiamate “compiti in classe”) ed esami; questa modalità prevede solitamente anche una logistica precipua, una struttura formale del luogo dove si “insegna”, nel quale il docente sta-di-fronte ai suoi discenti, proponendo quella che -accademicamente – si chiama lectio magistralis (lezione del maestro); tale modalità è prevalentemente in uso nelle scuole dell’obbligo, nelle superiori e in buona misura anche nelle università; è evidente che la differenza qualitativa la fa il docente, se riesce a non essere noioso, ripetitivo e meramente didascalico, ma originale, interessante nell’eloquio, coinvolgente; ai discepoli è consentito fare domande, alla fine della lezione, ma con misura e a discrezione del docente;
b) quella detta seminariale, si svolge con un coinvolgimento quasi immediato dei partecipanti su un tema solitamente monografico, dove non è prevista una vera e propria “lezione” che deve essere essenzialmente ascoltata, ma un tema sul quale, dopo una spiegazione sintetica, si avvia una discussione nella quale il ruolo del “conduttore” o “facilitatore” (altri nomi del principale “attore” dell’evento) deve cercare di non sopraffare – con il suo (solitamente) maggiore sapere – gli interventi dei partecipanti, ma di trovare dei modi opportuni per sollecitarli; per condurre un seminario sono necessarie qualità e accortezze molto particolari e raffinate da parte del conduttore, che deve sapere quasi mettere in moto gli interventi dei partecipanti, cogliendo il momento giusto, aiutandoli a superare imbarazzi e a volte il senso di inferiorità che può prendere qualcuno;
c) la forma laboratoriale si può configurare come una variante di quella seminariale; da questa si differenzia in quanto il gruppo a un certo punto dei lavori può essere anche diviso in sottogruppi ognuno dei quali dovrà trattare un tema che fa parte dell’argomento più generale, oppure si svolgerà separatamente una discussione sul tema generale proposto all’inizio dal moderatore: ad esempio, in un laboratorio filosofico dove si è proposta la lettura di un testo della tradizione letteraria di un autore, i diversi gruppi possono essere richiesti di svolgere separatamente un dialogo, per poi riportare al consesso generale, tramite un portavoce, il risultato della discussione.
Si possono poi dare anche forme miste frontali- laboratoriali o seminariali, come le filosofiche “comunità di ricerca”, a seconda delle modalità operative del gruppo di lavoro o della classe. Sono dell’idea che un buon progetto formativo, in qualsiasi luogo si svolga, possa contenere tutte e tre le macro-modalità sopra descritte, che bisognerebbe opportunamente integrare.
Personalmente, avendo sviluppato nel tempo almeno cinque tipi di esperienze formative, nel senso dei luoghi dove sono state svolte, l’azienda, l’università, il sindacato, l’ambiente ecclesiale e il gruppo di ricerca filosofico, ho avuto modo di notare come soprattutto le modalità più liberamente dialogiche (la seconda e la terza) hanno spesso rivelato il talento o la predisposizione di qualcuno a crescere.
Ogni ambiente formativo può essere, dunque, utilizzato come assessment di valutazione dei partecipanti in vista di incarichi di ricerca o di ruoli lavorativi di maggiore responsabilità. Provo ad approfondire: se l’argomento trattato è di carattere psicologico e relazionale utilizzando, ad esempio, un power point composto da slide esponenti concetti sintetici da elaborare nel gruppo che discute, può accadere che un partecipante, non solo intervenga nel merito arricchendo la discussione, ma si “accorga” che nel testo vi è un errore, magari non macroscopico perché è solamente di ortografia, come un refuso, una doppia consonante non rispettata: ebbene, con la sua osservazione (peraltro garbata e rispettosa), manifesta una capacità attentiva molto interessante, e da tenere in considerazione da parte del docente o del responsabile aziendale. Quella persona, non un’altra, ha avuto la capacità, non solo di seguire lo sviluppo concettuale del testo e dei ragionamenti connessi al testo, ma anche gli aspetti formali del testo stesso… e, siccome è dimostrabile logicamente che “la forma è sostanza“, consegue che l’evidenza di un particolare “soggetto provvisto di potenziale” è pressoché inconfutabile.
Circa la sostanzialità della forma si può scomodare il semplicissimo esempio metafisico legato al racconto che Michelangelo Buonarroti narra, quando racconta come “nasce una statua“. Il grande artista spiega che fa lavorare gli allievi “per toglimento di materiale marmoreo” fino a un certo punto, dal quale inizia il suo lavoro di fino, che va avanti finché non “emerge” la figura della statua che aveva precedentemente ideato. La statua, infine, corrisponde all’idea mentale che lo scultore aveva nella sua testa fin dall’inizio del progetto. Le parole buonarrotiane conclusive della spiegazione sono le seguenti, da me parafrasate: “Se non fosse stato possibile dare la forma che avevo in mente per scolpire la statua di un uomo, sarebbe rimasta la materia prima, perciò la forma è la sostanza della statua“.
Così come la correzione della parola-concetto suggerita dallo studente-allievo-lavoratore in formazione, attesta una capacità particolare che deve essere considerata, specialmente se la finalità della formazione è quella di individuare persone cui possano essere affidati nuovi compiti o, per meglio dire, deleghe, e quindi si possa “investire” tempo e risorse per una crescita, nel senso di uno sviluppo professionale, che è anche culturale e soprattutto umano.
Vi possono poi essere anche altri casi e situazioni nelle quali la formazione, nelle sue varie declinazioni, può offrire spunti per l’individuazione di persone di valore, che desiderano assumersi maggiori responsabilità, dando spazio ai talenti di cui la natura li ha dotati, e che la formazione può contribuire a far emergere.
Per certi aspetti, la formazione può svelare profili e prospettive personologiche individuali che altrimenti potrebbero non passare mai dalla latenza all’evidenza, proprio perché interpella in modo indiretto e implicito il potenziale delle persone, che nel quotidiano hanno altro da pensare a da fare.
Una quaestio disputata, come avrebbero detto/scritto Tommaso d’Aquino, Alberto di Colonia, suo magister, o Johannes Meister Echkart, docente alla Sorbonne, abbastanza imbarazzante, sia sotto il profilo morale, sia sotto il profilo socio-educativo, sia sotto il profilo civile e penale, per quanto – generalmente – si tratti di atti di non eccezionale momento criminale, ma comunque assai fastidiosi, specialmente se perpetrati nei confronti di cittadini fragili come egli anziani, che non vengono “esentati” dagli “attacchi” come obiettivi, anzi, al contrario sono spesso preferiti, proprio perché maggiormente indifesi e di facile approccio.
Nel nostro tempo, almeno da mezzo secolo, la sociologia come scienza “a-valutativa” o quasi meramente descrittiva, ci ha spiegato che tutto ciò che accade nella società è prevalentemente generato dalla… società stessa, come soggetto collettivo. Ovviamente, tale descrittività possiede intrinsecamente una robusta valenza politico-morale, poiché mette obiettivamente “a lato” o tra-parentesi la responsabilità personale-individuale di atti liberamente compiuti. Poniamo pure che il disagio generato da azioni sbagliate nasca dalle ingiustizie sociali, per cui consegue che, se la politica riuscisse a rimediare alle ingiustizie, magari solo come effetto secondario (se pure utilissimo), otterrebbe un miglioramento delle relazioni sociali, inter-soggettive, intergenerazionali, e infine una drastica riduzione della criminalità, a partire da quella minore.
Si potrebbe commentare in questo modo: magari fosse così, ma non è così, ed è facilissimo provare a individuarne le ragioni con un esempio semplicissimo come il seguente: a parità di condizioni sociali di disagio si hanno esiti molto spesso assai differenti: da una famiglia disagiata può uscire un giovane che diventa facile preda di esempi delinquenziali e vi aderisce, e un suo fratello che, invece, decide di percorrere una strada radicalmente diversa, positiva, di impegno, di lavoro, di studio, di crescita personale e professionale. Nel caso esposto, si può trattare di due fratelli, che possono essere perfino gemelli monozigoti. Ciò spiega con chiarezza come le componenti filogeneticamente generative di esiti eticamente positivi o negativi attengano anche ai caratteri delle persone singole, non solo alle condizioni economiche. Questo ragionamento già spiega la ragione per cui più sotto esprimerò una critica severa alla presa di posizione della consigliera comunale del PD milanese, Monica Romano.
Riporto un brano giornalistico che attiene alcuni fatti accaduti recentemente a Milano.
“Sembrava talmente assurda la notizia che in tanti non ci hanno creduto. «Sarà un profilo fake», «sono andato a controllare, non può essere vero» i commenti che giravano ieri su Twitter. E invece. La consigliera comunale del Pd a Milano Monica Romano è scesa in campo giorni fa per difendere la privacy delle borseggiatrici rom, filmate da un gruppo di volontari che ha creato una «squadra anti borseggi» e diffonde sulla pagina social «Milanobelladadio», seguita da oltre 171mila follower, immagini e video delle ladre seriali, per allertare i passeggeri. «É squadrismo. La smettano, sia quelli che realizzano i video, sia chi gestisce i canali Instagram che li rendono virali, di spacciare la loro violenza per senso civico».
Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini ieri ha twittato: «Anziché premiare chi aiuta lavoratori e cittadini che ogni giorno rischiano di essere derubati, la priorità della sinistra a Milano e a Roma è proteggere la privacy dei delinquenti. Incommentabile». E pure per il deputato di Azione-Italia Viva Ettore Rosato è «incredibile. Fra poco proporrà di processare le vittime dei borseggi?». L’autrice, appena eletta nell’assemblea nazionale del Pd, ha ribadito invece che «giustificare la giustizia privata è inaccettabile. Nessuno qui nega che esista un problema di sicurezza a Milano, la soluzione non è filmare i volti di queste persone, spesso minorenni, per poi diffondere i video su canali che hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni. Non siamo nel far west. Se fanno video li consegnino alle forze dell’ordine».
Non è stata contestata solo da politici del centrodestra. É stata travolta da commenti di elettori PD («prendersela con chi filma i criminali anziché coi criminali è veramente deludente»), ironie («quando organizzate una fiaccolatadove sono i sindacalisti dei borseggiatori?») e vittima di insulti da parte di hater. Il PD si schiera con Romano, minaccia querele, azioni civili e penali: «Piena solidarietà alla collega bersaglio di una campagna di odio nata da un post sulla sua pagina Facebook in cui si limitava a chiedere che le autrici di borseggi non fossero messe alla pubblica gogna», un «richiamo giusto che nulla toglie alla determinazione nel perseguire i reati ma che pone l’attenzione su modalità comunicative pericolose, che possono generare altra violenza e senso di insicurezza, promuovendo l’idea di una situazione incontrollata e di una giustizia fai da te». Chiude garantendo che «la nostra parte la stiamo facendo fino in fondo, semmai è il governo a dover battere da anni un colpo sul potenziamento delle forze dell’ordine in città». Non fosse che negli ultimi anni al governo per 6 anni in varie sfumature c’è stato il PD. E non servono i video sui social ad alimentare il senso di insicurezza, giusto ieri il sindacato Rsu denunciava che per gli addetti in servizio alle stazioni della metropolitana milanese minacce e aggressioni «sono diventate una routine».
Il caso ha scaldato ieri anche il Consiglio comunale, i dem che hanno preso la parola in aula per difendere la collega hanno screditato il canale social («ha un ritorno economico», «è connivente con il centrodestra», «fa solo danni, peggiora l’immagine della nostra città»). Il consigliere FdI Marco Bestetti avrebbe gradito «almeno un tentativo di equilibrio da parte di Romano, non avrei mai immaginato che un consigliere si ergesse a sindacalista delle ladre rom, attaccando solo chi mette in guardia le vittime».”
Dico la mia: se, ovviamente, sono contrario a “giustizieri” à la Charles Bronson (poi bisogna vedere, de facto, a come uno può reagire se dei criminali gli ammazzano la famiglia, se si limita a chiamare i Carabinieri…), quello che mi dispiace e mi disturba è la visione quasi unilaterale, indulgente e comprensiva che traspare dai toni usati dalla consigliera milanese, e dal paventare conseguenze per chi dovesse reagire ai furtarelli con destrezza. Faccio un esempio. Se la vittima, invece di essere una pensionata settantacinquenne, ben scelta dalle ladruncole, si fa per dire, perché resa lenta dall’età e facilmente spaventabile, la “vittima” è un cinquanta/sessantenne allenato alle arti marziali, che con una mossa di judo, senza farle male, mette in condizioni di non nuocere la bambinotta, che conseguenze dovrebbe patire questo signore?
Io ho qualche dubbio che possano configurarsi estremi di reato, perché si tratterebbe di una reazione proporzionata e non destinata ad offendere, quella del judoka. Non si tratta mica di lodare operazioni come quelle della polizia americana, che pare essere fuori controllo in molte situazioni.
Non dimentichiamo che vige, sia in morale sia in punto di diritto, il diritto sacrosanto alla legittima difesa, per cui, se una/o cerca di derubarmi, io resisto e, se posso, cerco di divincolarmi dal rischio, anche spintonando l’aggressore. O non vale più, cara consigliera? Peraltro la signora consigliera milanese minaccia di denunziare non tanto chi dovesse predicare o praticare le vie di fatto reattive, ma chi cerca di documentare questi fatti per fornire una documentazione probatoria alle polizie. Mi sembra che il principio di tutela della privacy delle ladruncole non possa prevalere sul principio di tutela dell’integrità psicofisica del cittadino, perché uno strattone violento a una signora e o a un signore anziani li può far cadere per le terre con il rischio prossimo di rottura di qualche arto. Magari il femore. Viene prima, in una scala morale, la tutela della privacy o la salvaguardia di un femore già cagionevole per densitometria?
Questo per quanto concerne la concretezza di quegli eventi da strada.
E veniamo agli aspetti etico-sociologici, pedagogici e di diritto. E’ evidente che una delle cause generative di quel fenomeno criminale è da collocarsi negli ambienti che li producono, nelle famiglie delle ragazzine, nell’educazione che (non) ricevono, nelle loro esperienze di vita. Ecco: se però l’ambiente che le “produce” è tendenzialmente o realmente insensibile alla cultura del rispetto della proprietà e soprattutto dell’integrità psico-fisica altrui, è evidente la difficoltà di accedervi con strumenti educazionali e pedagogicamente adatti.
L’ente locale e le forze di polizia devono allora impegnarsi primariamente nella ricerca di quelle famiglie per ottenere il rispetto dell’obbligo educativo di legge, entro il quale vengono proposti i valori principali della convivenza civile, e poi anche procedere nella vigilanza e, ove necessario, nel contenimento di quei “reati” (virgoletto in quanto formalmente non sono reati penali quando commessi da minori).
La politica e il legislatore debbono, nel contempo, emanare norme che contengano, sia la parte construens dell’educazione morale e civica, sia la parte di prevenzione del rischio per tutti i cittadini, comprese le ragazzine che, forse inconsapevoli, anch’esse si sottopongono a dei rischi.
A un ponderato confronto con molte delle strutture socio-politico amministrative attuali, con grandi imperi o soggetti politici, l’Impero romano spicca per le sue caratteristiche positive e per certi aspetti, uniche. Esamineremo i profili principali su cui si può fondare la precedente asserzione.
Innanzitutto la durata. La tradizione colloca la fondazione di Roma alla metà circa dell’ottavo secolo avanti Cristo, mentre l’inizio convenzionale dell’Impero è considerato dal “principato” di Cesare Augusto, dalla seconda decade del primo secolo avanti Cristo. Si deve però subito precisare che il titolo di imperator sostituì quello di princeps solo con l’ascesa di Flavio Vespasiano, un grande generale che aveva battuto la concorrenza. Il termine, o fine storica dell’Impero romano d’Occidente, sempre per convenzione storiografica, è collocato alla fine quinto secolo con la deposizione di Romolo Augustolo (nomina omina!) da parte del re goto Odoacre, che diede inizio al periodo dei “Regni Romano-barbarici”. Da aggiungere – a questo punto – è la decisione dell’imperatore Teodosio di suddividere dopo la fine del suo principato, attorno al 390/ 395, la responsabilità dell’impero unitario, affidando l’area latino-romana a Onorio e l’area orientale costantinopolitana ad Arcadio.
Lucio Anneo Seneca
A Oriente, inoltre, l’Impero, che continuò a dirsi “Romano” (gli abitanti di Costantinopili continuarono per un millennio a definirsi, grecamente, “Romàoioi”, cioè Romani) ebbe termine solo nel 1453, quando Mehmet II, sultano dei Turchi Selgiuchidi, conquistò Costantinopoli, dopo un lungo assedio. Interessante, nel tempo, è stata la discussione sulla denominazione dell’Impero Romano d’Oriente come “Impero Bizantino”, che solo dal XVI secolo assunse questa denominazione; in seguito, nel XVIII secolo, Edward Gibbon criticò la dizione (cf. Il declino dell’Impero Romano), richiamando quella classica di Impero Romano d’Oriente come la più valida, opinione successivamente non condivisa da Benedetto Croce e infine, in anni recenti, ri-condivisa da Luciano Canfora. In ogni caso, il termine “bizantinismo” ha continuato a diffondersi per aggettivare – criticandoli – comportamenti inutilmente complicati o testi prolissi.
La “Romanità” visse, prima nella forma monarchica (per meno di due secoli), in seguito in quelle repubblicana per circa mezzo millennio, e infine in quella imperiale, per un altro mezzo millennio in Occidente e per un millennio e mezzo in Oriente. Durò, in tutto, per oltre duemila e duecento anni, e proseguì per molti aspetti lungo molti altri secoli sotto il “papato” romano, si può dire. Se la cultura greca informò di sé Roma fin dai tempi ellenistici, il cristianesimo in qualche modo caratterizzò ciò che era stata (Roma) fino alla nascita degli stati nazionali dell’Europa. Un qualcosa, dunque, di importanza assoluta per la Storia del mondo.
Per quanto concerne l’ampiezza dell’Impero Romano (oltre 4,5 milioni di km quadrati circa, cioè più o meno la metà degli USA o del Canada attuali; non l’impero più vasto, perché certamente l’Impero Mongolo di Genghis Khan e Timur Lenk, e fors’anche l’Impero Persiano dei tempi di Dario III furono più ampi, ma anche molto più effimeri ). Ai tempi di Traiano, Adriano e Marco Aurelio, l’impero Romano si estendeva dal Vallo di Adriano nella terra dei Britanni, fino al Golfo Persico da Ovest a Est, e dalla Crimea (Chersoneso) a tutto il Nord Africa da Nord a Sud. Teniamo conto che a Nord i Romani non si spinsero oltre perché si trattava solo di terre ricoperte da immense foreste, e a Sud perché si fermarono ai confini del Sahara. Logicamente e razionalmente sarebbe stato inutile, dispendioso e al fin dannoso andare oltre, in ambo i sensi e direzioni.
Se ci soffermiamo sul sistema politico, troviamo: la monarchia, la repubblica oligarchica (optimates e populares), e infine l’imperium, da Cesare Ottaviano Augusto (che fu un eccelso politico, generale e anche riformatore sociale), cui si può perfino attribuire il primo sistema di welfare, millenovecento anni prima di Bismarck per il sistema pensionistico, e quasi duemila prima di Lord Beveridge, noto per una sorta di sistema sanitario pubblico. Un sistema politico che non ebbe mai l’afflato “democratico” delle pòleis greche, ma che riuscì comunque a garantire un certo equilibrio tra le classi sociali. Anche la schiavitù, plausibile perfino per le filosofie eticamente più elevate (cristianesimo compreso), fu temperata dalla possibilità di affrancamento: si pensi alle innumerevoli storie di liberti (schiavi liberati) che furono persone di alto profilo e ruolo a Roma e in tutto l’Impero. Posso dire, senza eccessiva tema di smentite, che io stesso, fatte le debite ucronìe, sono stato e sono – in qualche modo – un “liberto”.
Nell’Impero Romano convisse una immensa varietà di popoli e nazioni, che stettero assieme, si può dire sotto le medesime insegne imperiali, ma potendo conservare le rispettive tradizioni culturali, religioni e ordinamenti civici particolari: l’importante era che accettassero la tutela romana, che veniva attuata, in generale, con modalità di tolleranza inusitata per i tempi. Esemplare su questo tema il famoso discorso al Senato dell’Imperatore Claudio, con il quale il princeps volle specificare che anche i popoli “conquistati” avevano diritto di rappresentanza nella massima assise dell’Impero. In quella occasione Claudio citò espressamente i nomi di popoli Britanni come i Pitti, che comunque lui stesso aveva sottomesso. Certamente vi furono anche ribellioni, che l’Impero represse con durezza, come quelle giudaiche del 70 d.C. (sotto l’Imperatore Vespasiano per opera di suo figlio Tito, che da princeps mostrò una grande umanità), e quella del 130/135 sotto Adriano, che fece radere al suolo Gerusalemme (dopo di che fu fondata Aelia Capitolina, finché non risorse la Città della Pace, Jerushalaim!), dando inizio alla seconda diaspora del Popolo ebraico.
Una delle grandissime opportunità che la Civiltà romana seppe cogliere fu il farsi influenzare culturalmente dalla Grecia, al punto che si disse in questo modo “Grecia capta ferum victorem cepit“, vale a dire: la Grecia conquistata conquistò il fiero vincitore (Orazio, verso 156 del Secondo libro delle Epistole). Il poeta voleva rappresentare come la sfolgorante cultura artistica, filosofica e letteraria della Civiltà greca era stata compresa dai Romani e letteralmente assunta. Tant’è che si usa parlare spesso di letteratura e di filosofia, nonché di arte (di estetica) greco-latina.
Anche la filosofia (l’uomo più potente del mondo era anche filosofo, oltre che saggio politico e valente generale, stiamo parlando dell’imperatore Marco Aurelio) è stata coltivata molto in ambito Romano. Non vi è stato uno sviluppo di particolari “scuole”, come è invece accaduto in Grecia, fin dalla evidenziazione letteraria del mithos, dal VIII secolo, con le filosofie naturaliste presocratiche di un Talete, con la grande storia dei post-socratici Platone e Aristotele, con gli Stoici, gli Scettici e gli Atomisti, ma un sequel con Cicerone e soprattutto Lucio Anneo Seneca. Di Marco Aurelio ho già scritto.
Roma, di contro, è stata la grande maestra del diritto a partire dalla Legge delle XII tavole, e con grandi avvocati come Catone, Cicerone etc. Grande maestra perché ancora il Diritto occidentale, accanto alla common low anglosassone, si ispira al Diritto romano, con i suoi validissimi brocardi, sintesi di razionalità etica e di pragmatismo operativo. Alcuni esempi: a) in dubio pro reo, nel dubbio bisogna stare con l’imputato (evitando di condannare un innocente); b) absurda sunt vitanda, vale a dire: le assurdità interpretative sono da evitare; c) accidit aliquando ut, qui dominus sit, alienare non possit, cioè accade talvolta che, pur essendo proprietari, non si possa vendere un proprio bene; d) acta simulata veritatis substantiam mutare non possunt, che significa i negozi giuridici simulati non possono mutare l’essenza della verità; e) actio adversus iudicem qui litem suam fecit: azione contro un giudice per suo interesse personale in causa; f) ad captandum vulgus, chiarissimo: per abbindolare il popolino; g) nemo tenetur ad impossibilia, nessuno è obbligato a fare cose impossibili,… e via elencando. Sono centinaia, e costituiscono il nerbo, non solo della struttura giuridica, ad esempio, italiana, ma anche espressione di altissimo buon senso.
La cultura (Virgilio, Orazio, Catullo, Petronio Arbitro, Marco Tullio Cicerone, Lucio Anneo Seneca, anche qui, Elio Adriano, sì, anche qui questo nome…, e poi i grandi scrittori cristiani di lingua latina, come Tertulliano, san Cipriano di Cartagine, san Girolamo, e soprattutto sant’Agostino, mentre a Oriente scrivevano, in greco, l’immenso Origene di Alessandria, Gregorio di Nissa, Giovanni di Damasco, Giovanni Crisostomo e parecchi altri) ha avuto meravigliosi esempi, come quelli elencati solo molto parzialmente in parentesi. La lingua latina, diventata koinè per la parte occidentale dell’Impero, mentre quella greca lo era per quella orientale, non appartenevano solo agli intellettuali, agli aristocratici o agli uomini di chiesa, ma erano diffusissime nella versione idiomatica di lingue popolari tra tutte le classi sociali. Roma poi, accolse sapienti da tutto il mondo di quei tempi: medici, matematici, filosofi, astronomi e astrologi provenienti dall’Egitto, dalla Grecia, dalla Mesopotamia, da tutto il Vicino Oriente antico, arabi, ebrei, caldei, siro-palestinesi…, ovvero ne supportò l’attività ove vivevano. Adriano soggiornò a lungo in Grecia e in Egitto, proprio per la sua vicinanza totale a quelle grandi culture.
La stessa disciplina storica, con figure come Cornelio Tacito, Tito Livio, Suetonio, Sallustio, Aulo Gellio lo stesso Giulio Cesare, che fu, non solo il comandante militare insuperato che sappiamo, ma anche politico e storico (certamente delle proprie res gestae, ma con stile)…, conobbe uno sviluppo straordinario, riportandoci con metodo le vicende dei Romani nei lunghi secoli della loro storia, e costituendo ammaestramento fondamentale per gli storici successivi.
Ai tempi di Augusto Roma era la più grande e popolosa città del mondo (aveva oltre un milione di abitanti), per urbanistica e aspetti viari, esempio di strutture razionali e di armonia architettonica. Basti osservare ciò che resta di quegli splendori, a Roma e in tutta Europa, in Africa settentrionale, in Asia. Per le strade costruite da Roma si sono sviluppati commerci formidabili tra i quattro punti cardinali, hanno viaggiato milioni di cittadini e di popolani in cerca di un futuro; hanno marciato le legioni, che per il più delle volte non combattevano, poiché bastava la notizia che si stessero avvicinando per evitare il conflitto. Ma quando combattevano, vincevano.
Abbiamo detto delle strade, ma attraverso le vie di comunicazione si organizzava la logistica e tutti gli aspetti militari, ricordando l’organizzazione dell’esercito legionario manipolare, che si rivelo superiore alla falange tebano-macedone, che sconfisse più volte in guerra (in proposito si ricordino le famose “vittorie di PIrro”!), e dunque fu quasi invincibile per un millennio (Roma fu – di fatto – sconfitta solo da Arminio alla Selva di Teutoburgo, da Annibale nelle battaglie italiane, in alcune guerre di guerriglia in Oriente e ad Adrianopoli alla fine del IV secolo d.C.), con generali superiori del livello di un Publio Cornelio Scipione, di un Caio Mario, di un Lucio Cornelio Silla, di un Caio Giulio Cesare, di un Gneo Pompeo, di un Marco Antonio…, e poi di un Traiano, di un Costantino… senza dimenticare i comandanti romano barbarici come Ezio e Stilicone, e “bizantini” come Belisario e Narsete.
Anche una fiscalità equilibrata contribuì a fare sì che Roma potesse governare tanti popoli per un così lungo tempo, facendo dire alle genti, con un certo (forse, talora, un po’ opportunistico) orgoglio: civis Romanus sum(copyright di Saulo di Tarso, san Paolo).
Infine, ricordiamo la “strada” e lo sviluppo del Cristianesimo, che senza l’ Impero Romano non sarebbe stato possibile... e anche la pax Romana di Augusto (che servirebbe ora, eccome!).
Per non sbagliarmi citerò – virgolettando – l’articoletto pubblicato oggi, 11 Marzo 2023, sul Currierun de Milan.
“(omissis) …prova a riscrivere la toponomastica: il Comune di Bologna ha deciso di uniformare i sottotitoli dei toponimi cittadini dedicati agli uomini e alle donne che fecero la Resistenza lasciando solo i termini “partigiano” o “partigiana” e togliendo tutte le altre denominazioni a partire dal termine “patriota”.
La motivazione ufficiale è che c’era bisogno di uniformità (chissà perché? ndr), ma è chiaro che dietro c’è il tentativo maldestro di eliminare una parola, patriota, che oggi è utilizzata, a volte strumentalizzata, dai militanti di Fratelli d’Italia. E’ lo spirito (idiota, ndr) del tempo: sui social ci sono parlamentari di FdI che postano la foto di Meloni augurando una “buona giornata ai patrioti”, ma la risposta non sta nel cancellare la parola sotto ai nomi di chi ha combattuto il nazifascismo.
Per dirla con lo storico Luca Alessandrini, la parola ha radici profonde nella sinistra risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Nievo…, ndr), e magari sarebbe utile ricordare che la rivista dell’Anpi si chiama Patria indipendente. Ai tempi in cui governava il sindaco Guazzaloca circolava una battuta: “Quando non hai progetti da approvare in giunta, cambia i nomi alle vie, se ne discuterà per mesi“. Non è questo il caso di Lepore, ma per diventare la città più progressista d’Italia, non serve pasticciare con la storia.”
Condivido e sottoscrivo ogni parola e ogni riga dell’articolo qui riportato, aggiungendo solo che, veramente, ogni giorno che viene pare avere la sua sorpresa inadeguata, quand’anche ridicola, e a volte, come in questo caso, storicamente e moralmente offensiva. Chissà se vi sarà qualche buona persona, e intelligente, della sinistra bolognese, che si voglia opporre a questa autentica imbecillità. Dico subito che c’è, io so che c’è!
Lo so, in buona compagnia, non solo del Professor Luca Alessandrini, ma anche del Professor Giovanni Orsina, e di chissà quanti altri saggi cittadini bolognesi di quella sinistra democratica e gradualista di cui Bologna va giustamente fiera, come chi mi ha scritto in tema.
Mi chiedo anche se il saggio compagno Bonaccini abbia condiviso la scelta. Ne dubito fortemente. Forse lo condivide chi lo ha “battuto” alle primarie del PD, ma non ne sono del tutto convinto, perché attribuisco alla neo Segretaria qualche discreta facoltà di riflessione, se non altro perché giovane e senza zavorre mentali di sorta.
Con questa decisione, non so se il Signor Sindaco se ne rende conto, la destra, e Fratelli d’Italia in particolare, si possono fregare le mani, perché a questo punto possono annettersi completamente il concetto, il lemma, il termine, la parola, in definitiva la semantica storica di “Patrioti” italiani, comprendendo anche quelli tipo Mazzini, Garibaldi e Nievo, tentativo già fatto da sor Benito, non a caso sozialista romagnolo, prima del suo fascistismo fascista.
Se il Signor Sindaco sapesse chi mi ha scritto condividendo – in toto – la mia opinione, forse si farebbe qualche domandina.
Guccini cantava “cinque anatre volano a Sud…”, io invece, in una mattinata marzolina ero nella grande piazza della città. Una della più grandi d’Italia, la seconda del Nordest dopo il Prato della Valle di Padova, a Udine: Piazza I Maggio, sovrastata dal leggendario Castello, che è una collina (residuo della morena glaciale di migliaia di anni fa) da cui si tramanda che il re unno Attila ammirò l’incendio di Aquileia. Leggende. Tutt’intorno ampie strade e palazzi, luoghi di convivio e per manifestazioni e passeggio di signore, di uomini e cani.
cinque anatre stanno…
Sullo sfondo stanno il nobile Liceo ginnasio della mia gioventù, la Basilica dedicata alla Madonna delle Grazie, che fece un’antica grazia e poi tante altre, custodita dai Servi di Maria, tra i quali qualche anno fa meditava e insegnava il Padre David da Coderno di Sedegliano. Poeta, predicatore. Così mistico ma a volte scostante, e perfino un po’ antipatico. Furlano, a tre e sessanta, come c’a si dîs.
A un tratto lo starnazzare improvviso di un uccello mi fa girare lo sguardo. Un’anatra selvatica marroncina, una femmina, svolazza per sfuggire all’assalto di tre coloratissimi maschi che, si vede, la “desiderano”. Commento con un passante: “Sono germani reali, i tre maschi sono fatti come noi umani maschi“. Ci si sorride.
Lo starnazzamento continua perché i tre maschi inseguono decisi la femmina che li distanzia con piccoli svolazzi. Lo straordinario accade subito dopo… Prima uno degli “anatri” comincia a staccarsi da gruppo e si ferma, poi un secondo, si ferma. Nel frattempo la femmina, volata avanti per una quarantina di metri, sta ferma. Allora, il terzo maschio, camminando lentamente ma con decisione si avvicina alla femmina, che lo sta aspettando! Raggiuntala, si mettono a camminare l’uno al fianco dell’altra, come un signore e una signora, verso di me che intanto li avevo preceduti.
Alle mie spalle nel frattempo stavano arrivando dei bimbi; si vedeva che erano un paio di classi delle elementari con le rispettive maestre. Mi rivolgo alle due signore dicendo: “Buongiorno maestre, posso spiegare ai bambini che cosa ho appena visto“. Il loro sorriso mi dà la parola. I bimbi mi guardano, mi ascoltano attenti e nel contempo si accorgono dei due volatili che si stanno avvicinando.
Non finisco di spiegare che già i piccoli e le piccole hanno in mano i telefonini e con gridolini di meraviglia si mettono a fotografare i due animali, che paiono mettersi in posa.
Il gruppo si ferma, commenti, parole, qualche starnazzo, ma quasi “gentile”, da parte dei due uccelli che sembrano molto interessati all’incontro. I bimbi osservano con interesse il dimorfismo sessuale tra i due animai e chiedono alle maestre: “Perché il maschio è più bello della femmina?” Infatti il “germano” è multicolore e di un verde cangiante sul collo, mentre la “germana” è (solo) di un marroncino diffuso. Le maestre esitano a rispondere, poi lo fanno con qualche imbarazzo: “Perché i maschi devono interessare le femmine, farsi scegliere, e allora madre natura li ha resi piùappariscenti…, così possono avere più possibilità di trovare una compagna e di far nascere i paperini…” Silenzio. Chissà cosa passava per ognuna di quelle testoline. Forse un paragone con gli esseri umani, forse.
Quando ero bambino come loro, sette/ ottenne, non sapevo bene come nascessero i paperini, e neppure come venissero al mondo i bambini.
Me ne vado pensando che io sono nato e vissuto tra gli animali da cortile, non nel pollaio, ma contiguo al pollaio, e per me vedere galline, anatre, oche, tacchini e conigli, e anche il maiale, era il quotidiano, e per quei bambini no.
…nessuno può avere la precisa nozione della misura della disperazione, da un lato, e della forza della propria speranza, dall’altro, al posto di uno che sale sopra una carretta del mare, consegnando anche otto o novemila euro a chi gli promette di portarlo nella Tierra prometida, da terre di guerra, di miseria e di paura. Per più di mille miglia marine in pieno inverno e con il mare forza cinque, abbracciato ai propri figli piccoli e magari a una moglie incinta.
Cutro di Calabria
Si possono, però, avere idee sull’insieme del problema. Parto da una domanda: è possibile per l’Italia e per l’Europa accogliere una massa umana che fugge da disastri inenarrabili nel numero di svariati milioni di persone? Certamente, allo stato attuale, no. E dunque quale è forse il tema principale di questo aspetto e momento della storia del mondo? Mi pare si possa dire che è il modello di sviluppo e la distribuzione delle risorse, assolutamente iniquo tra le varie parti del mondo.
Le risorse sono a disposizione senza una razionale ed eticamente fondata modalità di attribuzione: dalle risorse energetiche, all’acqua potabile, al cibo, alla casa, ai presidi sanitari, al lavoro e quindi al reddito da lavoro. Molte parti del mondo, vaste zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America meridionale sono ancora strutturate sulla base dei residui storico-politici del primo colonialismo, o pervasi da un nuovo modello di colonialismo.
Francia e Gran Bretagna in primis, cui hanno fatto seguito moltiplicando la presenza e il potere economico-militare, gli USA, tengono ancora retaggi significativi dei loro domini coloniali formalmente passati di mano a governi locali. Un esempio: il FCA, cioè il Franco coloniale ha ancora corso nelle Repubbliche centroafricane, di tradizione francese e francofona. Un esempio nell’esempio: da soli trent’anni l’Alto Volta ha assunto la denominazione autoctona di Burkina Faso. Ancora: il Presidente Mitterrand negli anni ’90 poteva atterrare a Ouagadougou con una scorta militare tale da far rimanere nascosto in casa il legittimo Presidente della Repubblica Sankara.
Occorre dunque organizzarsi per un futuro che è già qui, demograficamente, socialmente, culturalmente, economicamente.
E ora una domanda: che cosa ci fa la Cina in Africa? Sta investendo miliardi di dollari in infrastrutture, fabbriche, porti, aeroporti, strade, aziende produttive, ingraziandosi le popolazioni e i politici locali, in paesi dove crea e finanzia lavoro. Paradossalmente bisognerebbe imitarla, ma a modo nostro, con il nostro modello (imperfettamente) democratico.
Che cosa ha fatto Angela Merkel a partire dagli inizi del suo mandato oltre una ventina di anni fa? Ha integrato in Germania circa quattro milioni di lavoratori turchi e dal 2011, quando è scoppiata la guerra civile in Siria ha aperto la porta ad almeno un milione di Siriani.
Altri dati, quelli demografici: in Italia abbiamo un tasso di fertilità per coppia di 1,2. Vale a dire che nel 2050 gli “italiani” saranno quattro milioni di meno… E noi continuiamo ad avere una legislazione che non consente un rapido inserimento giuridico nella “nazione italiana”, non solo a chi qui lavora da anni, ma nemmeno ai loro figli nati in Italia, che devono attendere il diciottesimo anno di età per “essere e soprattutto sentirsi” Italiani. Sul tema vi sono anche idee diverse, come quelle di chi non ritiene più molto importante sentirsi appartenere a una “nazione”, visto dove-è-ormai-andato-il-mondo negli ultimi decenni, preferendo un sentirsi “cittadino-del-mondo”, cosmopolita, se non apolide.
Di contro, la Francia, che sta facendo politiche attive per la famiglia da almeno trent’anni ha un tasso di fertilità per coppia di 1,85!
Forse allora occorre un progetto di due tipi e con due obiettivi, distinti ma conciliabili: a) una riforma delle normative per il riconoscimento della nazionalità italiana (e/o di altre Nazioni) che la renda possibile in tempi più rapidi, certamente con tutte le opportune garanzie culturali di “accettazione dell’Italia” in tutte le sue sfaccettature costituzionali di cittadinanza democratica e b) un progetto di investimenti colossale nelle nazioni, soprattutto africane, dove anche tradizionalmente, storicamente e anche logisticamente possiamo avere una voce in capitolo.
Il tema è, in generale, la distribuzione delle risorse, a partire da quelle energetiche, nel mondo, secondo principi – ancor di più – di razionalità, piuttosto che solamente di un’equità moralmente fondata.
Circa quanto accade in mare o su terreni aspri ed insidiosi, quali quelli della cosiddetta “rotta balcanica”, occorre rivedere le regole di ingaggio per il soccorso in mare, ma questo è solo uno dei temi e progetti.
Si parla di riforma dell’Accordo di Dublino, di contributo dell’Unione Europea per l’accoglienza. Tutto sacrosanto, ma non sufficiente…
Ciò che mi preoccupa è l’incapacità della sinistra italiana, ora che sta cercando di ristrutturarsi su una linea politica (opportunisticamente) radicale (Conte + Schlein + Landini), non riesca a contare veramente, proprio perché si sta spostando sempre più su posizioni che il-più-del-Paese non sceglie, basti osservare i risultati delle ultime elezioni, con questi tre racconti: a) di un fascismo redivivo, cosa assurda, su cui però occorre un comportamento diverso da quello del ministro Valditara e più consono, analogamente a quello tenuto dalla preside del Liceo classico Michelangiolo di Firenze, b) di una legislazione sociale che sarebbe liberticida e ingiusta (Jobs act), cosa non vera; c) di una prevalenza dell’attenzione ai diritti civili (lgbtq+) e scarsa attenzione a quelli sociali (Statuto dei Lavori).
Con la “linea di Firenze”, per modo di dire, non c’è molta speranza di costruire linee politiche che dialetticamente riescano a competere con una destra vincente, e ciò si riverserà anche sul tema macro delle migrazioni e sulle misure di grande politica sovranazionale necessarie, che sono da assumere con convinzione.
La beatificazione in vita della giovane donna (ricordo ai miei cari lettori che la Chiesa, prima di procedere a una beatificazione istruisce un lungo e complicato procedimento per esaminare la biografia del “candidato” alla beatitudine pubblica, e poi agli onori degli altari, la santificazione, che inizia ben dopo la morte dello stesso/a, nonché testimonianze plurime di persone che lo/a abbiano conosciuto/a bene, e infine un avvenimento che si possa definire plausibilmente “miracoloso”, in capo al/la beatificando/a) è già in corso (si vede che l’attuale mondo PD si ritiene più competente – sul tema – della bimillenaria Santa Madre Chiesa), ma…
vedere dalle parti della segretaria neoeletta vecchi arnesi immarcescibili come Franceschini, di quarantennale anzianità parlamentare, ministro più volte, suo predecessore come segretario nazionale (tra i dieci succedutisi dell’ultimo quindicennio), o il greve Bettini de rroma, già illustra in qualche modo alcuni aspetti della “grande novità” schleiniana.
Hovvìa! (per dirla alla fiorentina), siamo al nuovo!
…peccato che non ci sia più Walter nei dintorni
Se ho capito bene, sintetizzando le sue priorità paiono già essere le seguenti: a) attenzione primaria al mondo Lgbtq+ dove i temi generali delle famiglie comunque declinate, anche “arcobaleno”, non sono focalizzati se non genericamente, e prevalentemente orientate verso i contenuti del Disegno di Legge Zan (grazieadio mai approvato), che, così come è potrebbe prefigurare la figura di un reato d’opinione perfino nell’ambito di questo mio testo; b) ambiente e clima, ma non si capisce in che senso, modo e utilizzo delle risorse; c) diritti senza doveri (questi ultimi mai da lei citati, ma è un costume a sinistra, ormai da anni, da dopo che finirono i tempi dei grandi compagni Enrico Berlinguer e Pietro Nenni e, se si vuole, anche Claudio Martelli); d) conflitto russo-ucraino su cui dovrà esprimersi, ora che è esposta al giudizio interno ed esterno dei suoi e degli altri… etc.
Ho già scritto qualche settimana fa che questa giovine signora avrà visto e interloquito in tutta la sua vita con meno lavoratori e imprenditori di quanti ne incontri io in un giorno solo. Ed è tutto dire, quando la si sente già pontificare su qualcosa che non conosce, se non pochissimo, per ragioni anagrafiche e biografiche, se si sa qualcosa di lei.
E c’è da sperare che non sposi del tutto anche la cancel culture e il politically correct…
Parto con la mia riflessione critica e filosofico politica dai processi di formazione dell’attuale “personale politico” dei partiti in vista di un’entrata nelle istituzioni elettive. Ricordo ab initio, per i lettori più giovani, come si selezionava chi era interessato alla politica fino a un paio di decenni fa o poco più: chi voleva fare politica si avvicinava a una sezione di partito di paese o di quartiere cittadino; dopo avere partecipato ad alcune prime riunioni, si dava disponibile a volantinare, attaccare manifesti, partecipare ad assemblee e comizi; successivamente poteva venire proposto come candidato/a alle elezioni dei comitati di circoscrizione (nelle città), e successivamente alle elezioni di un consiglio comunale. Se poi l’aspirante ad una attività politica manifestava qualità, poteva venire nominato/ assessore fino ad essere anche eletto sindaco. Oppure. seguendo un altro percorso, ma anche proseguendo nel primo, poteva essere candidato ai consigli provinciali, regionali e perfino in Parlamento (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica).
La prosecuzione della carriera poteva arrivare in seguito anche a un Sottosegretariato o a un Ministero, e infine alla Presidenza del Consiglio e/o della Repubblica, oppure, dalla nascita dell’Unione europea, a deputato del Parlamento di Strasburgo o componente degli Organismi di Bruxelles.
Ora, quale è stato il percorso di questa signora? D’accordo che i tempi, i mezzi e i modi sono profondamente cambiati dai decenni che partono dal Dopoguerra fino al Duemila, che la società è cambiata nella sua costituzione di classe in stratificazioni sociologiche assolutamente nuove. Non lo conosco bene, salvo alcune notizie trapelate sui media dopo l’esplosiva acquisizione di popolarità della “nostra”. Per me, che seguo la politica da prima che lei nascesse, è un mistero: la ho vista spuntare dal nulla come un fungo nell’umidità del bosco.
Prima di dire la mia propongo due posizioni antitetiche che ho registrato da parte di due amici filosofi. Il primo sostiene ironicamente che c’è addirittura da dubitare sulla sincerità di un eventuale suo giuramento di fedeltà alla Repubblica patria, nel caso in cui si trovasse a farlo dinnanzi al Presidente della Repubblica, ricevendo magari un incarico di Governo. Il secondo collega filosofo, proclamandosi apolide o perlomeno cosmopolita, non è interessato alla fedeltà alla Patria Italia, per cui non ritiene che sia indispensabile lo sia anche la suddetta. Questo secondo collega è addirittura sarcastico, nei toni. Il primo ironico, il secondo sarcastico, due modi certamente in qualche modo e misura filosofici di ragionare.
Io provo a stare sul pezzo in modo diverso: osservo lemanovre susseguenti al congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione; presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e di sociologia politica da Lucia Annunziata [riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista], mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci a Berlinguer, e recuperando perfino [!!!] il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in “esilio”, termine giuridicamente improprio, ma evocativo di uno stato della situazione colmo di un grande malessere etico e politico. La tristezza continua a sinistra.
Poi ci sono i “vecchi” saggi, brave persone alla
Cuperlo, che credono ancora al metodo correntizio, magari non à la
Franceschini, che è una vecchia lenza democristiana, senza accorgersi che il
possibile-mondo-di-una-“sinistra-possibile” [l’aggettivo non ha nulla
a che vedere con il movimentino del simpatico Civati di Milàn] va da tutt’altra
parte.
A guardare lo spettacolo, anche dopo il Congresso, vien da pensare immediatamente che pare il set di una commedia tragicomica tendente al grottesco. Su un lato ci sono coloro che non si limitano a criticare Renzi & Calenda, mentre dall’altra ci sono quelli, come la Segretaria appena eletta, che starebbero con Conte notte e giorno. Povero “Partito storico della sinistra”! Questi si chiamano Speranza, Provenzano, Bettini, ma anche Bersani che ha rinunziato alle fatiche improbe della prima fila. Dal loro punto di vista non si sono accorti che stanno correndo dietro a uno che è ontologicamente un “notabile democristiano fuori tempo massimo”. e di più non dico su un personaggio sul quale mi sono già esercitato troppo, e non a suo vantaggio.
Non è che i primi debbano accodarsi a Renzi & C., ma mi
pare evidente che l’unica strada percorribile per una “sinistra
possibile” sia quella capace di dialogare con la contemporaneità dei nuovi
mezzi di comunicazione, con i “valori” delle ultime generazioni, che
non hanno dimenticato la solidarietà e i sacri principi di eguaglianza
evangelico-socialista, ma vogliono declinarla secondo il principio di equità,
che è l’epicheia
aristotelica.
Il principio di uguaglianza è da collocare solamente nel
giudizio antropologico della struttura di persona, nella pari dignità di ogni
essere umano, ma non nella struttura di personalità, che dice irriducibile
differenza, unicità mia, tua, sua, caro lettore! Una sinistra che non si accorge che oggi i
giovani desiderano rappresentarsi nella vita in modo diverso da come lo
volevano i giovani anche solo di mezzo secolo fa, non può accostarli, e nemmeno
portarli a condividere una lotta politica.
E questo lo spiegano la sociologia e l’antropologia
culturale: oggi, il valore più importante percepito è la possibilità di essere
sé stessi, non di essere uguali a tutti gli altri! Una sinistra
capace di dialogare con il tempo attuale deve cominciare a capire cheil valore
principale non è l’uguaglianza, ma l’equità nella libertà.
Ancora Aristotele e Tommaso d’Aquino. I signori sopra citati non studiano più [se
mai hanno studiato]. Studino con umiltà la filosofia morale classica, dallo
Stagirita fino a Kant, per saper declinare anche il principio del dover-essere-come-lo-richiede-la-realtà-fattuale-attuale,
che non è quella di Marx, di Lenin e di Gramsci, ma neanche quella di
Berlinguer e di Gorbacev.
Se una “sinistra possibile” vuole vincere di nuovo
differenziandosi dalle destre al potere, soprattutto da quella salviniana, deve
saper declinare valori ritenuti “di destra”, come il successo
individuale e il non-collettivismo, con il rispetto dell’individuo-persona che
non è ascrivibile a nessun operaio-massa modernamente declinato.
Non sto proponendo un relativismo etico all’americana, né un liberismo economico senza leggi regolatrici, che ritengo indispensabili, soprattutto a livello sovra-statuale [una UE vera!], ma uno sforzo di comprensione dei nuovi linguaggi che rappresentano un mondo nuovo, preoccupante per molti aspetti [clima, guerre, pandemie…], ma pieno di potenzialità straordinarie.
Una “sinistra possibile” non teme di concordare con
la cultura politica di destra sul tema delle migrazioni, e si misura non sul
ruolo delle ONG o su porti aperti o chiusi, ma sullo sviluppo del Sud del
mondo, rischiando anche topiche ed errori. Un esempio, se il da me [e non dal
PD, ahi ahi] rimpianto ministro Minniti [di sinistra!] ha fatto accordi con i
Libici di dubbia efficacia e con esiti morali anche negativi, lo spirito della
sua iniziativa di “lavorare in Africa” era giusto, corretto,
eticamente fondato e politicamente lungimirante.
Una “sinistra possibile” non tema di misurarsi su
un tema controverso come il “reddito di cittadinanza” di matrice
grillina, e accetti di selezionarne rigorosamente i beneficiari, smettendo di
ululare, una
cum travaglieschi borborigmi giornalistici, all’attacco ai
poveri!
Il tema delle “stesse opportunità”
di partenza, tipicamente “di sinistra”, se declinato in modo
assoluto, è realisticamente assurdo. Bisogna invece creare le condizioni per un’istruzione
accessibile ai massimi livelli per tutti… quelli che vogliono istruirsi. Per
illustrare questo principio devo di nuovo ricorrere alla mia biografia
personale e a un esempio esterno.
Quando la mia umile famiglia condivise con me che sarei
andato al liceo classico [incredibile dictu per chi aveva solo la licenza elementare,
come i miei genitori!], vi andai con profitto. Altri miei coetanei non ci
andarono, a volte anche potendo economicamente farlo con facilità. In questo
caso come si considerano le pari opportunità di partenza? Io, partendo da più
indietro, sono andato più avanti. Che legge ho violato? Quella delle pari
opportunità? Al contrario, io ne avevo di meno. E allora? La verità è che è
antropologicamente insopprimibile l’irriducibile differenza della struttura di
personalità singola.
Il mio bisogno, come quello degli altri coetanei, era quello
di studiare; il mio merito è stato quello di aver studiato [e di continuare a
farlo], mentre altri, pur potendolo fare, non lo hanno fatto. E’ di destra che
io abbia raggiunto il livello accademico di due dottorati di ricerca? E’ di
destra il merito acquisito con la mia fatica, con il coraggio dei miei e con
l’aver io avuto molta forza fisica e psichica e salute?
No, non è né di destra né di sinistra, cari Schlein, etc.,
mentre i vostri detti e fatti sembra che vogliano farlo apparire tale, come
quando avete polemizzato con la nuova dizione del Ministero dell’Istruzione e
del Merito neo istituito, perché la parola Merito, che significa differenza antropologico-filosofica,
vi fa paura, perché la ritenete di destra. Suvvia! Studiate, studiate.
Merito e bisogno vanno declinati assieme, come tentava di
fare, inascoltato, il Ministro della Giustizia del governo Craxi, Claudio
Martelli, a metà degli anni ’80.
Un altro esempio è quello di un grande imprenditore, della
mia stessa classe sociale: egli partì per la Germania mezzo secolo fa, o poco
più, come garzone gelataio, e oggi ha tremila e cinquecento dipendenti con un
fatturato di oltre cinquecento milioni di euro, che lo hanno fatto diventare un
gran signore, ma con il lavoro retribuito di migliaia di persone, lavoro che ha
creato lui con i suoi valorosi collaboratori, dal più giovane dipendente
all’amministratore delegato.
Cara Sinistra, caro PD e cara Segretaria, ce la fai a discutere in questo modo di come “essere sinistra” oggi senza aver paura di condividere valori che non sono storicamente nati nel tuo grembo, per poi declinarli con i tuoi? E magari anche il valore semantico, politico e morale della parola “Patria”, termine da te negletto, perché pensi che sia ancora fascista. Dai!
Se sì, se riesci a discuterne e a considerare in questo modo l’essere-di-sinistra-oggi hai speranze, altrimenti, lascerai il TUO campo di lavoro politico e sociale ai furbi populisti che si spacciano per sinistra e a quelli che saranno sempre voces sine fine clamantes, toto populo inutiles.
(Ripropongo qui un pezzo che scrissi a fine settembre 2022 dopo la sconfitta elettorale del PD)
“Fèstina lente” ovvero “adelante, Pedro, pero con juicio…”, il latino e lo spagnolo in aiuto alla grande incertezza
…del maggiore partito della sinistra italiana dopo la
sconfitta elettorale.
Mi ero ripromesso, dopo il titolo-articolo pubblicato lunedì
26 settembre 2022 post
crash in ogni senso della politica italiana, di tornare sul tema.
Approfitto del fatto di avere ascoltato per due o tre ore in
viaggio in auto gli interventi nella direzione nazionale del Partito
Democratico, dove si è consumato un autò da fè impressionante del gruppo dirigente, un atto di
auto accusa impregnato di un po’ di contrizione e di molta attrizione. Uso questi due termini teologico-morali, contrizione e
attrizione per
tenermi nel mood della
riunione che, iniziata con la relazione del segretario Letta, capace di citare
per due volte dei passaggi evangelici, è poi proseguita con altre citazioni di
altri oratori, abbastanza a sproposito, sia delle Sacre scritture sia di
espressioni in lingua greca e in lingua latina.
Per il PD tutto, una riflessione informativa: contrizione significa
dolore e
pentimento per il male compiuto come offesa a Dio stesso; attrizione è
come dire dolore [anche se non tanto] e pentimento per il male compiuto, e non
per avere offeso Dio, ma per paura della pena eterna dell’inferno. Una
differenza radicale, tanto grande da far concepire teologicamente la contrizione come
sufficiente per accedere al purgatorio, anche a fronte di peccati gravi e senza
la confessione formale dei peccati, e l’attrizione come atteggiamento sufficiente per il perdono
divino, ma solo dopo una confessione formale. Detto altrimenti, il peccatore contrito
è atteso comunque dal purgatorio, il peccatore attrito può rischiare l’inferno.
Questo vale per la casistica canonico-penalistica classica.
Che cosa c’entra con la direzione del PD? Vedremo più avanti: qui mi limito a
dire che tutti/ tutte erano almeno “attriti/ e” per il male commesso
di avere sbagliato, non solo la campagna elettorale, ma le politiche degli
ultimi dieci o dodici anni, troppo confusamente “governativistiche” e
poco attente ai bisogni del popolo, cui sono stati più attenti i populisti di destra e
di sinistra. “Di sinistra” per modo di dire, visto che si tratta dei
grillini.
C’è chi ha tirato fuori di nuovo le “agorà
[!!!] democratiche“,
nonostante, se si vuole usare correttamente il greco, si debba scrivere “agorài“,
perché l’espressione è plurale. Mi sono affaticato a scriverglielo due o tre
volte a “contatti PD nazionale”, ma si vede che, o non leggono,
oppure la cosa non gli sembra importante. Possibile che non vi sia nessuno in
quei luoghi che abbia fatto uno straccio di liceo classico? Una volta da quelle
parti c’era il professor Alessandro Natta, oggi ci sono invece le Serracchiani et similia.
Altra perla odierna, peraltro pronunziata da una delle migliori intervenute, la Ascani. A un certo punto ha esclamato una cosa del genere: “…dobbiamo essere saggi, come suggerisce il detto latino festìna lente, con l’accento sulla “i”, mentre si deve scrivere e dire fèstina lente, con l’accento sulla “e”.
Anche qui, è importante questa cosa? poco, molto?… dico,
rispetto al quasi deserto propositivo della riunione, su cui arrivo subito. Se
si vuole essere seri,
e seeri
non à la Calenda,
ma à la Marco Aurelio,
sarebbe bene rispettare anche le nostre madrilingua, e non usarle a sproposito.
Di più: Pollastrini, una “storica” dell’antico Pci,
a un certo punto ha detto con enfasi che “ci vuole uno spirito santo” [al
minuscolo perché noi laici… alla faccia dei cattolici del PD, che però
probabilmente poco conoscono dello Spirito Santo come terza Persona della SS.
Trinità, Dio Unitrino]. Figurarsi la Pollastrini. Dimenticavo, lei intendeva lo
“spirito santo” [rigorosamente minuscolo!] come “partecipazione
popolare”.
Su questo potremmo anche disquisire e fors’anche [pur se solo
in parte] convenire, perché, teologicamente, lo Spirito Santo “soffia dove vuole”
e pertanto può senz’altro “soffiare” sulla partecipazione popolare,
visto che la
Chiesa è il Popolo di Dio [cf. Lumen Gentium I, Roma 1965].
Naturalmente provvederò a inviare alla direzione del PD una
copia di questo pezzo e i riferimenti bibliografici per una, se non necessaria,
opportuna acculturazione specifica, se si vuole persistere nelle citazioni
filosofiche e scritturistiche.
Vengo al dunque. Innanzitutto l’analisi del voto. Solo Letta
prova a farla con una sufficiente dovizia di supporti logici e di
argomentazioni, oltre al cavalleresco tirarsi indietro come segretario, virtù presente in
pochissimi altri di quel consesso. Certo, gli spettava, ma almeno mostra una
onestà intellettuale di cui gli altri / le altre sono nella maggioranza (degli
interventi che ascolto) privi/ e. Non uso lo schwa, IMBECILLI! [qui mi rivolgo ai tifosi/ e di questa
idiozia].
Si sbaglia Letta, a parer mio, però, quando prova a
ri-sostenere che la colpa del fallimento del “campo largo”, che
doveva comprendere tutti, da Renzi & Calenda a Fratoianni, e forse a
Ferrando e Marco Rizzo, e soprattutto i 5 Stelle, è da attribuire al furbo capo
di questi ultimi. No, caro Letta: è sbagliato il concetto e il progetto. Non puoi
far ragionevolmente convivere Renzi & Calenda con Fratoianni [e mi fermo
qui], se quest’ultimo ha sempre votato contro il Governo Draghi. Ma come fai
solo a pensarlo? Già Prodi sbagliò clamorosamente quando onorò di credibilità
il Bertinotti che lo pugnalò “senza se e senza ma” [ridicolo sintagma
che il perito chimico di Torino si attribuì orgogliosamente, così come con
altrettale sentimento si gloriò talvolta di non avere mai firmato un accordo]. Repetita quoque
non juvant [se proprio si vuole ostinatamente usare il latino].
O il PD è capace [non lo è stato finora], sperando che lo sia
in futuro, di proporre una politica riformistica complessiva dove possano
armonizzarsi diritti
& doveri sociali [dimenticati dal PD da oltre un decennio] e civili [privilegiati
dal PD da altrettanto tempo, peraltro senza successo, scimmiottando una sorta
di partito radicale di massa], oppure non avrà futuro, perché sarà sostituito
del tutto, “a destra” dal duo liberal-riformista R & C, e “a
sinistra” da quel dandy-falsodemocristiano di Conte e codazzo cantante. Senza
che con questa citazione di destra e sinistra sia un modo per con-fonderle. Ma
oggi non bastano questi due poli: piuttosto si esige di distinguere tra culture
politiche populiste che sono sempre più rossobrune e culture politiche dell’intelligenza, della
competenza e della ragionevolezza.
Non ho ascoltato chiarezza sul piano programmatico, mentre
già il Partito deve fare i conti con le fughe in avanti di chi si auto-candida
alla segreteria come De Micheli o Schlein [pure!]. All’improvviso, come la canzone di
Mina. La “gente” [chissà se De Micheli si ritiene “gente” o
benaltro dalla
gente] non ha il senso delle proporzioni, a volte.
Quale il tema? Come si può sintetizzare un riformismo
realistico e capace di leggere i “segni dei tempi”. Eppure non è
difficilissimo. Equità sotto il profilo fiscale, NON aumentando tasse in alto,
ma equilibrando le aliquote alle categorie produttive, diciamo fino a 150.000/
200.000 di reddito annuo, che è lo stipendio di un dirigente industriale bravo
e responsabile, che deve essere alleato del riformismo. Si tratta della
borghesia intelligente e produttiva che anche Marx apprezzava moltissimo, ma
sembra che i suoi mezzi nipotini non la capiscano. Mi spiego meglio: non sto
parlando dei vacanzieri di Capalbio, che sono bene rappresentati anche nel PD,
ma di chi opera nell’economia reale, non nel terzo settore privilegiato degli influencer e
del giornalismo televisivo, che è uno dei settori più deleteri di questi ultimi
anni.
Circa il Reddito di cittadinanza, invece di seguire a papera i 5S [cf.
esperimento di etologia di Konrad Lorenz], recuperare il Reddito di
inclusione selezionando le posizioni dei percettori e obbligandoli
a considerare seriamente le offerte di lavoro. Politiche attive del lavoro
fatte da chi le sa fare, cioè le società di somministrazione, non dai
fantasiosi navigator,
opera del Dimaio vincitore
delle povertà e tritato dalla sua stessa ambizione, senza senso
della misura. La sorte lo ha collocato finalmente dove meritava di stare da
tempo, l’oblio.
Il PD dovrebbe saper parlare di diritti civili senza
allinearsi al mainstream
[dico e scrivo ancora una volta, ahi ahi Letta!] della scuola
materna obbligatoria dai tre anni di età, del D.D. L. Zan, che, così come è
congegnato, prevede il reato di opinione. Io, socialista autentico e antico, ho
scritto cinquanta volte che la maternità surrogata [evitando l’espressione
atroce di “utero in affitto”] è un abominio morale e socio-culturale,
così come quasi lo è l’adozione da parte di coppie omosessuali, per ragioni
educazionali e socio-culturali. Per queste affermazioni, in base allo “Zan”
potrei essere denunziato da qualche anima bella, inquisito da qualche giudice
ecumenico e condannato. Ma siamo impazziti?
Sono esempi di come il PD si è perso, non è stato più né
socialista né cattolico democratico. Posso continuare.
Sulla pace e la guerra. Senza fumisterie incomprensibili, il
PD dica tutto insieme che l’Ucraina, aggredita, deve essere sostenuta fino al
raggiungimento di una situazione che la metta in sicurezza, evitando qui di
parlare di Crimea e/o Donbass sì, Crimea e/o Donbass no, ma chiarendo che la pace la pace la
pace su cui ululano Conte e altri non si ottiene se non da una
onorevole posizione di autodifesa. Non vada in piazza il PD su una
“piattaforma” grillina” o vagamente pacista. Potrebbero
svegliarsi i partigiani
della pace in sonno da cinquant’anni, perfettamente
“sovietici”, a volte ingenuamente nascosti anche in mezzo ai
cattolici.
Il PD smascheri chi si attribuisce ogni merito di qualsiasi
cosa, come ancora si azzardano a fare i 5 STELLE CHE HANNO PERSO – RISPETTO AL 2018 – CINQUE MILIONI DI VOTI,
e parlano come se il 25 settembre avessero vinto, su questo aiutati da
giornalisti e giornaliste almeno superficiali [tipo la Manuela Moreno di Rai 2
Post].
Non si vergogni [c’è qualche d’uno che comincia a
vergognarsi, come fa Salvini, quasi, nel PD] di avere sostenuto il governo
Draghi, che ha mostrato il volto buono e forte dell’Italia. Agenda
o non agenda
Draghi, l’Italia, con quest’uomo è stata più credibile e creduta nel mondo.
Sulla lotta alla pandemia, sul tema della guerra e su quello energetico, anche
Meloni, intelligentemente, e fregandosene di Salvini e dei suoi seguaci un po’
vigliacchetti [pensavo che Giorgetti avesse più attributi, mi sbagliavo], si
sta collegando alle politiche del governo Draghi, con cui non vuole creare una
cesura pericolosa, ma vuole proseguirne le parti più efficaci, per l’Italia.
C’è una grossa e profonda riflessione da fare sulla
democrazia, sui meccanismi della rappresentanza in una società ipermediatizzata,
su ciò che sia reazione
e su ciò che sia conservatorismo… perché anche io sono progressista
socialmente e nel contempo conservatore del bello italiano e della cultura. Reazione e conservatorismo non sono la stessa
cosa, cari del PD! Troppi di voi fanno confusione, o per ideologia o per carenze
culturali, di grazia!
Per la verità non ho ascoltato solo le cose più ovvie dai
politici più politicanti
[maschi o femmine che fossero], perché diversi interventi si sono
distinti per lucidità e passione, ma, guarda caso, non tanto quelli dei
“potentati” [e anche qui vi sono delle distinzioni da fare, ad
esempio un Misiani non dice mai banalità], ma piuttosto gli interventi delle
persone più “di confine”, come la calabrese Bossio o la
italo-iraniana, di cui non ricordo il nome, che ha spiegato come il cambiamento
stia avvenendo nella sua grande Nazione, non solo per la presa di posizione
delle donne, ma ancora di più perché assieme con le figlie stanno scendendo in
piazza i padri, con le sorelle i fratelli, con le mogli i mariti.
Analogamente, un partito che non tenga le donne nel loro
giusto merito, non può cambiare, soprattutto se le donne non imparano a
solidarizzare tra loro e se i maschi non la smettono con le “quote
rosa”, WWF della distinzione di genere.
Infine, invece di continuare a demonizzare “la peggiore
destra d’Europa” [lo ho sentito affermare anche oggi], il PD vada a vedere
perché Fratelli d’Italia, con un gruppo dirigente piuttosto mediocre, a parte
la leader,
Crosetto e qualche altro, ha preso il 26% dei voti dati? Un 26% di imbecilli?
Mi pare di no.
Io non la ho votata, ma non ho neanche votato PD, io che dovrei trovarmi lì di casa… Qualcuno se lo vuol chiedere? Gli interessa?
MI AUGURO CHE QUALCUNO CHE STA DA QUELLE PARTI ABBIA LA PAZIENZA (E ANCHE L’UMILTA’) DI LEGGERE QUESTO SAGGIO.
Non farò nomi da allocare in ciascuna delle categorie “antropologiche” del titolo. Mi limiterò a descriverli, e ad attribuirli a ciascuna delle categorie stesse, lasciando al lettore il compito (se vuole) di “indovinare” di chi si tratta.
Ubique praesentes viventesque
I panegirici televisivi e giornalistici per la dipartita dell’uomo che (si dice) ha (abbia?) inventato i talk show , o addirittura la televisione di intrattenimento italiana, mi nauseano. Ora è-tutto-un-dire “che bravo“, “che innovatore“, “il linguaggio televisivo con lui è cambiato“, e via lodando sperticatamente. Non una critica, mai un dubbio. Pare si faccia sempre così con i morti. E’ un vizio italiano, e forse non solo italiano. Temporis personarumque actorum laudatores.
Spero che non sarà altrettanto per me, quando verrà il mio tempo, con tutti i difetti che ho! Se faccio mente locale sul soggetto in questione, vedo un ometto ingrassato, in ultimo spesso farfugliante, ben capace di rivolgere domande assai banali – a mio giudizio – al suo interlocutore; di lui ricordo anche insinuazioni e motteggi vari, e un sorriso talora subdolo o corrivo. Lo tratto in questa sede come penso si meriti, anche per l’indecoroso processo di squallida beatificazione, e blasfema (ipallage retorica) che si vede in tv. Dimenticavo: un uomo sempre uso ad un linguaggio romanesco capace di semplificar banalizzando perfino il dramma. E a toni scanzonati e acri. Il “tutto” oggi così ammirato dal sentir comune pubblicizzato da media. Appunto, dai media: sembra che l’opinion (non è inglese, ma un troncamento) prevalente sia quella descritta, perché la mia opinione, ad esempio, così come qui rappresentata, non ha spazio. Anzi sì, perché anche il mio blog è un medium! (pronunzia medium), peraltro visto da qualche migliaio di persone al mese. Un sopravvalutato… il “nostro”, a mio avviso.
Un altro, che si vanta di essere allievo del sopra citato. Guitto siculo che pensa di far ridere con il nulla, perché sale e teatri colmi di persone lo attestano. E’ l’audience, la prepotente audience. Onnipresente, capace di battute che paiono esilaranti, ma a me fanno solo pena. Sarà perché io ho uno scarsissimo sense of humor, essendo difficile smuovere in me l’ilarità con motti di spirito, o perché le sue battute sono trite, ritrite e inefficaci? Che sia io insensibile o lui banalotto?Ubi ilaritatis praesentia vere stat? Aggiungo: costui invecchia tagliandosi i capelli e mollando i baffi. Emerso dai villaggi turistici dove potrebbe utilmente tornare. Colà non mi incontrerebbe mai. Inutile… sempre a mio parere.
La moglie del primo citato, dalla voce infelice, raduna palestrati giovinotti e inclite giovinette per false riflessioni televisive sull’esistenza e sui valori, ma da intendere come virtù, accezione che lì non è chiara, anche se certamente non come li intendevano i “bravi ragazzi” della banda della Magliana. Perché anche i criminali hanno i loro “valori”: li chiamano in questo modo. Ma non basta non assomigliare a quei criminali, perdio! Pedagogicamente, secondo me, pericolosa.
Eccone un’altra: intrattenitrice, comica, ex insegnante di lingua italiana. Non sono un bieco moralista che si scandolizza (“o” in luogo di “a” aulico) per una parolaccia. Però, est modus in rebus, e questa donna mi sembra ecceda un po’ nel dirle, le parolacce, in orari di visibilità infantile. Non capisco se il suo agire sia tale per vendere qualche cosa… Militante volgare. Inadeguata, parmi.
Furbetti e muςiςins (pron. – imprecisamente, perché non conosco i segni fonetici – muchichins, subdolo, in friulano della Bassa) un uomo di tv e uno che dell’essere contro-la-mafia ha fatto un mestiere ottimamente retribuito. Furbetti, sine ullo dubio, opinione mea.
C’è un Ministro della Repubblica che, a fronte di un’aggressione a giovani studenti davanti a un liceo fiorentino da parte di un gruppo di picchiatori neofascisti, e di una lettera di riflessione filosofica e pedagogica sul grave fatto rivolta agli studenti scritta dalla preside di quella scuola, si premura di bacchettare quest’ultima, mentre non spende una parola o un rigo per segnalare il fatto dell’aggressione, in sé gravissimo, che deve certamente provocare sdegno, indignazione e pensiero critico per il sostrato cultural-politico preoccupante dell’aggressione. Inadeguato, a mio avviso. Meritevole di sostituzione, sia lui o meno d’accordo.
Arrogante: un conduttore televisivo che, quando parla, gli si arriccia la faccia in un ghigno terrificante. Invecchiato male, molto male. Questi ha lavorato, sia per la Rai, sia per Mediaset, sempre ottimamente retribuito, come usa in quei mestieri quando fai audience, non importa se informi o dis-informi. L’arroganza di questo signore ha anche caratteristiche – per me evidenti – di immoralità.
Irritanti: sono, nel mio immaginario, almeno due (tra molti altri): il primo è un giornalista padre padrone del suo quotidiano. Questo signore, spesso autore assai ineducato e perfin violento nel linguaggio, è irritante ancor di più per i toni irridenti e falsamente tranquilli. Per valutarlo non si devono dimenticare, oltre a giudizi largamente condizionati da pre-giudizi (che sono giudizi incompleti e non correttamente documentati, nonostante la boria dei toni e le continue assicurazioni sulla validità delle fonti), anche la sua ondivaghezza sempre rafforzata da una assertività proterva che può ingannare il lettore meno attento. Facile intravederne il nome e cognome. Sta a sinistra, ma con cattiveria (mia convinzione dove l’avversativa “ma” potrebbe anche essere omessa). Il secondo idealtipo rappresentante della trista categoria, sempre giornalista è, ma non responsabile di una linea politico-mediatica. Le sue “colpe” sono di carattere meramente “tecnico”, nel senso che, essendo un “lettore di telegiornali”, si espone ogni giorno per almeno mezz’ora al giudizio di chi ascolta la sua pronunzia affannata e affannosa, un respirar sbagliato, e un continuo errare (nel senso di sbagliare, non di girovagare) nell’accentazione dei termini, del tipo “àmministratore” in luogo di “amministratòre”, oppure “vìcepresidente” invece di “vicepresidènte” e via elencando: almeno un fastidioso errore ogni tre o quattro parole. Noto questo fenomeno ed est mihi non sopportabile. Irritanti, ripeto, per me.
Fasulla mèntore del politically correct è una scrittrice, come suolsi dire, engagé. Dovrebbe bastare per considerarla militante (a volte il/ la “militante” assomiglia a un/ a militonto/ a) di una corrente di pensiero quantomeno dannosa, in buona compagnia di una ex funzionaria dell’Onu, assurta poi ad altri compiti istituzionali e ora parlamentare. Dannose, a mio tranquillo avviso.
Tra i noiosi annovero due “campioni”: uno è un politico “nato” tre o quattro anni fa, con la sfiga di un timbro vocale fastidioso e comportamenti da fuoriclasse dei voltagabbana, mentre l’altro fa un mestiere diverso, l’allenatore di calcio in serie A, da un paio d’anni di una squadra gloriosissima e a me non antipatica. Siccome del primo ho scritto e riscritto in questi anni talmente tanto da annoiarmi anche al solo ricordarlo, mi soffermo un momento sul secondo tipo, raccontandola così: “Stamane sono in viaggio in auto e ascolto Radio Sportiva, che lo intervista. Prima che inizi a parlare prevedo, conoscendo i tratti e il dizionario lessicale del suo modo di esprimersi che, entro le prime cinque parole che pronunzierà, dirà un fatidico aggettivo con copula, costituente il predicato nominale: “E’ normale“… e lui inizia addirittura proprio con il sintagma “E’ normale“, prima e seconda parola, e poi, dopo una decina di termini detti, lo ripete. Chiudo la radio.”
Tre milioni e mezzo di stipendio annuo (nessuna gelosia da parte mia, in rima), come, più o meno, l’Amministratore delegato di Stellantis (Fiat). Proprio noiosii due, a mio avviso (ed è dir poco).
Come posso, infine, dimenticare almeno due conduttrici televisive, una gratificata in modo decisivo dalla sua filogenesi, l’altra “campione” di spocchiosa arroganza, nei tratti e nella postura. Se sopporto (senza supportare) la prima, non digerisco in alcun modo la seconda. E, proprio da ultimo, una o due campionesse delle vacanze a Capalbio, “quella che nella cuccia del cane si trovarono ventimila euro”, e quella che dirige giornali e scrive, ma soprattutto l’importante è apparire. Si fa sempre più difficile indovinarne i profili. O no?
Dispiace constatare che diversi di questi idealtipi weberiani stiano da una parte politica che mi sta a cuore. Fors’etiam è per queste ragioni che, da tempo oramai, questa parte politica… perde.
Il rischio che pavento, infine, per me e per tutt’Italia, è che a questo elenco io debba ben presto aggiungere un’altra persona appena ieri assurta a un ruolo politico rilevante, che ha appena annunziato con solenne puntiglio “Saremo un bel problema per il governo Meloni“. Bene, faccia opposizione, ma non contro l’Italia.
Così come da mio intendimento osservato in questo scritto, ne taccio il nome, Patriae caritate.
Il feedback, cioè la retroazione, o la risposta a una sollecitazione verbale/ fattuale, è un elemento centrale delle nuove scienze organizzative e gestionali, anche se come tale è conosciuto fin dai tempi antichi, ad esempio, nelle scienze e nelle prassi politico-militari greco-romane, ma anche egizie, hittite, assiro-babilonesi, persiane, etc..
Sinossi con feedback e feedforward
Chissà perché nessuno, o quasi nessuno (fanno eccezione i fisici teorici, cioè quelli interessati ai quanta/ qualia e alla relatività generale), fa il benché minimo cenno al feedforward, che è altrettanto importante del feedback.
I gestori/ organizzatori/ capi/ responsabili/ formatori – o, che dire si voglia – facilitatori, in ambito di risorse umane, non stanno ancora apprezzando questa metodologia che si pone di fronte al feedback come contraltare e come complemento razionale. Con qualche significativa eccezione. Vediamo: infatti…
Il feedforwarding, termine coniato da Marshall Goldsmith e Jon Katzenbach (autore di “The Wisdom of Teams“, Harvard Business School Press, 1993), è una particolare tecnica di comunicazione orientata sulle azioni future da realizzare per obiettivi pre-stabiliti.
Si può utilizzare nei percorsi di coaching come itinerario complementare al feedback, che resta uno strumento essenziale per lo sviluppo del personale e dei gruppi di lavoro.
Un esempio di feedwarding si può trovare nelle modalità proposte da Marshall Goldsmith, Executive Coach, NYT Bestselling Author e Dartmouth Tuck Professor in Management Practice.
L’idea centrale di questo metodo di coaching si incentra su una pre-visione razionale del processo di sviluppo professionale e manageriale di un lavoratore su cui l’azienda punta per la propria crescita. Il destino dell’azienda e quello del lavoratore, allora, si incontrano positivamente nel percorso di feedwarding, nel quale il budget generale richiama tra le sue componenti essenziali il / piano/ i di carriera/ e del proprio dipendente o di più dipendenti.
Accanto a ciò si colloca anche la gestione degli “errori di crescita”, che sono ineliminabili e perfino indispensabili per un’evoluzione positiva della struttura e delle persone coinvolte. Gli errori “in buona fede” non devono essere sanzionati, ma corretti con la disposizione al dialogo costante.
Un elemento costitutivo e caratterizzante di questo metodo è la delega, che si configura come tutt’altro rispetto a un “incarico”, perché è costituita da un processo scientifico ben preciso. Prima di presentarne i termini, conviene riprendere l’idea dell’autore sopra citato, Goldsmith, che propone, in via previa, quattro principi:
Focus sul futuro, cioè non rivangare il passato,
Essere sinceri tra e con il collaboratore,
Essere collaborativi e non negativi o critici,
Selezionare un comportamento da migliorare anche quando si fornisce un feedforward, in modo da incentrare la tecnica sul miglioramento piuttosto che sul giudizio.
A questo punto, si può aprire il discorso sulla delega, che presuppone un utilizzo concertato di feedback e di feedforward.
La delega è forse il principale strumento che – tramite i due sistemi citati – può aiutare nella crescita, sia il singolo lavoratore, sia l’azienda o l’organizzazione cui appartiene. Si è detto che la delega non è un mero incarico di lavoro, ma un processo razionale, logico, scientifico.
Per attuarla in modo efficace occorre che:
sia chiaro l’obiettivo,
si scelga un delegato di cui il delegante ha un’idea circa il potenziale di crescita,
sia spiegato bene al delegato,
siano predisposti i mezzi per la sua attuazione,
siano definiti e concordati i tempi di realizzazione del lavoro delegato,
si mantenga, da parte del delegante, un monitoraggio costante degli stati di avanzamento, senza opprimere psicologicamente il delegato,
si mantenga, in capo al delegante, la responsabilità del risultato in ordine agli obiettivi dati.
Un altro aspetto indispensabile per far funzionare la delega nell’ambito di un processo di feedback/ feedforward è l’assunzione di consapevolezza che occorre evitare o sconfiggere ogni sentimento di gelosia professionale tra delegante e delegato, come conditio sine qua non, per una crescita condivisa.
Il sentimento (o vizio) della gelosia, e di quella professionale in particolare, è molto diffuso, specialmente in alcune declinazioni antropologiche, e va considerato senza alcuna sottovalutazione.
E’ chiaro (e quasi ovvio) che ogni modificazione profonda nell’animo umano, nei sentimenti e nei comportamenti concreti e quotidiani, può avvenire solo se si riesce a far crescere nell’animo stesso la consapevolezza della necessità della modifica. Ogni riforma, anche del modo di lavorare, nasce “da dentro”, poiché se è solo imposta “da fuori” non dura, non essendo stata introiettata anche emotivamente.
Come in ogni ambito dell’agire umano la mera razionalità non basta mai, essendo l’uomo una entità complessa, fisica, psichica e spirituale (su cui si considerino gli studi più recenti sulla complessità, sulla fisica delle particelle e delle onde, recuperando anche le nozioni principali della metafisica classica che, non per me stranamente, possono dialogare), nella quale le ragioni del cuore devono essere considerate altrettanto delle ragioni della… ragione (Blaise Pascal).
Fiumi alpini e fiumi di risorgiva, verde smeraldo e verdolino trasparente tra i sassi, verde cupo e quasi olivastro… d’infinite sfumature, le acque del Friuli brillano. Da Ovest a Est, dal tramonto all’alba, da Occidente a Oriente: la Livenza (sicut narrat amicus Fulvius Portusnaonensis) nasce dalle Prealpi pordenonesi, a Polcenigo e dintorni, in località Santissima, e da una profondissima polla che viene dagli abissi del monte attraverso un sifone senza fine, chiamata Gorgazzo, e da lì serpeggia per l’Alta pianura con meandri dolcissimi, attraversando la femminea Sacile onusta di palazzi veneziani specchiantisi nel fiume, prima di sconfinare in Veneto, fino alla foce tra Caorle e Jesolo. Liquentia itaque transit per campagne di coltivi e di messi, e di vigneti ricchi dell’aroma cui dedicano vite e risorse da antichi vinificatori i loro discendenti.
Il Tagliamento è il magno fiume alpino. Dal Passo della Mauria a Lignano scorre per centosettanta chilometri portando a valle l’infinito di sassi e pietre da milioni di anni. Integro, selvaggio, desertico negli alvei smisurati, che si slargano fino alla massima larghezza dei fiumi d’Italia, assieme al Piave, al Ticino, al Sesia e al Po, il Tiliaventum scorre in alvei sempre diversi, a volte turbinoso e tremendo, come quando con acque limacciose sconfina oltre gli antichi argini, iniziando furenti scorribande fra le golene, dove l’uomo qualche volta osa costruire ricoveri, che il fiume sconquassa, perché l’acqua torna sempre dove è già stata, mentre l’uomo di questo a volte non ha memoria, e a volte scorre quieto e mormorante tra boscaglie di ripa ospitante animali di ogni genere e specie.
il fiume Stella
Lo Stella sgorga sulla linea delle risorgive, ma le sue acque sono – più o meno – le stesse, montane, del Tagliamento, che in parte si inabissano nella morena delle alte Terre di Mezzo del Friuli, e ricompaiono con il nome di Corno. Lo Stella: fiume di risorgiva, che vien fuori dalla terra in un rigagnolo a Flambro, sulla Stradalta, ma dopo una decina di chilometri già si può navigare con barche dal fondo piatto. Lo Stella è un poema, capace di rime incrociate con i suoi affluenti, come il Corno che scende dalla morena di San Daniele e Fagagna, e più a Sud tra i boschi del paese di Rivinius, centurione augusteo, compensato dal princeps primo imperator, con campagne rigogliose di viridescente verzura, prende il nome di Taglio, diventando il maggiore dei tributari. Si può contemplare lo Stella già nel borgo romito di Sterpo, dove scorre spingendo le ruote infaticabili di un antico molino, e a Flambruzzo, ove rispecchia il castello, in attesa di ricevere il contributo d’acque del Taglio, del Torsa e del Miliana, fino a conferire dovizia imperiosa d’acque profonde nella salmastra laguna che si adagia tra il borgo pescatore di Marano e la immensa Lignano… che è come circondata dai due fiumi, il Tagliamento a Ovest e lo Stella a Est.
L’Isonzo è nativo di là delle montagne Giulie, come sorgente. Attorno ai suoi primi zampilli si ergono le più grandi montagne del Nordest, il Triglav, lo Jalovec, la Sklratiça, per poi scendere verso il confine di Gorizia. Il colore delle sue acque è smeraldino, riflettendo alti cieli e floride boscaglie, che lo costeggiano.
Segna più o meno il confine tra la Slavitudine infinita la Furlanja taliana. Assieme con il Torre, il cui alveo è spesso desertico, e il Natisone, che in esso confluiscono più a valle.
A Oriente si incontrano, appunto, il Natisone e il Torre, mentre a Occidente scorrono il Meduna e il Cellina, imitatori alpini del Tagliamento. Il Noncello, mi suggerisce l’amico Romeo, raccoglie acque inabissate del Cellina, Nau Cellius, ad echeggiare la città perduta di Caelina, dal nome antico. Il fiume che bagna Cividale viene dalle montagne slovene tra gole profonde e si incastra nelle forre selvagge.
Fiumi continui come il Natisone e altri a regime torrentizio come il sistema Cellina-Meduna e il Torre, portano acque a Sud, verso l’Adriatico e quindi al Mare nostrum.
Un solo fiume, lo Slizza, che scorre a Nord Est nel Tarvisiano, si diparte dalla Sella di Camporosso e procede verso la Drava e dunque il Danubio.
Anche questi aspetti attestano come il Friuli sia la Terra del Confine per eccellenza della nostra Italia. Il confine interno di un’Europa che viene definendosi ancora, nella Storia grande e in quella quotidiana della politica e dei conflitti.
I fiumi sono arterie vitali che irrorano di vita le terre del confine e assomigliano alle lingue parlate, che “stanno dentro” la lunghissima istoria degli idiomi locali, filiazioni dirette delle antiche radici linguistiche dell’Europa intera: l’Italiano, lo Slavo delle Valli del Natisone, del Torre e della Val Resia, il Tedesco medievale di Sauris – Zahre e di Sappada – Pladen, il Friulano che – su una base neolatina – vive di prestiti formidabili dai contigui Slavo e Tedesco. Mentre a Grado canta Biagio Marin in un Veneto, antico idioma del mare, come a Marano, sull’altra laguna…
Una ricchezza ineguagliabile, quella dei fiumi e quella delle lingue, che ancora di più spicca in questi momenti drammatici della storia dell’Europa, quasi ispirando l’unico modo della convivenza tra diversi, l’eterno Dia-Logo, cioè la parola-che-attraversa spazi fisici e mentali e confini di tutti i generi, nell’unità sostanziale dell’essere umani.
Scegliere questo candidato a mio avviso significa dare al PD ancora qualche speranza di muovere qualcosa a sinistra di ragionevole, di razionale e di socialista democratico, magari anche (perché no?) di qualcosa che sia memore della parte migliore del Partito d’Azione.
Filippo Turati
Il mio amico Claudio, insegnante di filosofia e di storia, conoscitore finissimo delle vicende del mondo slavo e caucasico, dell’ex Unione Sovietica e della Rus storica, e mio antico compagno di liceo, la vede in questo modo, offrendomi una sintesi di ragioni a me completamente consentanee:
“La Schlein, se dovesse vincere, trasformerebbe il PD in un’arca di nostalgici ideologici e di minoranze Lgbtq+: non approderebbe da nessuna parte. Il diluvio continuerebbe, potendo eventualmente incontrare altri relitti 5 Stelle , e imbarcarli per aumentare la confusione.
Oggigiorno gli aiuti all’Ucraina sono necessari e la Schlein mi sembra molto ambigua. Alcuni anni fa ho letto il libro di Huntigton sullo scontro di civiltà. Allora molti lo hanno deriso e criticato. La guerra in corso mi sembra invece rientrare nella categoria dello scontro di civiltà: o la democrazia o le dittature più o meno mascherate. In Italia molti non lo hanno capito e piagnucolano perché sono stanchi della guerra (standosene ben pasciuti e al caldo), e pensano che Zelensky sia colpevole di tutti i guai che ci affliggono. Costoro vanno alle marce della pace, ma non hanno visione politica, anzi, aggiungo, hanno un atteggiamento immorale, nonostante i buoni propositi.”
Con il massimo rispetto per chi partecipa alle marce per la pace, condivido sostanzialmente la posizione di Claudio, che ha una lunga esperienza di insegnamento e anche di militanza politica in aree “insospettabili” per chi volesse insinuare che è un filo-bellicista.
Ai nostri tempi giovanili lui molto più “a sinistra” di me, ci siamo trovati, da uomini maturi, sul versante socialista democratico cui io appartengo fin dall’uso di ragione, come figlio della classe operaia, che, come sanno bene coloro che conoscono la Storia, è sempre stata gradualista e moderata.
…e riflessiva, perché naturaliter consapevole che le cose cambiano solo a partire dall’autoconsapevolezza dei limiti antropologici dell’essere umano, e da una paziente ricerca di sempre nuovi equilibri di democrazia e di giustizia nella libertà.
Sento dire in tv che Bonaccini sta chiedendo a Schlein di essere sostenuto nel caso lei non vinca, ottenendone, pare, prima una risposta positiva, risposta però, in seguito, recisamente smentita. Infatti, mi chiedo prima di tutto per quale ragione una candidata che spera di vincere, dovrebbe dare ex ante la disponibilità a collaborare con il suo “fiero vincitor” avallando in questo modo, implicitamente, la propria sconfitta e, in secundis, come si possa attuare una convivenza politico-gestionale positiva per un partito finalmente riformista (come avrebbero voluto in tempi e modi diversi Bettino C. e Walter V.), se i due progetti paiono essere così differenti.
Del resto, sono dell’idea che ogni organizzazione umana, partiti compresi, per quanto possano oggi – sociologicamente – essere chiamati “organizzazione”, necessiti di una leadership chiara e condivisa, non perché io sia un laudator dell’idealtipo “uomo solo al comando”, ma perché il leader, con la sua tipica personalità, deve incarnare con chiarezza e senza ambiguità una linea politica visibile per tutti. Così funziona tra gli uomini di questo mondo, non solo in base alla letteratura filosofica e psicologica fin dai tempi di Aristotele e fino a Freud e a Max Weber e oltre, ma anche nelle prassi che conosco direttamente, come nelle imprese economiche e nelle strutture della cultura, per tacere del sistema militare e di quello ecclesiastico.
In ogni caso, chiunque dei due vinca, a mio parere, dovrà iniziare da una revisione radicale dell’antropologia vetero-marxista che ancora permea quelle zone politiche, pena una nuova impasse, che sarebbe forse definitiva. Per fare ciò, per la verità, non vedo (purtroppo) preparato/ a né l’uno né l’altra. Chiarisco subito che un cambiamento di indirizzo antropologico presuppone immediatamente una revisione dell’ideologia politica storica sottostante e corrente.
Che cosa intendo per “revisione antropologica”? In questa sede ne ho parlato spesso e ora la riprendo, poiché mai come su questi temi e di questi tempi repetita juvant.
Con questo sintagma filosofico intendo che bisogna rinunziare solennemente all’utopia dell’homonovus, così come si legge ancora qua e là in articoli e pamphlettini nostalgici, in questo caso soprattutto dalle parti di Schlein o di ex militanti delusi dall’andazzo impoverito di idee e di entusiasmi di questi tempi post-rivoluzionari.
La “sinistra nuova” dovrebbe (necessariamente), studiare (studiare molto, perché ogni tanto mi capita di leggere che lo studio approfondito, scientifico, anche accademico, di un argomento, non serve o non servirebbe a molto), approfondire, prendere in mano e far propria un’antropologia che si fondi su una sorta di Realismo aristotelico-tomista declinato con il personalismo Novecentesco di un Mounier e di un Marc Bloch (socialista cristiano), che utilizza, assieme alla visione classica, intuizioni ed afflati che appartengono, solo apparentemente in modo strano e sorprendente, anche alla ricerca della fisica teorica più recente, che sta superando ogni riduzionismo deterministico nei suoi ultimissimi studi sulla coscienza-come-atto-in-divenire, non come stato-in-luogo determinato e immutabile (Giacometti 2022). L’uomo, nella sua struttura, non è emendabile per una via meramente socio-politica. Rassegnamoci (rassegnatevi Bonaccini e Schlein). L’uomo può solo essere trattato per come è, ed è in due modi.
E anche questi due modi ho spiegato più volte in questa sede, così: a) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di un corpo, di una mente e di una sensibilità spirituale, che tutti gli umani accomuna in dignitas e, b) l’uomo è (non “ha”) una struttura fatta di genetica, ambiente e educazione, tali da rendere ognuno un unicum, irripetibile, irriducibilmente. Le due strutture, cari Candidati, convivono! e vanno considerate assieme, non in contrasto, per cui l’emendazione, la resipiscenza, il pentimento, il cambiamento interpellano singolarmente la struttura b) su cui bisogna lavorare ad personam, con il dia-logo e lo studio dei principi etici, mediante il modello filosofico maieutico di Platone e dei maggiori saggi d’ogni tempo e luogo, che vanno studiati in modo approfondito e non solo orecchiato negli attivi di partito o di circolo, come si usa dire oggi.
Ancora una volta, dobbiamo ammettere che l’unica “rivoluzione” possibile è quella del cuore, che, se avviene, può mettere in moto anche il cambiamento sociale. Il primo nemico della sinistra, e di tutto il genere umano, non è primariamente la classe-che-sta-di-fronte-come-avversario-o-addirittura-nemico, non è la “Democrazia cristiana” odierna, né il “Sistema delle multinazionali” guidato dagli Usa, ma sono l’egoismo, l’invidia, la superbia, la vanagloria, l’egocentrismo, il narcisismo, cioè i vizi morali che possono caratterizzare qualsiasi anima umana, e non solo come nevrosi bio-psicologiche da Manuale Medico diagnostico psichiatrico. Vizi morali presenti ovunque, in ogni territorio, in ogni tempo luogo, nazione, ambiente, famiglia, gruppo organizzato e partito. Ovunque.
Un altro nemico che il nuovo gruppo dirigente deve sconfiggere, rendendosi prma di tutto conto della sua pericolosità, è la chiacchiera vana e le discussioni poco o punto documentate su temi decisivi come l’Etica, che il più delle volte si sente citare a sproposito. L’etica non è una serie di prescrizioni morali legate al qui e ora, maè la scienza del discernimento nel giudizio valutativo sull’agire umano, condividendo la nozione di ciò che sia bene e di ciò che sia male, che non è mai banale (cara Hannah Arendt!).
Infine, se quanto vengo dicendo è plausibile e condivisibile, solamente da una nuova Antropologia filosofico-morale può discendere una proposta politica di sinistra, capace di coniugare armonicamente libertà e giustizia sociale, proposta che riesca a parlare a vecchi e giovani, a militanti storici e di mezza età, a possibili simpatizzanti e – soprattutto – a chi non va più a votare e non partecipa alla politica, perché vinto da un formidabile scetticismo esistenziale e morale.
Un ultimo consiglio non richiesto a chi diventerà Segretario: rinnovi tutto il gruppo dirigente, senza astio, ringraziando con simpatia, e nel contempo invitando chi ha vissuto una stagione dirigenziale ad essere disponibile a viverne un’altra senza incarichi particolari, e soprattutto senza potere.
Il detto mi proviene da un sapiente che lo ha tràdito a suo figlio, il mio amico economista, uomo di tributi e di etica d’impresa dottor Pierluigi. Mio collega valoroso in Organismi di Vigilanza aziendali. Un detto formidabile, nella sua icasticità! Frase attribuibile, forse, allo scrittore Arturo Graf.
“È strano come tutti difendiamo i nostri torti con più vigore dei nostri diritti.” “Preferisco avere all’incirca ragione, che precisamente torto.” “Non ci basta aver ragione: vogliamo dimostrare che gli altri hanno assolutamente torto.” “Chi vince ha sempre ragione, chi perde ha sempre torto.” Ecco alcuni detti molto diffusi e illuminanti, in tema.
La sindrome-dialettica-da-Bar-Sport è sempre in agguato, in ogni dove, dalle famiglie ai consessi politici. Chi-non-sa ma crede-di-sapere (contra Socratem!) si pronunzia su ogni argomento, a partire dalla politica e dall’economia. Le semplificazioni su ogni tema e un linguaggio impreciso, banale e banalizzante permea molti momenti della vita sociale. La stampa “aiuta” in questo deteriore senso, le tv propongono una caterva di talk show dove il dibattito scivola spesso nella rissa verbale a-logica, e qualche volta anche fisica; sul web compaiono “opinioni” e commenti di chi vuole comunque intervenire anche se nulla sa di ciò che sta commentando. O ben poco. Con un idiotissimo like partecipa al dibattito politico il primo che incappa nel tema trattato. Like, cosa?
Quanto è diffuso ciò ho posto nel titolo nei modi di questo attuale mondo espressivo e dialogico! Chi urla lo fa perché non ha argomenti. Oppure preferisce le semplificazioni. Chi urla più forte crede di avere ragione, e invece è molto probabile che abbia torto, anche perché ha bisogno di urlare. Chi è (abbastanza) sicuro delle proprie ragioni non ha bisogno di urlare. Gli basta dire con chiarezza ciò che ha in mente.
C’è poi un altro tipo umano, quello che predilige solo spiazzare il suo interlocutore, senza fondare dialetticamente il proprio dissenso. Anche questo modo di dialogare è pericoloso, perché rinunzia, a volte per pigrizia, alla fatica della ricerca dialettica di una verità possibile, locale (Zampieri 2005 e ss.), anche transitoria, ma umana e intellettualmente onesta.
Proviamo ad esaminare il (diciamo così) dibattito politico sull’aggressione della Federazione Russa all’Ucraina. Non faccio nomi e cognomi, ma vi sono docenti universitari e politici e giornalisti che non usano più il termine “aggressione”, ma “guerra”, guerra in modo spiccio e senza altri pensieri. No, non è una guerra dove due potenze si scontrano per ragioni di allargamento del proprio potere e domini, come nei secoli scorsi e fino al XX, ma è l’aggressione di una Nazione più grande a una più piccola, laddove l’aggressore giustifica il proprio agire con eufemismi disonesti come “azione militare speciale” motivata come risposta a una prima e precedente aggressione del nemico. Ebbene, se è vero che nel Donbass, dal 2014 e anche prima c’è stato in quelle plaghe sul fiume Don un conflitto a bassa intensità tra russofoni e ucraini, non dimentichiamo la metodica militare aggressiva e violenta instaurata da Putin fin dal 2000, e quindi dei nomi di Nazioni che ai non-distratti dicenti “aggressione” e non “guerra” ricordano qualcosa: Nagorno Karabak, Georgia, Ossezia, e soprattutto Cecenia, quella dei Kadirov.
Il satrapo moscovita vuole la grande Russia degli csar, senza se e senza ma, passando sopra qualsiasi equilibrio diplomatico, politico, economico e militare. E forse anche qualche pezzo dell’Europa che fu satellite dell’Unione Sovietica, la quale, lo si può dire, ebbe leader di un livello molto più alto dell’uomo del KGB. Tra costoro annovero, senza alcun dubbio, anche Nikita Kruscev e Leonid Breznev.
Quelli che poi urlano “pace, pace”, siano essi laici o cattolici, non si chiedono la ragione per cui è così difficile sedersi a un tavolo per discutere anche solo una cessazione dello spararsi addosso, per arrivare a un armistizio e poi a una pace giusta. Prima riflessione: non si può discutere con la pistola puntata alla tempia; seconda: se è vero che anche l’Occidente e la Nato hanno responsabilità nell’escalation dello scontro, e quindi debbono rivedere le posizioni, a partire dalla sostituzione di Stoltenberg, che è dannoso con le sue esternazioni e goffe reazioni dialettiche, ci si parli chiaro: c’è una differenza radicale, fondamentale, fra il modello autocratico della Russia attuale, che vorrebbe esportare – corroborata da altre autocrazie o dittature – e il pur imperfetto modello democratico occidentale. Dico chiaramente: mille volte meglio un Biden ottantenne non sempre lucidissimo (gli USA hanno però un sistema di garanzie contro ogni rischio che mi rassicura) che un Putin o un Kadirov al posto di Putin, o no?
Mi dispiace osservare che, a mio avviso, risulta assai poco convincente (perché insicuro nei toni e nei contenuti delle sue osservazioni) anche lo stesso Presidente della Cei, il Card. Zuppi, che non riesce a declinare una posizione teologico morale con equilibrio e profondità quanto la stessa Teologia Morale classica insegna da ottocento anni (con Tommaso d’Aquino in primis): è moralmente ammesso, per legittima difesa di sé stessi e dei propri cari (concetto estensibile anche alla propria gente e alla Patria), utilizzare i mezzi opportuni e proporzionati atti ad impedire di essere sopraffatti e perfino uccisi. Se dalle misure assunte a difesa propria consegue che l’aggressore perde la vita, non si configura – per chi si è difeso – la fattispecie morale del peccato, in quanto si tratta di un effetto secondario non voluto da chi si difende (o, filosoficamente, si può dire che tratta di un’eterogenesi dei fini).
Se consideriamo l’aggressione Russa all’Ucraina si può ammettere concettualmente che si tratta di un’analogia a tutto tondo con il caso dell’autodifesa individuale: san Tommaso direbbe “analogia di partecipazione“. Su questo potremmo rileggere anche i testi in tema del nostro grande conterraneo friulano il padre Cornelio Fabro, che approfondì a lungo il concetto filosofico tommasiano di analogia di partecipazione.
Che si debba cercare una soluzione equilibrata tra interessi diversi facendo terminare l’aggressione dovrebbe essere fuori di dubbio per tutti i pensanti razionali e ragionevoli, come sostiene uno Stefano Zamagni, seguendo sia la platonica ricerca del Vero, sia l’aristotelica ricerca del Bene (ma ambedue, cui aggiungerei anche Plotino, ricercavano, in modo diverso, sia il Bene, sia il Vero, sia il Bello, sia l’Uno-Dio, che sono i trascendentali, caro Zamagni), ma bisogna partire da un cessate il fuoco, che va chiesto, anzi preteso, dalla Federazione Russa. Non occorrerebbe inventare nulla di particolarmente geniale, poiché, come ho già scritto qualche settimana fa in questo sito, basterebbe “imitare” quanto propose ed ottenne Alcide De Gasperi per l’Alto Adige, che gli Austriaci chiamano Sud Tirolo: autonomia e bilinguismo. Nel Donbass si potrebbe proporre altrettanto e far cessare il fuoco. E altrettanto per la Crimea.
Veniamo alla stampa italiana: quante urla e quanto pochi ragionamenti! Quanto poco sapere e quanta ignoranza, sia tecnica sia morale. Quanta disonestà intellettuale nei titoli dei servizi e anche nei servizi stessi: basta omettere di dire qualcosa e la notizia si sbilancia verso il pregiudizio del parlante o dello scrivente. Campioni di questa disinformazione pericolosa sono tra altri, a sinistra (?) un Travaglio, a destra un Belpietro, che-stanno-con-chi-stanno a prescindere da una paziente e faticosa ricerca della verità. Certamente, sono pagati per questo, ma non hanno problemi a vendere anima e coscienza per supportare-chi-li-supporta, non per la ricerca di una documentata verità umana, per quanto possibile.
A mero modo di esempio: quando ascolto i politici (per modo di dire) dei Cinque Stelle mi vengono i brividi e mi verrebbe voglia (anche se ciò non è per nulla filosofico, ne sono cosciente, come è ovvio) di prendere alcuni/ e di loro a sberle, anche se metaforiche. Spesso disonesti intellettualmente, improvvisati, guitti del sabato e della domenica. A partire dal loro primo mentore, il clown milionario Grillo, per finire con il capo attuale, Conte, uomo con carisma invisibile, comparso dal e destinato al nulla metafisico. E’ solo un esempio.
Riprendiamo da un altro tema: quello del superbonus etc.. Chi lo ha deciso e sostenuto evita di dire anche la pars destruens dell’iniziativa economico-fiscale (i 5S), vale a dire il rischio di fiscalizzare l’euro, mentre chi lo ha cancellato (il Governo Meloni e Giorgetti in particolare) evita di ricordare il rischio di perdere imprese e posti di lavoro. Non c’è quindi un equilibrio dialettico, dialogico e logico.
Mi auguro che le Parti sociali (ANCE, Sindacati delle costruzioni e Confederali, Sistema bancario e Professionisti del settore), immediatamente convocate dal Governo, che sono più di ogni altro soggetto competenti e capaci di dire ciò che si deve fare con saggezza ed equilibrio, suggeriscano delle correzioni che, da un lato non blocchino un pezzo importante e motore classico dell’economia industriale ed artigianale, cioè l’edilizia; dall’altro non mettano ulteriormente a rischio i conti dello Stato, che sono il nostro secondo bilancio individuale e familiare.
Ripeto l’aforisma del titolo: la Ragione e il Sapere parlano, l’Ignoranza e il Torto urlano.
Gli antichi filosofi greci e i Padri della chiesa antica hanno a lungo discusso e scritto dei vizi capitali, che sono sette, cioè superbia, invidia, avarizia, ira, gola, lussuria e accidia, o otto (nell’elenco, Evagrio Pontico ai sette canonici aggiunge la vanagloria), e delle virtù umane (o cardinali, secondo sant’Agostino e san Gregorio Magno papa), che sono la prudenza (equilibratrice di tutte le virtù, secondo Aristotele), la giustizia, la fortezza e la temperanza.
San Benedetto, nella Santa Regola che governò il suo movimento di settantamila monasteri in tutta Europa (costituendola in buona parte, alla faccia di chi non vuole inserire nella Costituzione dell’Unione Europea le “radici cristiane”, oltre a quelle greco-latine), volle aggiungere alle quattro virtù canoniche, anche altre tre, tipiche del monachesimo cenobitico: l’umiltà (sentirsi vicino alla terra, l’humus), l’obbedienza (ascoltare l’altro con attenzione, dal verbo latino ob-audire) e il silenzio (evitare la chiacchiera e le parole inutili o dannose).
Ho ritenuto proporre, in particolare, una riflessione seminariale sui temi del titolo in alcune aziende. Debbo dire, proficuamente. Di seguito il Power Point scaricabile.
Già ebbi modo di scherzare un pochino sull’etimologia greca del nome del Presidente della Francia Macron e sulle radici makro–mikro, grande-piccolo. Il suo nome, poi, Emmanuel, in ebraico Dio-con-noi, se viene collegato a makron dà il senso di un nomen-omen e di un de-stino, cioè di un ìsthemi, verbogreco, cioè stare, che è tutto un programma, come insegna Emanuele Severino. Un presidente della Francia scarsetto, che vive all’Eliseo come a loro tempo ivi vissero e presiedettero la Francia il Generale Charles De Gaulle, Georges Pompidou e François Mitterrand.
Willy Brandt
Scholz, il Cancelliere, mi echeggia una parola friulana “discolz“, che significa scalzo, proprio senza scarpe. Ebbene, quest’uomo, socialdemocratico come Willy Brandt e Helmuth Schmidt, ma di statura ben più piccina, mi sembra veramente “scalzo”, rispetto alle enormità politiche che deve affrontare come leader politico della maggiore potenza economica europea. Scarso dialogicamente, scarso come presa sui problemi, incerto e debole nelle scelte che spesso rinvia o rende confuse. Comprendo bene che il “capo-della-Germania” abbia qualche problema storico-politico-psicologico quando si entra su temi militari, e in particolare quando si potrebbe trattare di inviare all’Ucraina, affinché possa difendersi meglio dall’aggressione russa, i potentissimi carri armati Leopard 2, il cui nome echeggia quello del grande e bellissimo felino africano. Dietro questi pensieri viene alla mente un altro nome, quello dei Tigre (questa volta il riferimento è al più grande e forte felino del mondo) al comando del Feldmaresciallo Von Manstein, che nel 1941 sbaragliarono l’Armata Rossa arrivando fino a trenta chilometri da Mosca, fino a Leningrado e a Sud fino a Stalingrado sul Volga.
Poi, sappiamo che furono respinti e sconfitti da Stalin a Est e dagli Alleati a Ovest.
Di Meloni dico questo: qualche mese fa auspicavo che non vincesse le elezioni, dopo che l’inqualificabile Conte aveva fatto cadere il Governo Draghi, sperando che si creassero le condizioni per un prosieguo di quel Governo, di fronte ai problemi che nel frattempo erano sorti, a partire dal 24 Febbraio 2022, il giorno in cui il folle cinismo putiniano aveva scatenato l’aggressione contro l’Ucraina, Europa. Nonostante anche la Russia sia “Europa” fino al midollo, pur essendo immersa nelle vastità sarmatiche dell’Asia.
In quattro mesi la donna politica destrorsa ha lavorato come poteva, cercando di tenere a bada i due alleati che si è ritrovata al fianco, e che spesso si muovono più a suo danno, che sorreggendola. Fermandomi a giudicare la politica di questo Governo di destra-centro, osservo senza alcuna esitazione che questa donna giovane, neanche laureata, una underdog, come lei stessa si è definita con un po’ di malizioso e un po’ snobistico understatement, è molto più capace di quello che si poteva pensare e soprattutto è preferibile, come comportamenti e atti, ai suoi due qui non citati (non occorre farlo) alleati. In altre parole, se la sta cavando abbastanza, anche quando i suoi le fanno sgradevoli scherzi (per modo di dire) come quello del signor Donzelli in Parlamento sul “caso Cospito”. Aggiungo, di giornata, che Meloni deve anche affrontare le conseguenze non di poco conto di ciò che il suo sodale Berlusconi ha ripreso a dire nelle ultime ore/ giorni circa la responsabilità dell’aggressione russa all’Ucraina… che Zelensky avrebbe aggredito il Donbass, non che Putin lo avrebbe fatto con l’intera Ucraina mandando i suoi carri armati fino alla periferia di Kijv e bombardando la grande Nazione ucraina fino ai confini moldovi e polacchi. Mi auguro che Tajani e qualche altro di buon senso riescano a moderare il Cav e a consigliargli di fare, finalmente, il nonno a tempo pieno.
Ma debbo, però, volgere lo sguardo anche a sinistra e… Je sui desolé! Come canta Mark Knoplfler senza i suoi Dire Straits.
Non voglio nemmen parlare del 5S che sono poca cosa, culturalmente e politicamente, anche se incontrano l’attenzione di poco meno del 20% degli elettori. Volgo la mia attenzione al PD, cioè al partito che dovrebbe guidare con saggezza l’altra parte della politica e la mia desolazione raggiunge un’acme che non avrei mai previsto. Ora, questo partito sta rinnovando la segreteria, alla quale concorrono due candidati di bandiera, uno dei quali è l’on.le Colonnello dei Dragoni Cuperlo, che rispetto e con il quale mangerei una pizza e farei una riunione cultural-politica, e l’altra è l’on.le De Micheli, che rappresenta il medium demostrationis sillogistico e la quinta essenza della mediocritas (per nulla aurea).
Sono poi scesi in agone (che agonìa!) il signor Stefano Bonaccini e la signora Elly Schlein. Il primo è un classico e solido amministratore emiliano, la seconda è una giovane donna di cui fino a quattro o cinque mesi fa non avevo avuto contezza né notizia. Andrò al Gazebo tra qualche giorno, pagherò i due euro o tre per partecipare, e sceglierò Bonaccini (e qui invito gentilmente i lettori che mi leggono e che si recheranno al gazebo, a fare come me). Sceglierò Bonaccini per le ragioni sopra esposte e non la Schlein perché non ho alcuna ragione per sceglierla, anzi, ho alcune ragioni che ho maturato in queste settimane per non sceglierla: troppo sapientina a fronte di conoscenze scarse e deboli della realtà sociale VERA. Ciò deduco ascoltandola, con un po’ di fatica e non malcelato fastidio.
Ho già scritto che lei avrà incontrato in tutta la sua vita meno imprenditori e lavoratori di quanti ne ho incontrati io in un giorno solo.
Pertanto, per logica consecutio, dovrei candidare me stesso alla Segreteria del PD. Se la cosa fosse plausibile farei un’operazione molto semplice: 1) proporrei di far riconoscere al Partito, oltre ogni plausibile critica e accusa di anacronismo, che nel 1921 a Livorno si fece un ferale errore a sinistra, con inalterato rispetto per Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Palmiro Togliatti e Amadeo Bordiga, e 2) di chiamare il Partito: “Socialista Democratico”, questo farei.
E subito dopo: 3) proporrei di smetterla con il politicamente corretto, 4) di smetterla con i sospetti verso gli imprenditori “affamatori”, perché non siamo da tempo più nell’Ottocento e neanche nel Primo e nel Secondo dopoguerra, 5) proporrei di abbandonare la possibilità di attuazione pratica del marxismo filosofico-politico (mantenendo ammirazione, stima e rispetto per il Marx economista e sociologo), perché incapace di com-prendere una sana Antropologia filosofica, come si fece in Germania a Bad Godesberg nel 1959, quando la SPD fece altrettanto e governò quella grande Entità di popolo, nazione, cultura, lingua ed economia che è la Germania.
6) Proporrei di semplificare molte leggi, 7) proporrei di dividere le carriere in magistratura tra procuratori e giudici, 8) proporrei di attuare l’art. 27 della Costituzione rivedendo l’ergastolo come pena assoluta, per riuscire a distinguere caso per caso, e poter assumere decisioni proporzionate a ogni caso, là dove la resipiscenza possa essere strumento moralmente pratico per un reinserimento sociale di chi ha commesso anche gravi reati/ peccati… E molto altro, in questo senso.
Questo farei se la sorte, il destino, la vita mi avessero portato alla candidatura alla segreteria di ciò che resta della tradizione progressista della Storia italiana dell’ultimo secolo.
Ogni volta che mi pongo all’ascolto di qualche tg comincio a inorridire ancora prima che inizino a parlare, già in attesa di errori e mezzi sproloqui. Refusi sostanziali e formali, di pronunzia, per toni e timbri sbagliati o sgradevoli: almeno una metà dei “lettori/ lettrici” di notizie (sono giornalisti/e costoro?) non è all’altezza. Qualcuno è addirittura nelle condizioni oggettive di dover fare, per deontologia professionale, un corso breve pratico di respirazione e dizione. Tra costoro ho in mente un “lettore” del tg2 delle 20.30, più “cagionevole” di altri, che per caritas paolina non citerò per nome.
Ricordo, di contro, le meravigliose dizioni della tv a canale unico e in bianco e nero, e la chiarezza espositiva, degli Ottavio Di Lorenzo, dei Gianni Bisiach, dei Demetrio Volcic, dei Ruggero Orlando e dei Piergiorgio Branzi, tra altre decine di valorosi professionisti della notizia comunicata. Persone che facevano il concorso Rai, lo vincevano ed entravano nei ranghi, al massimo dotati di diploma di scuola superiore. Fino agli anni settanta del secolo scorso i giornalisti laureati in Rai erano pochissimi. Oggi sono tutti laureati e, nonostante ciò (ma sappiamo che un diploma di laurea non è sufficiente ad attestare una buona cultura e una conseguente proporzionata professionalità), si mostrano spesso come spiego sopra, nel loro lavoro.
I commenti televisivi alla stampa quotidiana sono spesso faziosi e schierati, e non tra-le-righe (come una certa qual eleganza vorrebbe), ma in tutta evidenza, quasi a far pensare che il commentatore possa essere pilotato… Sono ingenuo?
Poi vi sono degli animatori o conduttori o mezzi-comici (più “mezzi” che comici) come Fiorello, che non capisco come faccia a piacere, se non interpellando la campana di Gauss che mi ricorda dell’80% dei tipi umani che sono utenti delle tv.
amenità in tv
Vi sono poi gli immarcescibili, incapaci di smettere, come Morandi “capelli tinti” e Vanoni rifattona. Uno di costoro, anche se immensamente meritevole per la sua capacità divulgativa, fino alla sua dipartita, è stato Piero Angela. Anànke stènai, insegnava Aristotele: bisogna sapersi fermare. In tempo. Appunto. In quel caso non è stato il caso.
Ha evidenza immensa la regina delle influencer italiane, Chiara Ferragni, che miseramente sfarfalleggia sulla scala festivaliera sanremese che fu di Wanda Osiris, capace di ben altre e più rarefatte eleganze.
Cito solo, per la loro sgradevolezza e inopportuna militanza, le Littizzetto e le Gruber, così come qualche colto (colto?) ingannatori à là prof Orsini. E non confondiamolo con il prof Orsina, di tutt’altra tempra.
Di politici tipo Conte ho già scritto fin troppo e non mi ripeto. Mi auto-annoierei.
E poi i detti e gli scritti giornalistici. L’ultimo, ancora “apocalisse” per descrivere il terribile catastrofico terremoto anatolico-siriaco-caucasico di questo febbraio 2023. Non ce la fanno a non-scrivere “apocalisse”, che non significa disastro o catastrofe o ecatombe (lett.te “Strage dei cento buoi”, evidente metafora), ma significa “rivelazione”. Rivelazione di cosa, il terremoto? Dei movimenti della terra, irresistibili e imprevedibili? Cui l’uomo (in questo caso Erdogan) presta la sua insipienza e incultura e inciviltà costruttiva.
Per rifarmi l’anima , sollecitato da un bel servizio dato su Rai Storia, propongo un breve racconto mio della vicenda di Cesare Battisti (Trento 1875-1916), italiano, irredentista moderato, autonomista, studioso di diritto e di geografia, tenente degli Alpini, compagno socialista riformista. Impiccato con un ghigno soddisfatto dal boia imperiale Josef Lang, venuto appositamente da Vienna, dopo 48 ore dall’arresto in divisa di tenente degli Alpini sul Monte Corno (ora Monte Corno-Battisti) nel massiccio del Pasubio. Ex Deputato a Vienna e nella Dieta provinciale di Trento. Involontario omonimo di un criminale.
Cesare Battisti (1875-1916)
Colpisce vedere la foto di un Battisti giovane tra altri giovani liberali, socialisti e cattolici verso la fine dell’800, che manifestano a Innsbruck, capoluogo del Tirolo, per ottenere dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria una Facoltà di Giurisprudenza in Lingua italiana. Tra le file si riconoscono Cesare Battisti e Alcide De Gasperi, che poi furono arrestati e fecero qualche giorno di carcere per manifestazione non autorizzata.
Colpisce ascoltare la lettura di una lettera che Battisti, direttore del quotidiano trentino Il Popolo, scriveva al “compagno” Mussolini che nel 1909 si trovava a Trento, come giornalista del Giornale del Lavoratore. Gli chiedeva se conoscesse qualche giovane bravo e motivato politicamente per aiutarlo nel giornale da lui diretto.
Colpiscono queste due situazioni, la prima con colui che sarebbe stato il principale ricostruttore dell’Italia post fascista (De Gasperi), la seconda con colui che l’Italia aveva distrutto (Mussolini). La Storia. I suoi paradossi e le scelte che portano ciascun essere umano a stare da una parte o dall’altra. Ci si chiede come mai le strade dei due socialisti si divisero radicalmente, mentre le strade di Battisti e di De Gasperi, sia pure in modo diacronico, si sarebbero ritrovate nell’Italia democratica e repubblicana.
Qualcosa su Cesare Battisti, sulla sua figura. Sulla parte migliore di questa nostra Patria Italia.
Sono giornate nelle quali per varie ragioni sui media cartacei, sul web, per radio e in tv si parla di carceri, di art. 41 bis, specialmente a seguito dell’arresto di MMD e della vicenda dell’anarchico Cospito. A me è capitato di parlarne a un’assemblea di studenti del Liceo classico Jacopo Stellini di Udine. Il liceo “mio” (e di mia figlia Beatrice).
Centinaia di studenti assisi sulle gradinate della bellissima palestra con il tetto a capriate di legno della Carnia, o seduti sul pavimento tutt’intorno a me e ai loro brillantissimi rappresentanti, Greta, Virginia e Pier Ernesto.
Prima di parlarne brevemente, siccome il titolo dell’assemblea seminariale concerneva proprio quanto riportato supra nel titolo, mi sembra utile richiamare alcune nozioni storiche, politiche e giuridiche sui temi dell’Anarchia come movimento politico, dello Stato di Diritto e sui Principi costituzionali concernenti la privazione della libertà e l’utilizzo del sistema carcerario (Cost. artt. 13 e 27 e Leggi correlate del Codice penale e Penitenziaria).
Il termine “anarchia” deriva dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, senza + ἀρχή, principio o ordine; o ἀν, senza + ἀρχός , sovrano o potere; o ἀν, senza + ἄρχω, comandare, è la tipologia d’organizzazione sociale agognata dall’anarchismo, basata sull’ideale libertario (che è puro ideale!) di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà assoluta (contraddizione ossimorica intrinseca, poiché non è possibile che si dia una libertà assoluta! Mai!) delle persone, contrapposto a ogni forma di potere costituito, compreso quello statale, nell’illusione che una struttura organizzata dell’uomo possa fare a meno di una gerarchia razionale. Ad esempio, l’anarchia, come proposta da Pierre-Joseph Proudhon, uno dei maggiori teorici di tale filosofia e prassi politica, è un’organizzazione sociale che rimpiazza la proprietà , come concetto e fattualmente (che è un diritto esclusivo di individui, gruppi, organizzazioni e stati), con il possesso (nel senso di occupazione e uso).
Si può tranquillamente affermare che chi ritiene possibile una sorta di ordinata auto-organizzazione della società non ha alba di come-è-fatto l’uomo, confondendo la struttura della persona, che ci dà pari dignità, con la struttura di ogni personalità, che dà irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro. Sarebbe come se fosse possibile, realistico, utile, opportuno e perfino necessario sostituire l’amministratore delegato di una grande azienda con un operaio generico che non ha mai voluto studiare per crescere. Pura follia. Mi si concederà, digrazia, cari amici anarchici, che non-si-può, no se pol, a no si pò, no se puede, non potest esse facique, it’s impossible. O no?
François-Marie Arouet – Voltaire
Ancora un po’ di storia. Nell’accezione contemporanea, l’anarchia nasce come termine negli scritti del filosofo politico, economista e sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon nella prima metà del XIX secolo, affondando idealmente in concetti propri del pensiero di autori quali l’umanista e politico Thomas Moore (cf. Utopia), gli Illuministi Condillac e Marchese de Sade, Rousseau e Diderot. Hanno contribuito allo sviluppo del pensiero anarchico, quasi contemporanei a Proudhon l’inventore, musicista, scrittore statunitense e filosofo individualista Josiah Warren, l’anarchico individualista Benjamin R. Tucker, il rivoluzionario e filosofo anarco-socialista russo Michail Bakunin, lo scrittore Lev Tolstoj e limitatamente ad alcuni sviluppi sopravvenuti nel secolo successivo anche il filosofo “dell’anarchismo-egoista” tedesco Max Stirner (cf. L’Unico).
Le interpretazioni che gli storici, i politici e gli stessi anarchici danno dell’anarchia sono varie e ramificate. Nel corso della storia con anarchia non si individua un’univoca forma politica da raggiungere e soprattutto non si concordano necessariamente i mezzi politici da utilizzare, spaziando dalla nonviolenza, al pacifismo all’insurrezionalismorivoluzionario. Tipo Cospito, appunto.
Tutte le dottrine anarchiche hanno però un nucleo ideologico comune e centrale, che è costituito, come accennavo sopra, dall’annullamento dello Stato e di ogni forma di potere costituito, fino all’abolizione della proprietà privata. Ciò è quasi infantile, perché l’esercizio del potere tramite una autorità legittima non si può dare nemmeno in una società che torni a essere nomade, come diecimila anni fa ed ancora presente in alcune zone dell’Africa e dell’Asia, perché comunque, anche in quella situazione, emergerà sempre un leader, un capo carovana, un capo tribù. Questo insegnano la storia, la sociologia e l’antropologia generale.
Ricordo qualche nome riferibile ai vari orientamenti anarchici, dall’anarco pacifismo cristiano di un Lev Tolstoj, a quello comunista di Piotr Kropotkin, a quello socialista di Errico Malatesta, al “primo” Andrea Costa (marito di Anna Kuliscioff ante Filippo Turati) e altri, come i regicidi o aspiranti tali.
Metaforicamente, il termine “anarchia” può essere anche utilizzato come quasi sinonimo di situazione caotica, sia citando i grandi miti fondativi del mondo (il Caos iniziale è presente sia nella mitologia greca, sia nella biblica Genesi, sia nei racconti mesopotamici, sia nelle grandi narrazioni indo-cinesi), sia il disordine sociale. Un altro significato lo si può trovare in fisica quando si approccia il secondo principio della termodinamica e quindi dell’entropia. Per quanto concerne la politica, il caos anarchista può essere collocato nell’ambito delle dottrine anomiche, cioè di una società senza leggi e senza regole. Ancora, dico: infantile e pericoloso, perché l’uomo non è adatto a un tanto. Non può farcela a vivere in un contesto senza regola alcuna.
L’anarchia si colloca, come dottrina rivoluzionaria, in un “luogo ideologico” molto diverso dal marxismo-leninismo rivoluzionario, che invece, soprattutto nella versione stalinista, e in parte in quella maoista, prevede una rigidissima gerarchia, poiché il “popolo” – per i comunisti – ha bisogno della guida del “partito” e il partito ha bisogno di “capi”. Se vogliamo citare qualche esempio storico del talora tragico rapporto tra anarchia e comunismo, basta che ricordiamo la Guerra civile spagnola del 1936-38, quando i Repubblicani si divisero sanguinosamente tra comunisti e anarchici, e così persero di fronte ai falangisti militar-fascisti del generale Francisco Franco.
Vediamo un momento il secondo tema correlato, quello dello Stato di Diritto. Lo Stato di diritto (locuzione derivata dall’originaria espressione tedesca Rechtsstaat, coniata dalla dottrina giuridica tedesca nel XIX secolo) è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo; insieme alla garanzia dello Stato sociale, concorre alla definizione dei diritti che gli Stati membri delle Nazioni Unite si sono impegnati a garantire ai loro cittadini.
A livello teorico, la proclamazione dello Stato di diritto avviene come esplicita contrapposizione allo Stato assoluto: in quest’ultima forma di Stato, infatti, i titolari dei poteri erano “assoluti”, ossia svincolati da qualsivoglia potere a essi superiore. Attualmente, infatti, in gran parte degli Stati del mondo i Diritti civili e politici sono assicurati a tutti gli individui, senza alcuna distinzione, proprio grazie all’evoluzione storico-politica che, a partire dallo Stato assoluto, ha portato al raggiungimento del cosiddetto Stato di diritto.
Possiamo riconoscere un esempio precursore di Stato di diritto nella Costituzione inglese del XVII secolo, nata dalla Rivoluzione combattuta contro l’assolutismo della dinastia Stuart; essa porta a una serie di documenti (Bill of Rights, Habeas Corpus, Act of Settlement) che sanciscono l’inviolabilità dei diritti fondamentali dei cittadini e la subordinazione del Re al Parlamento (che è il Rappresentante del Popolo).
La proclamazione consapevole e attuale dello Stato di diritto si è realizzata storicamente e politicamente tramite le due grandi Rivoluzioni settecentesche, quella Americana e quella Francese. In particolare fu quest’ultima a importare in Europa, tramite Napoleone Bonaparte, i princìpi dello Stato liberale, che poi saranno oggetto (più o meno ampio, più o meno strumentalizzato dai vari monarchi europei) delle costituzioni ottocentesche.
Il concetto dello Stato di Diritto presuppone che l’agire dello Stato sia sempre vincolato e conforme alle leggi vigenti: dunque lo Stato sottopone se stesso al rispetto delle norme di diritto, e questo avviene tramite una Costituzione scritta.
La critica che è stata generalmente rivolta allo Stato di diritto da gran parte della storiografia giuridica, da varie frange ideologiche (soprattutto Socialiste e Comuniste, e anche dalla Dottrina sociale della Chiesa in una certa misura, ad esempio) e dai partiti di massa sorti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, è quella di aver riconosciuto – spesso solo in astratto – i Diritti fondamentali dell’uomo, senza curare l’attuazione – in concreto – di tali diritti. Così si è realizzata in tutti gli Stati liberali ottocenteschi una situazione che di fatto contrastava in una certa misura con le proclamazioni di diritto previste dai testi costituzionali vigenti. A queste lacune si è rimediato anche con l’introduzione – a partire dalla metà del XX secolo (Legge Beveridge nel Regno Unito, anche se un prodromo di welfare può essere riscontrato nell’istituzione di un regime pensionistico da parte del Cancelliere germanico Otto Von Bismarck alla fine del XIX secolo) – dei principi del Welfare State e la creazione degli Stati democratici.
E veniamo al terzo tema proposto nel titolo. L’art. 4 bis del Codice penale e il 41 bis, che ne è la logica conseguenza, sono norme che limitano le libertà “relative” del carcerato riducendo le possibilità di contatti esterni, di relazioni interne al carcere e qualsiasi attività che possa far continuare collegamenti potenzialmente criminosi con ambienti esterni, sia di mafia, sia di eversione.
Le visite dei deputati pidini Serracchiani, Orlando e c., che certamente nulla hanno a che vedere con la mafia, ma che, altrettanto sicuramente, sono abbastanza distanti dal sentiment del deputato comunista Mario Gozzini che nel 1986 volle proporre, e lo fece con successo, l’irrigidimento del sistema carcerario, per frenare l’ondata terroristica e mafiosa, non sono state iniziative di assoluta trasparenza, a mio avviso. Se il tema è ancora, in generale, l’art. 41 bis, sarebbe corretto che lo si dichiarasse e si chiedesse una discussione parlamentare sul tema. E’ evidente che detta normativa non si attaglia bene al dettato costituzionale dell’art. 27 che prevede l’obbligo – per uno Stato di Diritto come l’Italia – di evitare pene disumane e degradanti, e nel contempo prevede che vi sia il tempo per la resipiscenza e la “redenzione” della persona che ha commesso reati.
Sulla resipiscenza e la redenzione si dovrebbe aprire una discussione antropologico-filosofica e psicologica assai profonda, per convenire almeno sui limiti di una possibile rieducazione di una persona che abbia già commesso delitti gravi. Infatti, lo insegnano le discipline citate, non è mai possibile una rieducazione, che porti a un rischiaramento intellettuale e a un ravvedimento morale, se non nasce e cresce un profondo convincimento personale nel soggetto – di cui si tratta – di proporsi un cambiamento radicale spirituale e morale.
Nel caso di cui parliamo vi sono stati alcuni episodi meritevoli di attenzione: la figuraccia di Donzelli, che va tenuto per le briglie, ooh Meloni!, (e dovrebbe almeno scusarsi per come ha parlato alla Camera dei deputati), e che probabilmente pagherà cara la sua impudenza con le insinuazioni, condivise con il Sottosegretario Del Mastro, rivolte al PD e – di contro – la sesquipedale cantonata dell’on.le Ilaria Cucchi. Con tutta la pena che ho provato e provo per suo fratello Stefano assassinato da criminali vestiti da carabinieri e poliziotti, la sorella del povero ragazzo non mi ha mai convinto, con la sua battaglia, soprattutto per i modi e lo stile. Sulla tragedia si è addirittura costruita una carriera politica.
Non è la sola persona ad avere fatto questo, ma non è bello. Le affermazioni che la senatrice Cucchi ha formulato all’uscita dalla visita in carcere ad Alfredo Cospito confermano il mio giudizio poco lusinghiero sulla persona, sulla sua cultura e sul suo sistema valoriale. Le sue parole, più o meno: “Nessuno deve più morire di carcere come mio fratello“. E fin qui tutto bene, siamo d’accordo, perché noi abbiamo la cultura costituzionale dell’art. 27, e perché negli ultimi vent’anni vi sono stati 1350 suicidi in carcere. Ciò che è assurdo è invece il paragone che ha immediatamente dopo formulato tra la morte del povero Stefano e il rischio mortale che sta correndo il signor Cospito.
Le due vicende sono radicalmente, profondamente e ontologicamente differenti, perché Cucchi è morto ucciso da botte inferte volontariamente da dei criminali in divisa, mentre Cospito rischia di morire per libera scelta, magari di tipo luterano o spinozista (filosoficamente determinista), ma relativamente (ogni decisione umana lo è) libera. Come l’irlandese Bobby Sands, che però non era un violento come l’anarchico di cui tutti parlano, uomo che, dopo la gambizzazione del dirigente Ansaldo ha brindato in compagnia. Una persona che ha scelto l’anarchia violenta, ben diversa da quella in cui credeva il povero Giuseppe Pinelli, ingiustamente sospettato per la strage della Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969, e morto (suicida o ucciso?) cadendo da una finestra della Questura di Milano.
In quella vicenda, ricordiamo, la pista anarchica, rivelatasi poi falsa, fu la prima a essere ipotizzata, perché poi si capì che si trattava di una strage di destra e di servizi deviati.
A me Cospito sembra poco o punto degno di stringere idealmente la mano a Gaetano Bresci, che pure uccise re Umberto I il 29 luglio del 1900, o di Felice Orsini che attentò nel 1858 alla vita di Napoleone III, senza successo. Diverse stature politiche e morali, tra lui e i due, a mio parere.
Cara signora Cucchi, studi di più ed esca mentalmente dai giudizi ideologici, per il suo bene.
Il titolo di questo pezzo inizia con la constatazione (l’ennesima, da parte mia) di una crisi gravissima del pensiero critico. Crisi del pensiero critico. Infatti se ne sentono e se ne leggono di tutti i colori, nei talk show e sulla stampa. Discorsi sgangherati e disinformati, incapacità di confronto e di dialogo, ideologismi in luogo di ragionamenti logici…
Un’ultima considerazione sulle metodiche di indagine che fungono da corollario alle norme detentive. Si fa un gran parlare di intercettazioni: ebbene, queste modalità sono indispensabili alle Forze di polizia e alla Magistratura per compiere indagini efficaci su chi delinque contro le persone e contro lo Stato, ma devono essere gestite e custodite con la prudenza necessaria a non rovinare vite individuali, con la collaborazione del sistema mediatico, il quale, invece, contribuisce a danneggiamenti a volte irrimediabili di cittadini senza colpe.
Ho vissuto personalmente un uso distorto dell’informazione giornalistica: vent’anni fa andai a Bucarest in Romania per selezionare una ventina di infermiere professionali con una certa conoscenza della lingua italiana. Lo feci con successo e le chiamai in Italia, in Friuli. Quando a Udine fallirono l’esame di lingua italiana, trovai sul quotidiano regionale questo titolo a tutta pagina, in prima pagina: “Tutte bocciate le infermiere romene di Pilutti“. Il loro italiano era ancora zoppicante per un esame calendarizzato solo quindici giorni dopo il loro arrivo. Mi attrezzai con un percorso formativo rapido e intenso, docente io stesso e una mia valorosa collaboratrice laureata in lingue e letterature straniere (Francesca, che qui ricordo e saluto con affetto), e quindici giorni dopo furono tutte promosse. Informai il quotidiano che riportò la notizia a pagina 15 in un trafiletto quattro per quattro centimetri!
Per molto tempo fui quello che aveva toppato, quasi ridicolmente (non solo quello, è ovvio! ero sempre anche “altro”). E invece l’inserimento delle venti infermiere fu un successo, perché nel 2007, quando la Romania entro nell’UE, furono assunte a tempo indeterminato. Non feci alcuna rimostranza con la Direzione di quell’organo di stampa, perché sapevo bene come andavano, allora come oggi, quelle-cose-lì.
E torniamo ai ragazzi del liceo, che hanno partecipato al seminario con attenzione e concentrazione. Ho pensato che c’è speranza per il futuro, e lo ho detto alle insegnanti che mi hanno invitato, e lo ho pensato salutando i tre ragazzi che mi hanno ospitato.
L’evento stelliniano, insieme alla mia esperienza di tutore legale di un carcerato, oltre all’osservazione di ciò che sta accadendo in queste settimane, mi ha quasi dettato l’obbligo di scrivere questo “domenicale”, che forse ha il pregio di toccare molti temi, anche se senza la pretesa di essere un saggio scientifico. Comunque, pure se servirà solo a informare qualche lettore e a mettere in questione qualche convincimento poco fondato su dati o su fonti affidabili, avrò ben speso il mio tempo e la mia fatica sabatina.
Mi chiedo, gentile lettore, la ragione (se vi è una ragione) per cui in questi giorni i cronisti radiotelevisivi, quando raccontano degli attentati anarchici alle auto delle Ambasciate e ai Consolati italiani di Berlino e Barcellona, citando il prodromo dell’attentato all’auto della Consigliera d’ambasciata italiana ad Atene dottoressa Susanna Schlein, debbano sempre aggiungere “la sorella di Elly Schlein“.
il prof. Emanuele Severino
Provo a immaginarne il (o i) perché: a) la signora Elly è già famosa, mentre sua sorella no, e quindi per focalizzare la seconda si cita la prima. Obiezione: per quale ragione c’è bisogno di citare la prima se il fatto riguarda la seconda? b) forse che, se si cita la politica, il fatto che riguarda la funzionaria assume una valenza più grave? Obiezione: mi sembrerebbe, sia strano, sia inopportuno, perché ogni fatto ha una sua consistenza oggettiva sotto il profilo giuridico-penale. c) forse che, in vista, di una sempre maggiore esposizione mediatica della politica Elly, ove fosse eletta Segretario (a?) del PD (Dio non lo voglia!), il fatto di averla abbondantemente citata nel periodo precedente al Congresso fa “prendere punti” verso una figura potenzialmente importante, a futura memoria per la carriera del cronista? Obiezione: che squallido arrivismo, e oltremodo miope, da parte degli addetti ai media. d) forse che qualche suggeritore un pochino occulto consiglia a una parte degli addetti alla comunicazione di citare citare citare (repetita juvant, come insegnavano i saggi latini)la Schlein politica, per qualche ragione non del tutto trasparente? Auto-obiezione: dietrologie mie… forse.
Certo è che mi infastidisce parecchio sentire la cantilena “(omissis) come successo ad Atene alla sorella di bla bla...” Come se la sorella, peraltro la maggiore tra le due, vivesse di luce riflessa, una luce, peraltro, tutta ancora da mostrare, se c’è.
La buona metafisica insegna, da Aristotele ad Emanuele Severino, che vi sono due modi di apparire-all’essere: vi è a) un apparire dell’apparire senza essere, e vi è b) un apparire dell’essere. Non è vero che il contrasto logico-metafisico è tra “apparire” ed “essere”, ma tra i due modi prima esposti.
Per ogni ente-che-è (il soggetto) vi deve essere-un-apparire. Ma bisogna che vi sia l’ente, peraltro provvisto di un’essenza, in questo caso “politica”. Che nel caso, a mio avviso, è ancora tutta da mostrare, oltre le banali amenità che ho finora sentito dire dalla candidata alla Segreteria del PD. Con buona pace della su citata politica, poiché – secondo Severino – nella realtà gli enti sub forma essentium (cioè, gli enti sotto forma di essenti) che una volta appaiono alla realtà sono… eterni, e quindi vi è nientemeno che l’eternità davanti alla aspirante segretaria.
Per il grande filosofo, docente storico a Ca’ Foscari, il participio presente del verbo essere – ente/ essente – rappresenta la forma dell’eternità di ciò che anche solo una volta si manifesta (phàinetai) alla realtà.
Tornando ai media, potrei citare innumerevoli casi nei quali si evidenzia una piaggeria insopportabile nei confronti dei potenti di turno, che tornano immediatamente nell’oblio non appena il loro potere cala o svanisce, oppure qualcosa d’altro, che non capisco bene che cosa sia. Ho memoria dell’appartenenza di persone come il giornalista intrattenitore tv Maurizio Costanzo (poi pentitosi) alla P2, e di altre persone della comunicazione stampata o radiotelevisiva.
Io stesso ho sperimentato la piaggeria di molti quando mi sono trovato in evidenti posizioni di potere, come la responsabilità di un soggetto socio-politico o un’elevata posizione aziendale. Il meccanismo è sempre stato questo: a) non sei nessuno, perché non appari in tv, e nessuno ti bada; b) cominci a essere-qualcuno perché la tua figura comincia ad apparire (ecco il solito apparire!) in tv, e parecchi cominciano a salutarti con sempre maggiore deferenza, man mano che la tua presenza mediatica cresce; c) sei sempre più presente sui media, e allora in molti ti cercano per un favore o anche solo per farsi vedere con te in qualche locale centrale della città a bere un bicchiere di vino; d) le tue presenze mediatiche calano fino a scomparire e quelli che ti cercavano e ti salutavano per primi, fanno a volte finta di non averti visto per strada, perché non sei più utile.
Eppure tu sei sempre lo stesso. A me è capitato almeno tre volte di salire e scendere la “scala” della notorietà (e di un potere dato) in ambienti differenti (politica, economia, cultura) osservando i fenomeni sopra descritti. Ora sono stabile in una buona posizione.
Provo una gran pena per chi ti giudica dal tuo apparire, senza curarsi che il tuo apparire sia un apparire dell’essere quello che sei.
Dal punto di vista psicologico si considera il potenziale come “l’insieme delle energie, delle capacità e delle attitudini presenti in un individuo, ma che non sono richieste dalla posizione che egli al momento ricopre”; dal punto di vista organizzativo il potenziale rappresenta “il confronto tra le caratteristiche proprie di un individuo e le caratteristiche richieste per ricoprire al meglio una posizione o comunque per offrire all’organizzazione il massimo apporto in termini di crescita del valore della stessa”; dal punto di vista culturale il potenziale può essere considerato come “il confronto tra la cultura dell’organizzazione, intesa come sistema di valori, di modalità comunicazionali e di schemi di riferimento comportamentali , e la cultura dell’individuo”.
(Questa definizione si trova nell’Enciclopedia Treccani)
(Eingeschränkte Rechte für bestimmte redaktionelle Kunden in Deutschland. Limited rights for specific editorial clients in Germany.) Max Weber Max Weber 21.04.1864-14.06.1920+ Sociologist, socio-political advocate, Germany – around 1917 (Photo by Archiv Gerstenberg/ullstein bild via Getty Images)
Max Weber è stato un illustre sociologo e filosofo tedesco, le cui teorie sono la base di molte ricerche socio-organizzative contemporanee. Luigino Bruni propone alcune idee interessanti sui temi del titolo, per cui le utilizzerò.
“La leadership è una delle parole sacre della religione del nuovo capitalismo del XXI secolo. La riflessione, e soprattutto, la pratica dei fenomeni oggi chiamati leadership sono in realtà molto antiche.” (L. Bruni)
Temi, questi, presenti fino dalle opere dei grandi pensatori del passato, dai greci fino a Max Weber,
Le dottrine economiche hanno più che altro utilizzato questi studi senza ritenerli molto strategici, ma le cose stanno cambiando. Sempre più nelle strutture economiche organizzate, a partire dalle imprese, specialmente quelle industriali, si discute di “capacità di conduzione e di motivazione delle persone”, espressione sintetizzabile con il termine leadership.
Si riscoprono anche autori come Vilfredo Pareto, che ha scritto molto sulle ideologie che “producono” i leader, salvo poi farli decadere (lui aveva presenti quelli della prima metà del XX secolo, esempi spesso deleteri). Lo sviluppo delle scienze sociologiche e del management hanno permesso di comprendere – sulle linee disegnate da Weber e Pareto – anche le varianti, che sono sempre degli sviluppi delle teorie dell’autorità e dell’eserciziodel potere, aspetti necessari (che-non-cessano) della convivenza umana presenti fin dall’antichità, ancora prima della stanzializzazione dei nomadi primevi provenienti dal Rift africano e diretti verso la Mezzaluna fertile.
Si fanno corsi e si pubblicano libri, spesso nella forma banalizzata dell’instantbook, molto promosso per gli utenti viaggiatori (spesso figure di manager aziendali) nelle grandi stazioni ferroviari e negli aeroporti. Titoli come “Diventare leader in 36 ore”, oppure “Il management in 24 ore” contengono sproloqui ingegnerizzati scopiazzati qua e là, o dai testi dei grandi sociologi sopra citati, oppure da maestri di psicologia sociale di scuola americana come quella di Paolo Alto. Anche le facoltà economiche si sono attrezzate per vendere corsi e seminari a costi elevatissimi, del tipo: due fine settimana per il capo o per il Ceo a 4000 euro, dove docenti universitari un po’ scarichi impressionano i capi azienda con brillanti dissertazioni, presenza di testimonial della leadership, come campioni sportivi o anche attori e cantanti, cioè persone che sanno “stare in scena” da protagonisti, non da deuteragonisti, perché essere-secondi non basta. Bisogna essere necessariamente primi.
Vilfredo Pareto
Ma senza i “secondi” una struttura organizzata non va da nessuna parte. Là dove One Man Manages (un uomo solo al comando, come Fausto Coppi) occorrono anche le seconde linee per mandare avanti il lavoro quotidiano, per gestire i gruppi di lavoro, spesso organizzati come insegnava san Benedetto con la sua Santa Regola (magari senza che costoro lo sappiano).
Qualcosa di diverso sta comparendo, però, anche nelle business school, nelle facoltà di ingegneria, di economia e di scienze umane: l’esigenza di recuperare, oltre alla frequentazione delle teorie psicologiche contemporanee, i pensieri classici sull’uomo, quelli dell’antropologia filosofia, della filosofia morale e perfino quelli teologici. E ciò accade anche nelle aziende. Gruppi di ingegneri e di controller finanziari ascoltano con interesse ciò che pensava dell’uomo Aristotele, o il sistema di vizi&virtù di sant’Agostino, di san Gregorio Magno e di san Benedetto, o ciò che serva per la scelta buona secondo Kant, declinando la libertà come un dover-essere per un dover-fare, motivando e gestendo altre persone.
C’è, però, un problema nell’impostazione di questi corsi, quando ancora non si rivolgano ai saperi classici: la divisione rigida tra leader e follower, tra capi e seguaci, o gregari. Mi spiego meglio: appena sopra ho rilevato l’importanza dei gruppi di preposti che stanno attorno al leader, mentre qui sto criticando il sistema leader/follower.
La ragione sta nel fatto che, in mancanza di una fondazione antropologica chiara, il rischio di trasmettere in questo modo e sistema messaggi demotivanti, è grande. Scrivere nella pubblicità di questi corsi semplicemente questo: “il corso si rivolge a manager e dirigenti con esperienza e chiunque aspiri a posizioni di leadership o a cui sia richiesto di essere leader“. Per cui, il messaggio sotteso è che se non riesci a diventare leader sei un po’ un fallito.
L’antropologia filosofica insegna, invece, che ogni persona possiede ontologicamente una dignità la cui eguaglianza tra tutti è insuperabile e imprescrittibile, perché basata sui tre elementi fondativi di fisicità, psichismo e spiritualità, e di contro spiega come ognuno abbia una propria individuale personalità, che gli consente di essere anche variamente (si capirà dopo l’importanza di questo avverbio di modo nel mio pensiero) leader nella vita e nel lavoro. Di contro, genetica, ambiente ed educazione fanno la singola persona, la costituiscono, la persona che riuscirà ad essere sempre in qualche modo leader nella propria posizione, per creatività e impegno, anche se non sovraordinata ad altri.
Questa nuova visione è anche più adatta a comprendere i cambiamenti che il capitalismo ha generato dal proprio interno, con l’inserimento di giovani, almeno diplomati e sempre più spesso laureati, che non ci stanno a fare solo gli “obbedienti”, ma desiderano contare, essere partecipi, avere una qualità del lavoro più elevata. Si tratta di una cultura che potremmo definire “postatriarcale”, laddove nelle aziende vi sono ancora i “patriarchi”, che a questo punto devono accettare il cambiamento, se desiderano che le loro aziende proseguano oltre la loro carismatica e irripetibile esperienza. Anche il concetto (e virtù benedettina) di obbedienza può e deve cambiare l’attuale accezione contro-intuitiva, recuperando il suo etimo originario, che è il verbale latino ob-audire, cioè ascoltare, mentre e cosicché accanto all’ascolto vi può essere anche un accorgersi-di-qualcosa (dal latino ad corrigendum, vale a dire verso-un-correggersi), per cui l’ascolto permette l’accorgersi e il successivo correggersi.
Se l’esercizio del potere mediante l’autorità riconosciuta dalla tradizione e dalle leggi civilistiche è fuori questione (un padrone c’è sempre, ma è bene che sia “visibile”, non invisibile come nel caso dei “Fondi d’investimento”), affinché l’organizzazione sia più veloce ed efficiente, occorre che le persone si sentano sinceramente coinvolte, senza strappi e fughe avanti o a lato. Nel nuovo contesto anche l’autorità massima di un’azienda, il Ceo, il Direttore generale, il Presidente, l’Amministratore unico, il Titolare, a seconda di come l’azienda è organizzata, deve sapere che il compito suo maggiore più difficile, è la scelta dei collaboratori, e la loro valorizzazione. Gli aspetti gerarchici, che comunque rimangono importanti, saranno così inseriti in un contesto psicologico e morale di collaborazione continua e coinvolgente. Nel mondo delle teorie organizzative anglosassoni, sempre molto importanti, il verbo to involve è tra i più gettonati, anche più di to lead o to manage. Ma senza un’immersione nei citati saperi filosofici classici tutto ciò rischia di restare freddo, sterile e ostile, insopportabile per i caratteri che vogliono esprimere tutto il proprio potenziale aspirando a di più…
I nuovi stili di direzione e comando debbono pertanto tenere conto dei cambiamenti che vengo descrivendo, accettando che il carisma del fondatore/ amministratore/ titolare possa essere condiviso nel tempo anche da chi non appartiene a quella che Giorgio Bocca, ancora negli anni ’70, chiamava “razza padrona”, riferendosi agli Agnelli, ai Pirelli, ai Danieli e ai Cefis, che ora si declina e opera in dimensioni più ridotte e diffuse. Personalmente conosco e opero positivamente con diversi esempi di questo tipo di governance d’impresa, mantenendo la mia autonomia e il mio giudizio. Ed è per questo che vengo apprezzato, e anche se questi Capi azienda sanno di non avere sempre e comunque un consenso da parte mia, mi affidano la responsabilità di presiedere Organismi di vigilanza previsti per Legge.
Aggiungiamo che i carismi, come insegnava san Paolo, molto prima degli studiosi contemporanei, può essere nascosto, latente, e pertanto bisognoso di un “ambiente” consono a portarlo all’evidenza e all’esercizio di una funzione pubblica. Il capo carismatico, lo insegna anche la sociologia classica di un Auguste Comnte, è indispensabile nella fase di avvio e di primo sviluppo di una struttura, sia essa politica, economica o religiosa; nel momento in cui la struttura si auto-sostenta occorrono altre figure, ed è necessario creare le condizioni perché altri carismi emergano e si mettano a disposizione.
Riporto qui ancora, per discuterne, alcune tesi e giudizi sulla leadership moderna del filosofo Luigino Bruni: “(omissis) Probabilmente c’è da averne semplicemente terrore. Perché quella di oggi è una società molto più illiberale di quella vecchia del Novecento. Non è la prima volta che si evidenziano i limiti profondi della leadership. Ecco infatti nascere negli ultimi anni nuovi aggettivi: leadership relazionale, comunitaria, partecipativa, persino di comunione. Ma, lo si dovrebbe intuire, il problema non riguarda l’aggettivo: investe direttamente il sostantivo: la leadership. E c’è di più. La teoria economica ci insegna che alcuni tra i fenomeni sociali più importanti si spiegano con meccanismi di selezione avversa: senza che lo vogliano, le istituzioni finiscono in certi contesti per selezionare le persone peggiori. Detto diversamente: chi si candida a un corso per diventare leader? La teoria economica ci dice che è molto probabile che “chi aspira a diventare leader” siano le persone meno adatte a “guidare” i gruppi di lavoro, perché amare il “mestiere” del leader ed essere un buon leader non sono assolutamente la stessa cosa. Pensiamo alla leadership politica: in tutti i Paesi i migliori politici sono emersi ed emergono durante le grandi crisi, quando non ci sono “scuole per politici”; quando invece fare il politico diventa una professione, associata a potere e denaro, le scuole di politica generano in genere politici scarsi.”
Do ragione a Bruni se penso alle leadership della politica italiana attuale, nella quale leader mediocri come Conte e Salvini si circondano di cantori follower, capaci solo di recitare come in una filodrammatica di paese la lezioncina imposta dall’alto (se è qualcosa di “alto” il loro leader). Potrei fare dei nomi, ma la pena per loro mi trattiene. Do, invece, torto, a Bruni, se penso ai fenomeni che stanno avvenendo nelle aziende, che forse lo studioso non conosce molto direttamente: nei luoghi dell’economia funziona in modo diverso che nella politica, ed è possibile, colà, vedere emergere persone che possiedono veri meriti.
E’ quasi impossibile che un carismatico padrone affidi a degli incapaci poteri e responsabilità, pena un rischio mortale per la propria azienda. Con ciò non voglio dire che tutti i i dirigenti e preposti siano figure di specchiata virtù e buon potenziale, ma che se non valgono quasi sempre (dico “quasi”), vengono smascherati e spostati dal ruolo. O espulsi dal sistema.
Ciò che si può dire è che le leadership attuali sono molto meno influenzate dal modello del leader carismatico-profetico, che riusciva a incantare le masse, perché era un medium tra esse o addirittura peggiore di esse. Si pensi ai carismi assassini dei responsabili delle tragedie del ‘900, che hanno ancora imitatori pericolosissimi, ma non della stessa micidiale caratura (speriamo).
Ancora, proprio per ragioni dialogiche, riporto un passo di Luigino Bruni: “I principali profeti della Bibbia (da Mosè a Geremia) non si sentivano leader, né, tantomeno, volevano diventarlo. Il solo pensiero di dover guidare qualcuno li terrorizzava. Sono scelti tra gli scartati, gli ultimi, sono anche balbuzienti e disabili ma capaci di ascoltare e soprattutto di seguire una voce. A dirci che chi nella vita ha guidato bene qualche processo di cambiamento lo ha saputo fare perché prima aveva imparato a seguire una voce, prima aveva appreso la sequela. I profeti sono uomini e donne dell’insuccesso, laddove la leadership è invece presentata come strada per raggiungere l’altra parola magica del nostro capitalismo: il successo, l’essere vincenti. Gli uomini del successo, seguiti e adulati, erano i falsi profeti che uscivano spesso dalle “scuole profetiche” che sfornavano moltitudini di profeti per mestiere e ciarlatani forprofit.
La prima legge che la grande sapienza biblica ci ha lasciato infatti recita: «Diffidate da chi si candida a diventare profeta, perché è quasi sempre un falso profeta», o, diremmo oggi, semplicemente un narcisista. La storia e la vita vera ci dicono poi che si diventa “leader” facendo semplicemente il proprio lavoro, facendo altro, e poi un giorno magari qualcuno ci imita e ci ringrazia, e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Ma il giorno in cui qualcuno si sente leader e inizia a comportarsi come tale, si ammalano le persone e i gruppi, si producono molte nevrosi individuali e collettive. E quando le comunità hanno voluto produrre in casa i propri leader hanno selezionato troppo persone incapaci a quel compito, anche quando erano mosse dalle migliori intenzioni. Semplicemente perché i leader non si formano, e se cerchi di formarli crei qualcosa di strano e non di rado pericoloso. Quindi immaginare corsi di leadership per giovani è estremamente pericoloso. Ma si moltiplicano, perché le scuole di leadership attraggono i molti che desiderano essere leader e si illudono di poter comprare sul mercato l’appagamento di questo desiderio. Discorso diverso sarebbero corsi di “leadership” per chi si trova già a svolgere un ruolo di coordinamento e di guida, ma dovrebbero essere molto diversi da quelli oggi in circolazione. Dovrebbero aiutare a ridurre i danni che i “leader” producono nei loro gruppi, a formarsi alle virtù deponenti, alla mitezza e all’umiltà, a imparare a seguire i propri colleghi.
(omissis) È infine davvero sorprendente che il mondo cristiano sia attratto oggi dalle teorie della leadership, quando è nato da Qualcuno che ha fondato tutto sulla sequela, e che un giorno ha detto: « Non vi fate chiamare guide, perché una sola è la vostra Guida» (Mt 23,10).
Abbiamo certamente bisogno di agenti e attori di cambiamento, sempre, soprattutto in un tempo di grandi cambiamenti come il nostro. Abbiamo soprattutto bisogno di persone che si prendano delle responsabilità per le loro scelte. Ne abbiamo un bisogno vitale soprattutto quando le nostre imprese e comunità sono ferme e statiche. Questi change makers difficilmente arriveranno dalle scuole di leadership: potranno solo emergere da comunità e imprese meticce che si rimetteranno a camminare lungo le strade, che riprenderanno il cammino lungo le vie polverose delle città e ancor più delle periferie. Lì ci aspettano i nuovi leader, che saranno agenti di cambiamento proprio perché non si sentiranno i nuovi leader. E lo saranno insieme, tutti diversi e tutti uguali, nella reciprocità della sequela.” (Fine testo di Bruni)
Sono in parte d’accordo con Bruni quando propone il contrasto tra i termini vincenti e perdenti, specie se nella comune vulgata i perdenti sono trattati con disprezzo, e mette in questione il termine successo, quando questo termine smette del tutto di essere il participio passato del verbo succedere e costituisce meramente l’unica linea guida di una vita… ché poi basta una malattia o un rovescio inaspettato per far crollare tutto l’impianto di superbiosa grandezza di una persona-di-successo.
Non sono d’accordo con lui quando critica in modo un po’ indifferenziato le “scuole di leadership” aziendali, perché anche tra queste bisogna distinguere, come ho cercato di fare supra.
Infatti, se proponendo degli studi seminariali sulla leadership in azienda, la si imposta partendo da una sana antropologia filosofica e da un’etica ben declinata, dove si sintetizzano diritti e doveri, rispetto delle persone e perseguimento del business, si fa un’operazione utile, opportuna, necessaria e, direi, perfino, obbligatoria, se si vogliono, da un lato evitare le storture paventate da Luigino Bruni, e dall’altro dare valore al contributo diverso e sempre più colto e professionale delle giovani generazioni che si affacciano al lavoro.
La differenza tra me e Bruni è questa: lui svolge delle valorose ricerche accademiche per un tempo superiore al mio; io faccio quasi altrettanto, ma ben immerso nella realtà effettuale delle aziende e del mondo economico.
Le mie sono Teoria e Prassi utilmente in relazione, che sono sempre disponibile a condividere, come peraltro sto facendo con la Facoltà teologica cui afferisco, e con gli altri soggetti formativi, accademici e aziendali, con i quali collaboro.
Girano con secchi di vernice (lavabile) e si scagliano contro quadri e monumenti, sporcandoli. Per protesta.
Babbei e babbee
Sono giovanotti e giovanotte sensibili ai problemi ambientali e del clima, di cui nessuno si ricorda. Secondo loro.
Hanno almeno un diploma liceale e forse anche una laurea, magari in scienze della comunicazione, perché sono dei comunicatori. Fanno performance. Ricordano il Sordi (Alberto) che visita con la moglie la Biennale di Venezia, laddove la signora, stanchissima e sudata, si siede sulla sedia della “guardiana” e viene presa per una “installazione” da ammirare. Un’installazione-performance che interessa un gruppo sempre più nutrito di visitatori, i quali smettono di guardare le opere esposte, concentrandosi sulla genialata di quell’artista capace di far sedere una signora viva-addormentata in mezzo alla mostra.
Addirittura, talmente realistica è l’opera costituita dalla signora seduta addormentata sudata, che un pietoso visitatore la deterge con acqua fresca. Al che la signora si rianima, si agita, e scatta in piedi, alla velocità consentitale dalla sua incipiente pinguedine da mezz’età. E urla contro chi si trova tutt’attorno. Arriva Sordi e la porta via.
Informo il mio gentil lettore e lettrice che la parte relativa alla detersione pietosa è stata da me inventata di sana pianta, perché non presente nella sceneggiatura del film e pertanto scena non mai girata.
Cambio di scena. Siamo nelle Terre di Mezzo del Friuli. Ristorante in mezzo alla campagna. Mi fermo, pranzo e poi, memore di antiche storie, mi intrattango con la titolare sul nome del ristorante: in friulano “Cà dal Pape“, trad. it. “Qui dal Papa”. Nome oltremodo curioso. Che c’entra il Papa con il paesino sperduto nelle campagne del remoto e poco conosciuto Friuli? C’entra, perché i Friulani, al di là dello stereotipo che li considera solo burberi e chiusi, hanno un fondo di ironia nel loro carattere di “Popolo del Confine”, aduso a due millenni e mezzo di scorrerie a diversi padroni “foresti”, come Roma, Langobardia, Venezia, Patriarchi germanici (mezzi-foresti), Austro-Ungarici.
Il nuovo nome ha sostituito qualche anno fa il nome storico “Al cacciatore”, che aveva attirato le ire degli animalisti locali e non. Stanchi di subire attacchi violenti da parte di una squadra di eroi difensori dell’animale, ma ignari che anche l’uomo lo è, e loro in ispecie, e stanchi di quasi-sconfitte in tribunale, dove valorosissimi avvocati ambientalisti riuscivano a mostrare che quei giovani erano solo dei “generosi idealisti”, i proprietari si sono decisi a ri-nominare il locale con quell’evocativa e rispettabilissima dizione, soprattutto per la parte cattolica degli animalisti, che si annovera cospicua.
Finiti gli attacchi, prosperità e pace per il locale.
Che cosa accomuna quei ragazzotti che nottetempo facevano fuggire animali dalle gabbie, danneggiavano distributori di carburante che servivano il popolo lavoratore, facevano esplodere piccole cariche sulle porte di qualche macelleria, e gli imbrattatori di queste settimane?
Mi pare di poter dire una sola parola e poche altre a commento: ignoranza. Crassa.
Un’ignoranza sia tecnica sia morale, di tipologia infantile, quasi come quella del bambino che batte i piedi perché vuole assolutamente quel giocattolo in vetrina, che fomenta arroganza, presupponenza e protervia. Perfetta scala crescente di dis-valori proposta da Norberto Bobbio.
Il ciclo psicologico e comportamentale è chiaro. Uno pensa di avere ragione su una cosa e vuole, fortissimamente, alfierianamente vuole essere ascoltato e ubbidito, perché lui/ lei è il centro-del-mondo e tutto-gira-attorno-a-lui/lei… Ti ricordi caro lettore, cara lettrice, di quello spot dove una bella ragazza australiana, Megan Gale, pubblicizzava Vodafone con la frase pronunziata in un italiano “stanliano” (cioè simile a quello di Stanlio, il geniale Stan Laurel): “thuttho inthorno a thei“. E giù imprecazioni, le mie! Perché mi chiedevo se quel messaggio, apparentemente innocuo, potesse fare danni ai giovanissimi ottenni o novenni o decenni telespettatori che, incantati, guardassero la bella donna giovane suscitando in loro il desiderio inconscio di un cellulare magari con attaccata la bella donna. Come zia giovane, naturalmente.
Freudismi sghembi e un pochino paranoici, i miei? Non so, non lo so, ancora.
Bene: quelli che al tempo facevano le “birichinate” (così le chiamavano in tribunale gli avvocati, anche se le “birichinate” costavano da cinque a diecimila euro per volta), e quelli che oggi imbrattano dipinti e monumenti, sono della stessa pasta. La pasta di quelli che non accettano la fatica dell’argomentazione logica, dell’impegno diuturno politico e sociale, della rappresentanza degli interessi, del coglimento e dell’accettazione delle diverse sensibilità individuali.
Farei così, permettendomi un suggerimento al valoroso, e da me molto stimato, Ministro Guardasigilli Carlo Nordio: dopo il fermo di polizia, processo per direttissima (come fanno a New York) e condanna al lavoro di ripulitura immediata dei quadri o del monumenti sporcati. E, non una ramanzina retorico-moralistica, ma un corso di Etica generale e speciale sul rispetto degli altri e del mondo che NON possediamo individualmente, a cura di un filosofo pratico. Io lo terrei, come si dice tra il popolo, anche agratis. E so che anche diversi colleghi e colleghe dell’Associazione Nazionale per la Consulenza Filosofica, farebbero altrettanto.
Far pulire gli oggetti sporcati, finché brillino come opere michelangiolesche o canoviane appena uscite dallo studio di uno dei due geni, che amavano dare anche l’ultimo tocco ai loro capolavori.
Fu Stalin il loro primo mèntore, trovando seguaci in tutto il mondo occidentale, tra cattolici e laici, protestanti e a-tei. Furbo, volpino, Giuseppe Stalin, ovvero Iosif Vissarionovič Džugašvili (in russo: Ио́сиф Виссарио́нович Джугашви́ли), il Georgiano. Come Lavrentj Berija.
Stalin, il partigiano per la pace (figuriamoci!)
I nuovi furbi-ingenui- falsi pacifisti sono i Moni Ovadia, che scrive al presentatore Amadeus, chiedendogli di impedire la trasmissione di un video di Zelenski durante il prossimo festival di Sanremo, in compagnia di Salvini, Gasparri e qualche altro, trasversalmente ai partiti, l’oramai obsoleto prof (e de che?) Orsini, le Littizzetto, i Santoro, i Travaglio, i Conte, del giornalismo e dello spettacolo, e della politica come furbo avanspettacolo (senza offesa per il geniale modus theatralis popularis). Faccio notare che a Sanremo spesso la vita “vera” ha fatto una giusta intrusione tra lustrini e paillettes! Tutti costoro sono, obiettivamente, seguaci di Stalin, anche se non lo vogliono.
l ritratto più conciso e impietoso del pacifismo filorusso lo dobbiamo a Enzo Enriques Agnoletti: “Lo scopo di questa falsa offensiva di pace non è solamente quello di preparare una non-resistenza all’aggressione in quei paesi nei quali esistono le libertà individuali e collettive, e dunque di rendere possibile la guerra; essa tende anche a corrompere una delle più antiche e solide tradizioni del pensiero democratico. Essa mira infatti a distruggere la nostra convinzione che il pericolo di guerra provenga da quei governi i quali esercitano un potere assoluto e si sottraggono al controllo e alla vigilanza dell’opinione pubblica”.
La colomba della pace porta nel becco un invito neppure tanto mascherato alla resa ucraina, accompagnato dalla premessa menzognera – a volte esplicitata, altre volte taciuta – secondo cui il bellicismo è una tara delle democrazie occidentali, dell’imperialismo americano e, sotto sotto (neppur tanto), del capitalismo come negazione della libertà nella giustizia, che sono le vere premesse per una pace onesta.
Perché costoro non vanno ad abitare nella Russia putiniana se tanto gli piace?
Li definisco “orrendi” perché in loro si sintetizza tutto ciò che di falso e di fuorviante appartiene all’attuale trista stagione della disinformazione, comunque generata, o da ignorantia vulgaris, o da insipientia intellecti, oppure da deiectio animae. Brutti.
Sono come una deiezione logica del pensiero razionale, come ciò che esita dall’alimento animale e contribuisce alla fertilizzazione del campo da arare e seminare, ma velenoso. Sono brutti perché malvagi e impuri di cuore.
Come si fa a dire che il Presidente dell’Ucraina è solo un guitto che ha trovato la sua occasione della vita?
Si vergognino! Nel mio piccolo farò, finché avrò la forza per farlo, di tutto per smascherarli.
Il fatto citato nel titolo mi ha rammemorato un altro analogo, quando una ventina di anni fa l’assessore regionale alla sanità del Friuli Venezia Giulia (era Beltrame?), voleva togliere le dizioni di Santa Maria della Misericordia e di Santa Maria degli Angeli, rispettivamente ai due grandi ospedali civili di Udine e Pordenone, sostituendoli con la mera burocratica dizione di Azienda Sanitaria n. X e Azienda Sanitaria n. Y, più o meno per le medesime “ragioni” del caso registrato in Veneto in queste settimane di inizio 2023.
Ragioni motivate dalla supposta non-laicità di quelle dizioni.
Tra l’altro, quell’assessore era del PD, come alcuni dei ricorrenti veneti (aiutati dai “valorosi” 5S), partito, il PD, che ho già a volte votato e che forse, molto forse, voterò ancora (soprattutto se il nuovo segretario sarà Stefano Bonaccini e non la improbabile parvenù italo-germanica).
Il primo pensiero che mi ispirano queste iniziative è quello che attesta una madornale ignoranza culturale, storica e religiosa degli autori. Costoro non hanno idea di che cosa abbiano significato le raffigurazioni sacre nei vari tempi storici, fin dalle iconografie catacombali, se ci riferiamo anche solo alla tradizione cristiana.
Dai tempi degli xenodokeia dei primi secoli dopo Cristo, che erano ricoveri atti ad accogliere viandanti e poveri che si trovavano nottetempo per strada (xenodokeion significa, in greco, “casa, rifugio per lo straniero”), esposti alle intemperie e ai banditi, tutta la tradizione europea e cristiana ha visto svilupparsi un sistema che correlava le strutture religiose con il soccorso e l’aiuto alle persone, senza distinzioni di qualsiasi genere e specie.
I monasteri e le chiese, così come i castelli medievali (molto meno) erano luoghi di soccorso, dove le immagini sacre, che sono sempre state la “Bibbia del popolo” analfabeta, erano diffuse ovunque. Pensare a un’Italia e un’Europa senza chiese e senza campanili, a un’Italia e un’Europa senza musica sacra, a un’Italia e un’Europa senza la sua iconografia sacra sarebbe un’assurdità antistorica. Ebbene, questi politici veneti se ne rendono conto? Oggi i tempi sono cambiati, potrebbero dire, ma… ad esempio, sono al corrente di ciò che significa il concetto di laicità, in san Paolo e di ciò che si debba intendere con il termine làos, che significa popolo, in greco, e in san Paolo?
Conoscere bene questi termini, permette di discernere tra laicità e laicismo, laddove il primo termine è semplicemente la sostantivazione astratta del termine “popolo” (làos), mentre il secondo è il peggiorativo. La laicità è non solo legittima, nella distinzione tra dimensione del religioso e del civile, ma obbligatoria, doverosa, mentre il laicismo è una sorta di deformazione polemica e inutilmente militante.
Torniamo alla pittura di soggetti sacri o religiosi, come nel caso citato: se abbiamo paura della Sacra Famiglia in nome del politically correct, oltre ad essere una pura idiozia, non conosciamo nemmeno l’opinione di chi potrebbe essere (o non) disturbato da quelle immagini, come i musulmani.
Ebbene, proprio in Veneto, nel Trevigiano, alcune famiglie musulmane hanno mostrato di amare il presepe, quando una preside non voleva ammetterlo nell’istituto comprensivo da lei gestito, comunicando che la vicenda della nascita di Gesù apparteneva anche alla loro tradizione. Così come il sistema delle Caritas non si ferma a un’attività intra-cattolica, ma è rivolta al mondo, come prevede il katà òlon, che vuol dire secondo-il-tutto, la cattolicità nel senso etimologico più profondo e vero, che perfino Fidel Castro capì molto bene, perché Gesù di Nazaret e l’Evangelo di lui appartiene a tutti, ed è fonte di ogni dottrina umanitaria.
Nel Corano, Maria di Nazaret è la donna (tra tutte le donne) più citata, specialmente nella sura 4. La leggano i detrattori della Sacra Famiglia del PD e dei 5Stelle!
Forse potrebbero imparare qualcosa di utile per sé stessi, e anche per la loro attività politica.
MMD è sotto chiave. E adesso? Chi gli ha consentito di stare trent’anni in latitanza, visto che, se si vuole vivere un po’, si deve essere visibili, in qualche modo, almeno per qualcuno, a meno che non si trascorra il tempo in una grotta in mezzo ai boschi o in un luogo remotissimo di caccia pesca e raccolta, come i primi sapiens?
Non mi è piaciuta Meloni che è schizzata a Palermo come una furia per congratularsi con il comandante dell’Arma. Avrebbe potuto farlo il giorno dopo con il Presidente Mattarella alla riunione del Supremo Consiglio per la sicurezza. Mal consigliata o ansia da prestazione da insicurezza? Lei ripete sempre che ha paura di deludere chi si è fidato di lei. Cara Presidente, nessuno le garantirà mai di non deludere qualcuno: operando si sbaglia, è una regola aurea, conosciuta, forse, anche dai citati sapiens primitivi.
Le domande dei giornalisti, cronisti e da studio, come al solito, in generale, fanno pena. Il colonnello comandante dei ROS, alla domanda inopportuna (e stupida) su quanti militari fossero impegnati nell’operazione, ha risposto con garbo e precisione, evitando con eleganza di dare numeri. Ma come si fa, benedetto Iddio, a fare una domanda del genere? Ecché, forse vi può essere una risposta? Me lo chiedo e mi confermo nell’idea e nel giudizio circa la povertà culturale e professionale di questa categoria, aumentata negli ultimi decenni. Altra domanda inopportuna quella fatta all’oncologo che ha in cura quell’uomo nel carcere de L’Aquila: “Si dice (chi lo dice? ndr) che è curato in un modo privilegiato rispetto ad altri detenuti con patologie…”. Risposta: “No, si applica il protocollo per questo tipo di malattie“.
Come si fa a dire, a scrivere, o anche solo a pensare, che la mafia Cosa Nostra sia finita con questo arresto? sarebbe quasi come dire che finisce il genere umano. La mafia, così come la n’drangheta, la camorra e ogni altra organizzazione criminale è una delle manifestazioni del male nell’uomo. perché il Male è nell’Uomo. Insito, incistato, connaturale. Materialisti come Peter Berger, e altri, potrebbero dire che il male fa parte della struttura biologica elettrochimica del cervello umano, sulle orme estreme di Spinoza. Se ciò fosse del tutto vero verrebbe annullata la plausibilità del Diritto penale fin dai tempi del Codice di Hammurabi e del Decalogo biblico di Esodo e Deuteronomio.
E dunque è impossibile sconfiggerla? Finirla? Certamente, con le sole forze di polizia e della magistratura, sì. Ne sono convinto. Non basta scoprire e reprimere i reati e i loro autori, perché i reati sono peccati morali che nascono nel cuore dell’uomo. Nella mente, nell’intelletto agente, direbbe Tommaso d’Aquino. Il diritto classico prevede, in un brocardo o latinismo giuridico il principio di innocenza (o di colpevolezza) oltre ogni ragionevole dubbio, con la dizione in dubio pro reo: nel dubbio, piuttosto di condannare un innocente, è preferibile non contenere in carcere un colpevole.
MMD, con ironia, pare abbia detto qualche ora dopo l’arresto: “Fino a stamattina ero un incensurato”, poiché, a differenza dei due stranominati (e stramaledetti) predecessori Riina e Provenzano, non era mai stato ristretto nelle patrie galere, pur avendo già subito l’irrogazione di numerose condanne all’ergastolo (ostativo per definizione e da art. 41 bis). L’uomo, che si è vantato di tanti omicidi a da riempire di morti un cimitero, un serial killer razionale e perfettamente in sé, è un uomo comune. Intelligente, forse (anzi senza “forse”) anche garbato, gentile con i suoi carcerieri, capace di stare al mondo, amante delle cose di valore, che si è potuto permettere con i suoi crimini. Questo pare essere MMD.
La mafia, come altre strutture criminali analoghe, vive dentro un dato contesto sociale e culturale. La mafia vive e prospera per scelte di persone concrete, di giri solidali, di famiglie di esseri umani. Si tratta di persone che ritengono di essere speciali dentro un ambiente dove alcuni possono permettersi di esserlo, a differenza della maggioranza degli altri esseri umani, che “non capiscono”, oppure “non meritano”, oppure… niente: l’importante è che non si oppongano, che ubbidiscano, che stiano da parte. Altrimenti… sono morti. Perché il mafioso si sente speciale, diverso, addirittura virtuoso di una sorta di virilità particolare.
Anche in questo caso funziona un meccanismo psicologico e spirituale siffatto: superbia, presunzione, vanagloria, prepotenza, protervia, crudeltà. Costoro non hanno alba di morale comune, o meglio hanno una morale fondata sulla convinzione che vi siano persone con i loro diritti e quasi non-persone, inferiori, che devono limitarsi a no-opporsi. Queste seconde possono essere eliminate senza grandi preoccupazioni, come ostacoli sulla strada dei veri uomini. Omuncoli, ominiccoli, omarelli. Personalmente conosco non poche persone che, se messe-in-situazione, si comporterebbero come i sodali dei mafiosi, come l’autista di MMD, nel senso che di fronte a una leadership carismatica sono per sempre proni. L’uomo è fatto anche così.
Per i mafiosi ciò che è vizio diventa virtù e ciò che è virtuoso è indegno della loro grandezza. Si ricordino gli occhi protervi di Riina durante il processo: le parole negavano ogni responsabilità, ma il suo sguardo uccideva. Il male è nell’uomo. Nell’uomo comune di quella cultura e, purtroppo, anche di altre.
Non conoscono NIetzsche, ma se lo conoscessero ne volgarizzerebbero il concetto di volontà di potenza, e di Schopenhauer l’esigenza di esaltare la volontà erga omnes.
Oggi magistrati, media ed esperti parlano di borghesia mafiosa, opportunamente, sulla linea di una tradizione assai lunga, storica. La mafia e la camorra sono nate nei secoli passati, e sono cambiate nel tempo, ma il sostrato culturale e sociale è rimasto quasi sempre quello che era. E anche il sostrato valoriale (si fa per dire), pure nelle modificazioni sociologiche e territoriali registrate.
Su quest’ultimo aspetto certamente negli ultimi decenni qualcosa si è mosso, in positivo, soprattutto tra i giovani, mentre nelle generazioni più attempate resta ancora un velo di omertosi silenzi. Basti osservare come rispondono i castelvetranesi più in età, dopo la cattura di MMD.
La scuola deve inserire momenti, modi e moduli formativi, prima ancora che a una cittadinanza sensibile ai valori etici umanistici à la don Ciotti, che non sono in grado di smuovere la pavida rassegnazione dei più (finora, almeno), di carattere filosofico, che diano gli strumenti intellettuali e conoscitivi agli allievi/e per approfondire il tema dell’uomo, della convivenza, della giustizia sociale, dell’equità nella distribuzione del lavoro e delle risorse, dell’equilibrio tra diritti e doveri (sono nauseato nell’ascoltare, dal Meridione, sempre i soliti lai quando accadono disgrazie, un “siamo stati lasciati soli” oramai per me inascoltabile, e datevi una mossa, perdio! come i Friulani dopo le alluvioni e i terremoti!).
Nel contesto temporale di questo arresto esplodono le polemiche sulle intercettazioni telefoniche, su cui la voce e le parole equilibrate del Ministro Nordio vengono travisate e mal riportate.
La lotta alla criminalità organizzata e alle mafie non si fa solo con le polizie e la magistratura, ma con la cultura che pazientemente va fatta crescere con l’impegno dello Stato e di insegnanti motivati e pagati il giusto.
Piccoli MMD non nasceranno e non cresceranno più solo se si opererà di concerto con la cultura, l’educazione civica, e certamente anche con la repressione e le sanzioni, unite a una corretta informazione sociale e mediatica.
Se chiedessi a qualche mio lettore se si ricorda dei bambini rimasti mutilati in scoppi di bombe rimaste inesplose, o se il nome di don Carlo Gnocchi gli dice qualcosa, penso che forse solo qualcuno di una certa età potrebbe averne un’idea.
Possiedo, per ragioni familiari, una documentazione concernente uno degli istituti nei quali molti bimbi mutilati dallo scoppio di bombe e granate esplose durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, e anche una testimonianza diretta di chi operò in quell’istituto come operatrice assistenziale dei piccoli ospiti. Anni fa ho anche avuto modo di partecipare personalmente al ricordo annuale che si tiene nella sede storica di quell’istituto, a Buttrio, in Friuli, e li ho visti, quei bambini e bambine, diventati grandi, con i segni immodificabili della loro disgrazia, sui volti e negli arti.
Riporto di seguito un testo biografico commovente, come se fosse stato scritto (ed è stato scritto) dal “mutilatino” Ovidio Morgagni da Forlì:
“Sono Ovidio, ho tre anni e abito a Forlì con il mio babbo Giacomo e la mia giovanissima mamma Rosina, che ha compito da poco 22 anni. Sono un bimbo vispo e molto curioso. Qui a Forlì in questi giorni c’è il passaggio del fronte. Sulla riva del fiume Ronco i soldati tedeschi cercano di contrastare l’avanzata delle forze di liberazione che sono allineate dalla parte opposta. E’ da più di una settimana che dura il duello fra le opposte artiglierie; continue e ripetute sono le incursioni degli aerei sulla città. Il mio babbo ha deciso di trasferire la nostra famiglia in un posto più sicuro, nella frazione di S. Tomè, nel nostro podere di campagna dove ospitiamo altri 20 sfollati.
In mezzo a due case coloniche è stato ricavato un piccolo rifugio. Oggi 7 novembre 1944 è una bella giornata di sole. Sono le ore 13 inizia a suonare la sirena che avvisa dell’arrivo degli aerei, un suono cui ormai siamo abituati. Il babbo e la mamma mi chiamano a gran voce per portarci al riparo nel rifugio poco distante.
Improvvisamente all’orizzonte vediamo avanzare una formazione di 22 bombardieri che iniziano a sganciare bombe per snidare la batteria contraerea tedesca poco distante. La mamma mi prende in braccio, mi tiene la testa stretta al suo collo e con le mani cerca di proteggermi. Siamo a pochi metri dal rifugio, sento il cuore che batte forte ma non c’è più tempo. Il rumore assordante dei proiettili che lasciano una scia come code di cometa nel cielo, l’odore acre della polvere da sparo e poi torna un silenzio irreale. Intravvedo, in mezzo al fumo che si alza, il mio babbo con il volto rivolto verso terra vicino ad altri sei caduti. Io sono ancora abbracciato alla mia mamma che con il suo corpo mi ha protetto. Lei colpita alla schiena, esanime in mezzo alla polvere della strada non respira più. Una scheggia ha colto la mia mano che tenevo sulla sua schiena. Ho dolore e vedo uscire il sangue e piango. Gli aerei si sono allontanati. Accorrono persone e le sento esclamare il nostro nome.
Mi portano all’ospedale di Forlì, con la mano avvolta in un panno bianco. Arrivano altri feriti e poi altri ancora. Gli infermieri si affrettano a portarli al sicuro nei lunghi corridoi sotterranei dell’Ospedale dove sono anch’io, seduto su una sedia, in attesa che qualcuno si accorga della mia presenza. Arriva sera, ho dei brividi di freddo per la febbre che sale, una suora vestita di bianco mi avvolge in una coperta di lana color marrone e mi porta una tazza di latte caldo.
Ci sono feriti più gravi di me da curare, io ho solo una mano dilaniata da quella maledetta scheggia arrivata dal cielo.
Sono trascorsi due giorni finalmente arriva il mio turno. Il dottore che mi visita si accorge che la ferita è degenerata in cancrena. Mi portano in sala operatoria, non c’è tempo da perdere, occorre procedere all’amputazione del braccio per salvarmi almeno la vita.
Camillo, un vicino di casa, mi riconosce qui in ospedale e si incarica di avvisare i miei parenti che abitano nella campagna ravennate. Gli zii e i cugini partono immediatamente per prendersi cura di me, unico rimasto vivo della mia famiglia.
Sono le due del pomeriggio, la strada che da Ravenna porta a Forlì in questo momento è quasi deserta, il calesse corre veloce. Manca poco all’arrivo quando il cavallo calpesta una delle tante mine disseminate sulle strade dai tedeschi in ritirata. L’onda d’urto, l’assordante rumore della deflagrazione e i frammenti metallici investono i miei zii e cugini. Vengono tutti colpiti a morte, non si salva nessuno, neppure il cavallo con il calesse rovesciato nel fosso.
Ora sono rimasto proprio solo, abbandonato in una corsia di ospedale che, ironia della sorte, porta il mio stesso cognome: “Ospedale Morgagni”.
Mia zia con tre figli e il marito disoccupato non può occuparsi a lungo anche di me. Vengono interpellati diversi enti che si occupano di assistenza ai bimbi orfani e mutilati. Qualche anno dopo l’ONIG e l’ANVCG si prendono cura di me e mi trovano un posto dove posso crescere e studiare: il Collegio Friulano per i fanciulli mutilati di Buttrio di Udine. Qui sono il più piccolo e spesso una dipendente del collegio che si chiama Maria, quando mi vede piangere, viene a consolarmi. La domenica è un giorno di gran festa perché a pranzo c’è anche il dolce e al pomeriggio scendiamo dal colle di Buttrio per recarci al cinema parrocchiale giù in paese. Rimango nel collegio per 8 anni fino al 1956.
Ora, dopo tanti anni di lavoro negli Uffici della Provincia, sono qui nel mio appartamento, ho in mano l’album fotografico, lo sfoglio adagio, rivivo tutta la mia vita in quelle foto sbiadite dal tempo mentre la radio trasmette le notizie di guerra in Ucraina. Questa mattina i soldati russi hanno aperto il fuoco e crivellato di colpi un’auto civile con bandiere bianche e la scritta “bambini” uccidendo tutti i componenti di una famiglia in fuga dal loro villaggio.
In questo pezzo mi occuperò di un famoso intellettuale italiano che non è più a questo mondo, il celebratissimo Umberto Eco, che in una famosa intervista di Rai Storia sento pronunziare kàiros, invece di kairòs cioè, in greco antico, “tempo opportuno” o “tempo spirituale”, in contrapposizione a krònos, che è il tempo fisico, cronologico, appunto. Accentazioni e termini consueti a chi frequenta assiduamente la filosofia. Accenti sbagliati da parte del professor Eco.
Tutti possono sbagliare? Certo, ma è meno plausibile che un filosofo o un matematico o un fisico errino usando termini che fanno parte strutturale del loro sapere e dei loro specifici linguaggio e lessico o, come si usa dire, dello statuto epistemologico della scienza alla quale afferiscono e di cui si occupano. E’ per questo che mi ha un po’ “scandalizzato” sentire Eco sbagliare l’accento di kairòs.
Lui è stato il semiologo semiotico del secolo scorso per eccellenza accademica e scrittoria. E notoria. Ed è stato romanziere di successo. Però, nella stessa intervista citata, lo ho sentito anche…
semiotica e semiologia
…dire acquoreo invece di equoreo, che vuol dire delle acque, del mare… dal latino;
…dare dell’imbecille a una persona che gli chiede se abbia scritto “Il nome della rosa” con il computer, pur avendo lui iniziato a scrivere il romanzo nel 1976, quando non c’erano i pc a disposizione. Mi pare che non occorra offendere chi fa una domanda mal posta, basta rispondere “no, allora non avevamo a disposizione il computer“, vero?
…definire “cattedrale” la Basilica di san Pietro. San Pietro non è propriamente una “cattedrale”, perché la cattedrale di Roma, dove risiede ufficialmente il Vescovo di Roma, è costituita canonicamente in San Giovanni in Laterano, mentre la Basilica di San Pietro, in Vaticano, ha giurisdizione formale e teologica sul katà òlon, cioè sulla cattolicità e sul mondo. Ne fa testo la classica benedizione “Urbi et Orbi”, cioè alla Città e al Mondo, che il Papa impartisce dal Palazzo apostolico;
…affermare in una intervista degli anni ’80 a Rai Storia che “il Medioevo non esiste“, perché sarebbe una convenzione storicistica, facendo esempi assurdi, come il dire che tutti i tempi sono stati “medioevo” rispetto agli evi precedenti e successivi. Se si insegnasse la storia in questo modo alle scuole medie e superiori sarebbe un disastro;
…definire banali coloro che si identificano con i personaggi delle storie raccontate. E studiare un po’ di psicologia generale, signor professor Eco? Nessun essere umano è banale, e tutti sono pari in dignità, anche se pochissimi arrivano al Premio Nobel;
…definire “banale meccanica” la gestazione umana, mentre invece la “gestazione di un libro” sarebbe molto più creativa (sempre nella citata intervista).
Mi pare che Eco non sia né un immenso filosofo, né un immenso intellettuale, ma un buon scrittore di thriller, molto inferiore a uno Stephen King, che ha scritto almeno dieci romanzi del livello de Il nome della rosa.
Mi dispiace di non poter più parlare con quest’uomo.
Qualche parola sulla semiologia, che è uno studio del segno, mentre la semiotica studia l’importanza dei linguaggi verbali e non-verbali. Si tratta di un sapere che ha assunto – solo molto recentemente – uno statuto epistemologico nel senso accademico moderno.
La storia recente di questa scienza può essere fatta risalire agli studi di de Saussure (sémiologie – Semiotik), ovvero, in inglese semiotics. Oggi “Semiotica” è stato adottato ufficialmente dalla International Association for Semiotic Studies e si è andato via via imponendo nel corso dell’ultimo decennio, senza tuttavia soppiantare completamente “semiologia”.
Ampliando lo sguardo, alcuni, come Ducrot e Todorov, sostengono che esista una “semiotica implicita” nella cultura intellettuale dell’antica Cina e dell’India, così come si attesta una semiotica implicita nella tradizione del pensiero greco, soprattutto nell’ambito del pensiero stoico. Già a quei tempi si riteneva che una specie di semiotica si potesse applicare anche al linguaggio non verbale.
Nel contesto della cultura antica e medievale, la teoria dei segni può essere anche definita come “teoria della rappresentanza”, come nomenclatura degli oggetti. Più tardi, in John Locke per esempio anche le “idee” come “segni delle cose”, e i “segni” propriamente detti come “segni delle idee”. fino alle teorie contemporanee degli studiosi di semiotica come Frege, Wittgenstein, Tarski e Carnap.
Per chi vuole studiare questa disciplina, può essere interessante un semiotico moderno, Charles Morris, che ha disegnato in appendice a Signs, Language and Behavior (1946) la storia della semiotica dall’antichità a oggi.
Circa la natura e la struttura di segni e immagini, oltre alla semiotica dobbiamo tenere in considerazione anche altre discipline come la teoria della conoscenza, la logica, la retorica, la teoria della percezione, le teorie delle arti, etc., tenendo comunque in conto che una vera e propria semiotica – come disciplina organica, sistematica e specialistica – si costituisce in modo rilevante solo a partire dalla seconda metà del secolo XIX, e che i primi riferimenti a una teoria dei segni come scienza autonoma e generale si trovano solo a partire dai secc. XVII e XVIII, con Francis Bacon, Thomas Hobbes, John Locke e Gottfried Leibniz.
In definitiva, la semiotica può dirsi una scienza che si trova nell’intersezione tra la logica filosofica e la linguistica strutturale, e richiede il contributo, come ormai molti saperi contemporanei, di più discipline che lavorano in concerto, non in concorrenza, ma sempre al fine condiviso di aumentare la conoscenza dell’uomo e delle “cose” che l’uomo definisce, a partire dagli animali, fin dai tempi del comandamento genesiaco (Genesi 2, 18-20).
Sinceramente non mi aspettavo da questo abile giornalista una defaillance così grave e altrettanto ridicola.
Giovanni Verga
Apprendiamo che il Ministro, a una convenzione del suo partito, Fratelli d’Italia, ha affermato che Dante Alighieri è il “padre” della lingua italiana e anche della Patria. Fin qui nulla di che. Siamo più o meno d’accordo tutti, uomini e donne pensanti e variamente studiosi.
Subito dopo, però, citando un libro che gli è stato regalato, il cui titolo e autore non abbiamo sentito specificare, afferma che “tutti” gli scrittori (non si capisce se si riferisca solo agli italiani o anche a tutti gli scrittori del mondo) “sono (non dice “sarebbero”: eventualmente, con il modo condizionale, avrebbe potuto smorzare un’affermazione così perentoria) di destra“.
L’affermazione ministeriale, oltre ad essere temeraria, è facilmente e altrettanto radicalmente criticabile sotto tre profili almeno: quello storico-politico, quello filosofico-teologico e quello letterario.
IL PROFILO STORICO-POLITICO
Circa il profilo storico, definire Dante come “uomo di destra” è innanzitutto un anacronismo che può comprendere, forse, anche uno studente di terza media di trent’anni fa, e oggi (forse) un liceale. Infatti, la dizione destra/ sinistra si deve far risalire alla Rivoluzione Francese (1789 – anni seguenti e conseguenze più generali): nell’emiciclo della Convenzione repubblicana le varie posizioni politiche si erano collocate in modo chiaramente distinguibile tra chi era più moderato, magari ancora monarchico, e chi invece si riteneva chiaramente repubblicano, democratico e anche proto-socialista. I Vandeani a destra e poi, gradatamente spostandoci, trovavamo le varie fazioni Giacobine, da quelle più moderate di Danton, a quelle più estreme di Robespierre e di Saint-Just. All’estrema sinistra stavano i cosiddetti Montagnardi, paragonabili alla Nuova Sinistra italiana degli anni ’70 del ‘900. Una sorta di Spartachisti o di Zeloti della Rivoluzione.
Negli anni, nei decenni e nei due secoli successivi, la dizione destra/ sinistra prese piede praticamente in tutti i Parlamenti del mondo, da quello più antico, che è la Camera dei Comuni inglese, a quello tunisino della Rivoluzione dei ciclamini del 2011.
Venendo a Dante, se anche volessimo fare una comparazione gadameriana (cioè ispirati dal filosofo Hans Georg Gadamer, che significa metterci nei panni dei suoi contemporanei con la mentalità e le nozioni nostre attuali), non potremmo – onestamente – definirlo “di destra”. Dante Alighieri è stato un uomo politico fiorentino in pieno Medioevo, ai tempi delle aspre lotte fra Papato e Imperatore del Sacro Romano Impero, e anche un buon cattolico, rispettoso della Chiesa, della Tradizione cattolica e del papato romano. Non dimentichiamo che svolse severi studi teologico-filosofici, sia presso i Padri Domenicani di Santa Maria Novella, sia presso i Padri Francescani di Santa Croce.
Epperò, in tutta la sua vita, fino ad essere condannato a morte in contumacia dagli avversari politici di Firenze, lottò, sia con la scrittura (si legga il De Monarchia), sia con l’attività politica, affinché il potere religioso-papale fosse distinto e distante dal potere politico. Pur essendo un “Guelfo” (vale a dire un cattolico militante), Dante sostenne con chiarezza che il Papa avrebbe dovuto occuparsi delle “cose spirituali”, non di quelle “terrene”. E pagò duramente, fino alla sua morte in esilio a Ravenna.
Continuiamo pure sulla dizione sangiulianesca: se volessimo oggi dare una patente politica al Poeta, dovremmo cercare piuttosto una comparazione verso il “centro politico cristiano/ laico”. Dante avrebbe potuto essere un democristiano moroteo, o un repubblicano lamalfiano, e perfino un socialdemocratico saragattiano, che è la stessa appartenenza che attribuirei a Tommaso d’Aquino.
IL PROFILO FILOSOFICO-TEOLOGICO
Sotto questo profilo, è assurdo dare del “destro” a Dante, poiché la sua visione etico politica era improntata in maniera fortissima all’Etica aristotelico-tommasiana, che sosteneva con chiarezza come i sovrani, o comunque i detentori del potere, non potessero fare-cio-che-volevano senza controlli di leggi o di assemblee, certamente non come quelle democratiche attuali, ma sempre in grado di contemperare i vari diritti e doveri, coniugando i poteri con le esigenze del popolo. Dante, come amministratore fiorentino, ebbe molto a cuore le esigenze del popolo, degli artigiani e delle varie categorie sociali, senza mai mettersi prono davanti al potere del tempo.
Anche sotto il profilo dell’etica della vita umana, Dante sosteneva l’esigenza di leggi rispettose della persona, a qualsiasi classe appartenesse, nel rispetto delle leggi e dei costumi del tempo, senza mostrarsi mai bigotto o estremista.
Come si fa, pertanto, a dire che Dante fu l’alfiere della “destra”, quando la destra, storicamente, in Italia e altrove, è non solo costituita da persone maturate come Meloni, ma anche da Hitler, da Mussolini, da Franco, da Salazar, e oggi da Putin e dai governanti di certe nazioni islamiche, che ai tempi del nazismo ad esso erano addirittura alleati?
IL PROFILO POETICO-LETTERARIO
Chiedo, digrazia, al signor Ministro: dove sta il destrismo di Dante? Nell’etica che traspare dal sistema di premi e punizioni presente nel gigantesco affresco della Commedia? E’ forse di destra giudicare “politicamente” le scelte dantesche sulla collocazione all’Inferno, nel Purgatorio e in Paradiso degli innumerevoli personaggi da lui citati e ivi collocati?
Tra i moltissimi esempi che si potrebbero fare, ne scelgo uno, presente nel Canto V dell’Inferno, la storia di Paolo e Francesca. Dove sta la cultura di destra in un episodio che contiene, invece, oltre all’altissima poeticità del canto d’amore, la forza tremenda della tragedia umana che si consuma nell’ambito dei costumi del tempo… e infine, è di destra l’immensa pietas che il Poeta fa trasparire nel racconto? Cosa c’entrano la destra e la sinistra con gli umani sentimenti?
Pertanto, “dare del destro” a Dante è, non solo anacronistico, falso e inappropriato, ma perfin ridicolo. Stupido.
Un solo cenno sull’affermazione ministeriale che riguarda gli scrittori che, secondo Sangiuliano, sarebbero tutti di destra. Ferma restando l’analisi storico-politica, che spiega l’anacronismo generale di tale affermazione, potrei fare un elenco sconfinato di scrittori e letterati che di destra non sono, restando, ovviamente nell’ambito degli ultimi due secoli. Vogliamo provare? Sono forse di destra Alessandro Manzoni (che era un possidente cattolico democratico-liberale), Giacomo Leopardi (che era un nobile apertissimo alle novità scientifiche e politiche), Charles Baudelaire, Victor Hugo, Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Honorè de Balzac, Charles Dickens, Emile Zola, Gustave Flaubert, Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Boris Parternak, Osip Mandel’stam (che erano antistalinisti, ma non di destra), Leone Tolstoj, Cesare Pavese, Italo Calvino, Alberto Moravia, Elio Vittorini, Gunther Grass, per tacere di centinaia di altri. E anche se volessimo individuare “scrittori (ritenuti) di destra”, potremmo citare Dostoevskij, che però non era di destra, ma era un cristiano russo dell’Ottocento, Giovanni Verga, che però scrisse degli “ultimi”, con efficacia ineguagliata, o Gabriele D’Annunzio, il cui “essere-di-destra” era di un tipo radicalmente diverso dal mussolinismo che lo sopportò, temendolo non poco. E magari anche Solgentsin, la cui “destra” non è mai stata fascista, ma teologico-nazionalista.
Mi auguro che Sangiuliano “si spieghi” e, se lo ritiene opportuno, “si corregga”, perché – da Ministro della Repubblica (e docente universitario) – ha fatto una figura pessima.
L’enorme sagoma di Gigio Donnarumma stava spostandosi ciondolon ciondoloni dalla porta per aspettare un altro tiro, dopo aver parato il calcio di rigore di Sakà (che disperato se ne andava con la sua faccia da bimbo), senza accorgersi che la sua Italia, con quella parata sul ragazzetto nero aveva vinto il Campionato Europeo di football 2020, giocato nel 2021 a causa del Covid.
Vincere l’Europeo di calcio è forse più difficile che vincere il Mondiale, perché in Europa c’è l’80% delle squadre nazionali più forti del mondo. In Sudamerica vi sono le due grandi Nazionali di Brasile (5 mondiali e diverse Copas Libertadores, il campionato sudamericano) e Argentina (3 mondiali e diverse Copas Libertadores), e forse sono da considerare competitive (e non sempre) anche il Cile (vincitore di 2 Copas Libertadores) e la Colombia, ma in Europa abbiamo: Germania (4 mondiali e 3 europei), Italia (4 mondiali e 2 europei), Francia (2 mondiali e 2 europei), Inghilterra (1 mondiale), Spagna (1 mondiale e 3 europei), Croazia, Serbia, Portogallo (1 europeo), Belgio, Olanda (1 europeo), Danimarca (1 europeo) e un tempo tra più forti c’erano anche l’Unione Sovietica, 1 europeo, la Cecoslovacchia, 2 finali mondiali, l’Ungheria, e la Jugoslavia, che oggi, divisa tra Serbia, Croazia, Slovenia, etc., può schierare due o tre nazionali di livello molto alto!… ognuna delle quali ha lo stigma del vincente (un po’ meno Inghilterra, Belgio e le nazionali dell’Europa orientale) quantomeno a livello potenziale.
Vialli, che aveva dato la schiena al gioco, si era ai calci di rigore dopo una partita molto equilibrata contro la perfida Albione, come chiamava l’Inghilterra Gabriele D’Annunzio, per scaramanzia, sentendo l’urlo dei nostri, si è girato e si è lanciato verso Roberto Mancini in un abbraccio infinito, mentre Harry Kane e compagni non accettavano la medaglia d’argento. Gli Inglesi, abituati a vincere quasi tutte le guerre, come racconta la Storia, fanno fatica ad accettare sconfitte, anche se solo nel gioco sportivo!
Anche se il calcio è solo un gioco, quel momento, quell’abbraccio tra i due uomini, amici, compagni e coetanei, è stato forte, per tutti, un abbraccio vitale. Lui, Gianluca, aveva già da qualche anno un tumore cattivo. Io ne so qualcosa e chi mi conosce sa che lo so, e se so che il tumore non-è cattivo, ma è qualcosa che può dirsi oggettivamente presente e possibile nel solco della natura, in ragione o dell’ambiente o della genetica. Quell’abbraccio con il suo grande compagno di calcio, con il quale ha costituito una delle coppie di calciatori più “armoniose” della storia di questo sport così popolare, rimarrà negli annali delle storie sportive e nelle immagini che ciascuno si può portare dentro, come l’urlo di Tardelli dopo il goal alla Germania, quello decisivo, nei mondiali vinti dalla Nazionale italiana nel 1982 in Spagna. Immagine che solitamente associamo a quella del Presidente della Repubblica Sandro Pertini che urla a un sorridente Re Juan Carlos di Borbone “Non ci prendono più“, il Presidente Patriota, che poi gioca a scopone sull’aereo del ritorno, in coppia con Franco Causio, perdendo (ecco un altro, Pertini, che odiava perdere…) contro Dino Zoff e Enzo Bearzot, due friulani.
Il compagno di strada, indesiderato, il tumore.
Vialli Gianluca è stato un grande giocatore, forse non un fuoriclasse, dizione che riserviamo – anche restando solo in Italia – magari a Roberto Baggio e a Alessandro Del Piero, a Gianni Rivera e a Francesco Totti, a Giuseppe Meazza e a Valentino Mazzola, ma uno dei più bravi degli ultimi decenni. Con Mancini ha costituito una coppia di attaccanti così ben assortita che ha avuto pochi rivale, per eleganza ed efficacia. Mancini più dotato e più classico, Vialli più combattivo e finalizzatore.
Da sei anni Gianluca da Cremona, così riccioluto e dal simpatico volto da ragazzo alla Cremonese e alla Sampdoria, così virilmente espressivo da trentenne juventino e “inglese”, conviveva con un tumore al pancreas, definito dagli esperti “uno dei più cattivi”. Se può essere “cattivo” un tumore.
Non a caso fu apprezzato molto a Londra, dove il football, ancorché poco vincente a livello di Nazionale, è sport vissuto con grande lealtà e senso professionale. A me piacciono gli Inglesi come giocano a calcio, e anche il loro sistema di stadi, di organizzazione societaria e di pubblico. Certamente, questo mio giudizio vale da quando le normative statali hanno fatto terminare il triste fenomeno hooligan, che invece noi in Italia abbiamo ancora nella vergognosa declinazione razzistica dei “Buuh” verso i Balotelli, i Koulibaly e gli Umtiti.
La sua esperienza con l’ospite indesiderato è stata quella di un uomo forte, così come si mostrava in campo. E sempre auto-ironico, modus espressivo che non sempre mi appartiene. Io faccio fatica a scherzare. Quell’ospite era indesiderato. Io lo so bene, dato che sto vivendo un’esperienza che in qualche modo assomiglia alla sua.
Il mio ospite, cui la mia struttura fisica ha dato una “risposta completa”, perché così la chiamano gli ematologi, è altrettanto se non più subdolo del suo, perché è stato portato in giro per il mio corpo dal sangue, che va dappertutto. Poi, quando è stato scoperto, nascosto negli infiniti anfratti del liquido vitale, è stato attaccato da farmaci potenti e messo a tacere. E poi anche da una riserva del mio stesso sangue risanato, che ha ri-creato il mio sistema immunitario, chiudendo porte e finestre alla “bestia”. Finora. Ri-sanato e io come ri-nato. Il mio stesso nome che papà Pietro volle darmi, senza concordarlo con mamma Luigia.
Penso a Gianluca, più giovane di me, così simile (e ora così diversa) alla mia la sua esperienza. Non lo conoscevo, ma mi pare di avere capito che tipo era. Uno solido, non lamentoso, consapevole del suo valore sportivo e professionale, per il quale ha avuto i giusti riconoscimenti, uomo di non molte parole, e in questo è molto differente da me, che però faccio un altro mestiere, che richiede parole, possibilmente utili a me e soprattutto agli altri.
Non so se qualcuno ci riporterà le sue parole, agli ultimi. Sono sicuro che sono state degne di lui.
Sinceramente non mi aspettavo che questo intelligente prelato, mons. Georg Ganswein, neanche terminate le esequie di papa Benedetto XVI, abbia dato fuoco alle polveri di una polemica inutile e dannosa, che riguarda, da un lato la Santa messa in lingua latina, dall’altro il suo ruolo di Prefetto della Casa pontificia, venuto meno -a suo tempo -per volere del nuovo Papa.
E’ evidente che la “cosa” non è nata giovedì 5 Gennaio 2023, ma era latente da tempo e – simbolicamente – molto più profonda di quanto non appaia dalle narrazioni mediatiche, che raramente sono sorrette da un’informazione e da una conoscenza, non dico profonda, ma almeno sufficiente delle complicate questioni inerenti la Teologia cattolica, storica e attuale, la struttura e il funzionamento della Chiesa cattolica, e le tematiche concernenti le Liturgie, vale a dire i Riti e le modalità espressive del Cristianesimo cattolico, nella sua dimensione storica, organizzativa e “gestionale”.
il Cardinale guineano Robert Sarah
In questo pezzo non parlerò delle differenze teologiche tra i due papi, perché ciò richiederebbe un tempo e uno spazio (ed energie) che oggi non ho a disposizione, in ragione della loro complessità, ma prima di parlare dello spoil system, spendo alcune parole sui due temi sollevati da don Georg, quello liturgico e quello organizzativo.
Circa la Santa messa in latino, fu Paolo VI, a seguito delle decisioni assunte con il Concilio Ecumenico Vaticano II, ad ampliare le possibilità linguistiche nella celebrazione di questo Rito fondamentale e teologicamente rilevantissimo del Cristianesimo, soprattutto Cattolico e Ortodosso, perché nel mondo delle Riforme protestanti, salvo che nell’Anglicanesimo, rimasto molto simile al Cattolicesimo, non si può parlare propriamente di Messa, ma di Rito memoriale della cena del Signore, con l’avvio dell’utilizzo delle lingue nazionali e locali, senza proibire od escludere in via assoluta la lingua latina.
La decisione di papa Montini fu una scelta di carattere certamente teologico, con il riconoscimento del valore umano e culturale, ma soprattutto religioso e cristiano dei singoli idiomi umani inseriti nella storia dei popoli e caratterizzanti le varie culture, ma forse ancora di più pastorale, per avvicinare meglio e maggiormente le popolazioni, specialmente le più povere e disagiate alla Parola del Vangelo di Gesù, che è Gesù Cristo stesso.
Ricordo qui anche che la figura di Paolo VI, papa coltissimo e rispettoso della storia e della cultura umana (fu il primo papa a dialogare sistematicamente con gli artisti, seguito in questo da papa Benedetto XVI, ed istituendo la sezione contemporanea nei Musei vaticani, che invito il mio gentile lettore a visitare), era assolutamente aliena da ogni pensiero che escludesse la storicità, il valore liturgico, l’intensità semantica e la bellezza, a mio avviso, incomparabile della lingua latina dagli ambiti della Chiesa cattolica.
Bene, dalla metà degli anni ’60, le liturgie cattoliche si sono potute svolgere nelle singole lingue nazionali e locali. Che cosa fece su questo tema Benedetto XVI? Riprese a considerare la possibilità di un utilizzo liturgico del latino, senza nessun ritorno al passato, magari con la proibizione dell’utilizzo delle lingue nazionali. Papa Benedetto si limitò a ricordare che il latino aveva ancora piena cittadinanza nella Chiesa, e che quindi si sarebbe ancora potuto usare. E Francesco non smentì mai questa possibilità.
Non dimentichiamo che papa Benedetto era un Europeo a tutto tondo, con tutto ciò che tale appartenenza comporta, mentre invece Francesco è un Sudamericano, se pure di origine italiana, con una sensibilità culturale, quindi, molto diversa da quella del suo predecessore nel papato. Altro aspetto: Benedetto era un presbitero, per scelta di studi e per inclinazione dottrinale, “agostiniano”, con tutto l’enorme bagaglio teologico-filosofico che ciò comporta, mentre invece Francesco è totalmente un “gesuita”, con tutto l’enorme peso della politicità della lezione di sant’Ignazio de Loyola. Benedetto ha primariamente a cuore la Fede e la spiritualità, Francesco ha prima di tutto a cuore la Carità universale, che sono due termini teologici assolutamente non contrastanti, ma relati e reciprocamente necessari.
Si pensi che il termine Caritas è presente in tutte e due le principali Lettere encicliche di Benedetto XVI, nella prima, più teologica, Deus Caritas est, vale a dire “Dio è amore”, dall’espressione forse più famosa del Vangelo secondo Giovanni, e nella seconda, Caritas in Veritate, vale a dire “L’Amore nella Verità”, che si incentra sull’amore di Dio per l’uomo e sul collegamento necessario che tale amore esige, cioè che esista tra tutti gli uomini, come condizione per rendere Vero anche l’amore degli uomini per Dio stesso.
E vengo al tema organizzativo. Nel momento in cui Benedetto rinunziò al Ministero petrino e il Conclave elesse Jorge Mario Bergoglio papa, questi, chiamatosi “Francesco” per ragioni oramai molto note e comprese dai più, anche tra i non-credenti, trovò mons. Ganswein nella posizione di Prefetto della Casa pontificia, cioè supervisore del governo di tutto ciò che circonda il Papa dal punto di vista della vita pratica. Non dimentichiamo che Francesco scelse di non alloggiare negli appartamenti vaticani, che ospitano i papi da secoli, ma preferì l’alloggio più modesto nel monastero di Santa Marta. Benedetto e Francesco, da allora, vissero in due “case di preghiera” interne al Vaticano. Nel frattempo, don Georg continuava ad adempiere al ruolo di segretario particolare del Papa emerito.
E’ a questo punto che si verifica la separazione, perché Francesco non ha più ritenuto che il sacerdote tedesco dovesse mantenere anche il ruolo di Prefetto della Casa pontificia e ha scelto di congedarlo da quel ruolo.
Ora, si può ben capire che don Georg non prese benissimo la decisione papale, ma ovviamente obbedì, in silenzio, silenzio che ha ritenuto di rompere (a mio avviso inopportunamente per modalità e tempistiche) ora che Benedetto se ne è andato, esprimendo pubblicamente per iscritto sentimenti che tratteneva da tempo.
Due parole sullo spoil system, cioè sulla possibilità/ opportunità o perfino utilità/ necessità di cambiare i propri collaboratori più prossimi.
Posto che tutti, preti e laici, siamo esseri umani con i nostri pregi e difetti, non è assolutamente strano che Francesco abbia agito come ha agito con mons. Ganswein. Forse tale decisione sarà stata brusca e inaspettata, ma che fosse perfettamente legittima è fuori questione.
Lo spiego: in ogni struttura organizzativa, che richiede politiche gestionali, perché ivi sono coinvolte più persone operative, colui che ha le massime responsabilità, in quanto si trova obiettivamente nella posizione più elevata e difficile, della quale deve rispondere di fronte alla struttura e al mondo, ha bisogno di poter contare a occhi chiusi su chi gli sta più vicino, di avere una fiducia svincolata da ogni altro potere o autorità o carisma, che comunque, soprattutto per quanto attiene autorevolezza e carisma, restavano intatte nel Papa emerito, soprattutto nella percezione di don Georg.
Senz’altro Papa Francesco si è trovato in una situazione nella quale don Georg era e rimaneva l’uomo di fiducia di Joseph Ratzinger, il suo “servitore” (nel senso evangelico del termine) più fedele, che lo conosceva meglio di tutti. E ha deciso di cambiare.
Per esperienza in molti e complessi ambiti economici e aziendali e per ferma convinzione, nata nel tempo dalla mia constatazione che ogni tipo di potere alla lunga logora e fa peggiorare le persone, penso che tutti coloro che si trovano ai vertici di qualsiasi struttura, abbiamo il diritto di muoversi in questo modo, e che, anzi, ciò convenga anche a chi usufruisce del servizio, e nel caso, di ciò-che-è la struttura centrale della Chiesa cattolica, l’ambito delle funzioni del Vescovo di Roma, Primate d’Italia e Pastore della Chiesa universale.
Una specie di “seminario” del lunedì mattina, oramai da anni mi impegna piacevolmente con l’Amministratore delegato di una grande azienda, l’amico dottor G. (non è Giorgio Gaberschek!). Si parla certamente dell’Azienda stessa e delle consociate, ma anche di millanta altri temi, soprattutto di etica e di politica, siccome in quel posto di lavoro presiedo l’Organismo di vigilanza previsto da una legge dello Stato.
Osservando la fine di alcuni esimi personaggi, come il grande calciatore Pelé e Joseph Ratzinger, a fronte di personalità così rilevanti ci si è chiesti se l’ego di quelle persone sia stato importante per la loro affermazione personale. Abbiamo condiviso il sì, ma in un certo senso, perché non risulta che, né il grande campione brasiliano, né il teologo tedesco diventato papa fossero mai stati caratterizzati da notori comportamenti egocentrici o superbi, nonostante avessero raggiunto i massimi livelli nei loro rispettivi “campi”. Pelé è stato quasi l’opposto civile e morale di un Maradona, sempre esagerato e retorico-populista; Ratzinger è stato sempre mite e quasi dimesso, nei tratti del suo modo di essere e di porsi con gli altri. Di Messi non parlo, perché assai mediocre come tipo umano, mentre Cristiano da Madeira mi sarà utile per esemplificare un’ipertrofia dell’ego.
Si tratta del tema dell’ego, dunque, secondo Sigismondo Freud, che lo colloca in una triade che comprende il superego, ovvero la coscienza morale, e l‘id o es, vale a dire l’inconscio; dell’iosecondo René Descartes che ritiene di-essere-cosciente-di-essere-al-mondo e del mondo solamente-in-quanto-lo-pensa, e non in-quanto-esiste anche quando dorme o quando è privo di coscienza, quindi indipendentemente dalla sua (di Descartes) stessa esistenza; dell’io secondo Immanuel Kant, che caratterizza la conoscenza e la limita; dell’io secondo Friedrich Schelling etc., e dell’io secondo la filosofia classica di Giovanni Climaco, Giovanni Cassiano, Evagrio Pontico, Gregorio Magno, Agostino di Ippona.
Al fine di non scrivere un saggio tremendo e faticoso trattando di ciascuno dei pensatori sopra citati, prendo solo Schelling, il più romantico e soggettivista filosofo dell’Idealismo tedesco ottocentesco, che a me piace molto. Agli altri dedicherò qualche cenno.
Schelling ragiona in questo modo, andando oltre il suo contemporaneo Fichte: l’Io pone il non-Io, ovvero il soggetto (lo spirito) pone l’oggetto (la natura), attraverso un processo, di remota ascendenza neoplatonica, tutto interno all’Io, dal momento che fuori di esso non vi è ancora nulla.
Tuttavia, precisa Schelling, se la natura nasce dallo spirito, significa che la natura ha la stessa essenza dello spirito, ovvero essa è lo spirito stesso che si manifesta in modo diverso.
Per Schelling la natura è spirituale, esattamente come l’io-umano, di cui è prodotto. sottolineando che la natura è un prodotto dell’Io (la cui prerogativa è la spiritualità). Egli afferma che la natura altro non è che spirito pietrificato. La natura, è come una semiretta, il cui punto di partenza è l’Io che pone il non-Io, da cui parte con slancio infinito. La filosofia di Schelling è una Filosofia dello Spirito e della Natura: come in Fichte, vi è l’Io (spirito) che pone il non-Io (natura), verso cui infinitamente tende, fino alle tecno-scienze (mio arbitrario aggiornamento di Schelling, abbiate pazienza, e soprattutto tu, Giorgio, che sei di Schelling uno dei maggiori studiosi italiani). Il professor Giacometti è il mio successore alla Presidenza di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza FIlosofica.
Con l’Idealismo tedesco siamo alla manifestazione massima dell’Io filosofico, dopo di che inizia un periodo di riflessione su questo “io”, fino alla constatazione che la sua centralità può generare pericoli non da poco.
La sua esaltazione porta poi, nei cent’anni successivi alle esagerazioni di tutte le forme di egocentrismo, dal culto del capo, nei fascismi e nello stalinismo, nel dannunzianesimo, nel futurismo e in tutte le teorie e le prassi vitalistiche che hanno posto al centro di tutte le cose del mondo e delle vite individuali l’io umano, etc..
Per quanto riguarda gli autori classici sopra citati si può dire che si riferiscono alle antropologie platoniche e aristoteliche, che prevedono l’apprezzamento dell’io individuale come soggetto agente moralmente responsabile delle azioni libere. Tale visione è però “irrorata” del personalismo evangelico, assente nella filosofia greca, così come sviluppato dagli stessi Padri, e soprattutto da sant’Agostino.
…e dunque l’egoismo, l’egotismo, l’egocentrismo, e perfino l’egolatria, che è una sorta di adorazione dell’io, dell’ego.
Prima di parlare di questo ego, è bene ricordare i vizi connessi a queste modalità di sua “debordanza”: la vanagloria, l’orgogliospirituale e la superbia, che in modi differenti generano le deformazioni dell’io.
La vanaglòria s. f. [dalla locuzione latina vana gloria «vanteria vuota»]. – Sentimento di vanità, di fatuo orgoglio, per cui si ambisce la lode per meriti inesistenti o inadeguati; nella teologia morale cattolica è definita come l’immoderato desiderio di manifestare la propria superiorità e di ottenere le lodi degli uomini: peccare di vanagloria.
L’orgoglio è la stima, l’amore disordinato di se stesso, che porta la persona a disprezzare gli altri e attribuire a se stesso quello che è di Dio.
Nell’AnticoTestamento, la prima manifestazione dell’orgoglio umano appare nel tentativo dell’uomo di essere come Dio, presente nella Genesi, nel racconto del peccato originale (cf. Genesi 3,1-13) (cf. Dizionario biblico universale. Pg. 572)
La superbia è la pretesa di meritare per sé stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo.
E’ Caput vitiorum, inizio e fomite di tutti i vizi, poiché il superbo ritiene che, solamente a lui stesso, sia consentita ogni azione, indipendentemente dai riflessi che essa può avere sugli altri. Il superbo è anche presuntuoso e arrogante, e talvolta prepotente fino alla protervia e alla crudeltà. Non mancano una miriade di esempi nella storia umana.
Proviamo a chiederci se conosciamo qualcuno che mostri un ego debordante fino alla vanagloria, in qualsiasi settore della vita umana. Pensando al gioco del calcio, mi/ ci è venuto in mente, tra non pochi altri, Cristiano Ronaldo, che ora va a insegnare calcio in Arabia Saudita pagato cifre inaudite (per noi e la gente comune), ma da lui ritenute forse appena sufficienti per premiare il suo valore auto-percepito.
Il pensiero successivo venutoci è quello relativo al tempo che passa, che quel calciatore sembra non accettare… e subito dopo abbiamo pensato al
cimitèro (antico e poetico cimitèrio, anticamente ceme-tèr[i]o) sostantivo maschile [dal latino tardo coemeterium, greco κοιμητήριον (coimetèrion)«dormitorio, cimitero», derivato di κοιμάω (coimào)«mettere a giacere»]. – Luogo destinato alla […] sepoltura dei morti sia per inumazione sia per tumulazione (detto anche, quando indica i cimiteri dei cristiani, camposanto): i viali, le tombe, la cappella del cimitero; cimitero monumentale, con sepolture costituite in genere da cappelle e monumenti…
Mi pare che a questo punto sia utile un po’ di sano realismo aristotelico-tomista contro la vanagloria dell’io, che non crea il mondo, che esiste senza e nonostante l’io, come insegnano Martin Buber (ebreo austriaco) ed Emmanuel Lévinas (ebreo lituano di formazione francese), con le loro rispettive teorie dell’io e del tu, e del vòlto dell’Altro. L’io e il tu, e il volto dell’Altro sono state le immagini scelte dai due pensatori per sottolineare la fondamentale importanza della Relazione inter-soggettiva per la vita nell’umano consorzio in tutte le sue dimensioni.
Io esisto e sono certamente di-per-me, ma anche in-relazione, caro Cristiano da Madeira.
Altrimenti, se non realizzi questo, tu sarai solo il più ricco del cimitero dove un giorno (questo è sicuro) riposerai.
“Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino“. (Papa Benedetto XVI, con un breve discorso in latino, annunciò in questo modo la rinunzia al Ministero papale il 28 febbraio 2013.)
Parto da questa dichiarazione per parlare un po’ di Joseph Ratzinger, studioso e docente di Teologia tra i più importanti della contemporaneità, presbitero e vescovo, e infine pastore per otto anni, dal 2005 al 2013, della Chiesa universale: uso quest’ultimo aggettivo, perché dice perfettamente il senso e il significato etimologico dell’aggettivo “cattolica”.
Serve innanzitutto un po’ di storia ecclesiastica: prima di lui solo questi altri papi si sono “dimessi” (qui utilizzo un termine molto impreciso), o sono stati – più spesso – “licenziati”, anzi eliminati dal potere politico, a volte in situazione ambigue, se non estremamente negative:
papa Ponziano si dimise perché condannato ad metalla, cioè ai lavori forzati, nelle miniere in Sardegna da Massimino il Trace nel III secolo d. C.;
papa Silverio fu spogliato del suo abito episcopale nel 537 e condannato all’esilio nell’isola di Ponza;
agli inizi del 1045, papa Benedetto IX fu cacciato da Roma e sostituito da papa Silvestro III; quindi con l’aiuto della sua famiglia e dei Crescenzi il 10 aprile 1045 tornò papa per poi vendere, per 2000 librae, la dignità pontificale al presbitero Giovanni Graziano, suo padrino, che così divenne papa Gregorio VI; lo stesso, su pressioni dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III di Franconia, fu invitato a confessare l’acquisto finanziario del Papato e ad abdicare dopo appena un anno; siamo nel periodo nel quale il papato era oggetto di dispute (talora infami) tra i principi e i nobili romani e l’Imperatore germanico;
papa Celestino V, Pietro di Morrone, inesperto nella gestione amministrativa della Chiesa (era stato monaco per tutta la vita), rinunciò il 13 dicembre 1294 con una bolla, che si dice fosse stata redatta dal cardinale Benedetto Caetani, che gli succedette con il nome di papa Bonifacio VIII;
papa Gregorio XII, il 4 luglio 1415 rinunziò all’ufficio di Romano pontefice al fine di ratificare, per intervento dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo di Lussemburgo, con il Concilio di Costanza la fine dello Scisma Avignonese d’Occidente.
Ripeto e sottolineo: la rinunzia di papa Benedetto XVI è radicalmente e completamente diversa dalle “cessazioni” sopra riportate.
Le NORME CANONICHE
Il giurista Giovanni Bassiano sosteneva che la rinunzia fosse ammissibile in due casi: nel desiderio di dedicarsi esclusivamente alla vita contemplativa e nel caso di impedimenti fisici dovuti a malattia e a vecchiaia: «Posset papa ad religionem migrare aut egritudine vel senectute gravatus honori suo cedere», cioè “che il papa possa cambiare religione oppure possa cedere per malattie, invecchiamento e troppa responsabilità”.
Il canonista Uguccione da Pisa confermava le osservazioni di Bassiano precisando che la rinuncia non doveva comunque danneggiare la Chiesa e doveva essere pronunciata di fronte ai cardinali o a un concilio di vescovi.
Le Decretali di papa Gregorio IX, pubblicate nel Liber Extra del 1234, precisavano altre cause di rinuncia: oltre alla debilitazione fisica, veniva rintracciata l’inadeguatezza del papa per defectus scientiae, cioè per un’ignoranza teologica, nell’aver commesso delitti, nell’aver dato scandalo («quem mala plebs odit, dans scandala cedere possit», cioè “colui che il popolo udì dare scandalo”) e nell’irregolarità della sua elezione, ma si escludeva quale legittimo motivo di rinunzia il desiderio di condurre una vita religiosa, il cosiddetto zelum melioris vitae, cioè “zelo di una vita migliore”, già ritenuto ammissibile da altri canonisti.
Nell’immediatezza della rinuncia di papa Celestino V, altri interventi di canonisti, come il francescano Pietro di Giovanni Olivi, i teologi parigini della Sorbonne Magister Godefroid de Fontaines e Magister Pierre d’Auvergne, avallarono la decisione del papa abruzzese, mentre i cardinali nemici di Bonifacio VIII, Giacomo e Pietro Colonna, presentarono nel 1297 tre memoriali intesi a dimostrare l’illegittimità della rinuncia di Pietro da Morrone. Contro la rinuncia di Celestino si espressero anche Jacopone da Todi e Ubertino da Casale, che nel 1305 la giudicò una horrenda novitas, avendo favorito le successioni degli “anticristi” Bonifacio VIII e Benedetto XI.
Successivamente alla rinuncia di Celestino V, papa Bonifacio VIII emanò la Costituzione Quoniam aliqui, a eliminare ogni condizione ostativa e a stabilire l’assoluta libertà del pontefice in carica a rinunciare al papato, una norma recepita dal Codex Iuris Canonici del 1917, sotto papa Benedetto XV.
Il Codice di Diritto canonico, o Codex Iuris Canonici, del 1983, al Libro II “Il popolo di Dio”, parte seconda “La suprema autorità della Chiesa”, capitolo I “Il Romano Pontefice e il Collegio dei Vescovi”, contempla la rinuncia all’ufficio di romano pontefice.
Can. 332 § 2. Si contingat ut Romanus Pontifex muneri suo renuntiet, ad validitatem requiritur ut renuntiatio libere fiat et rite manifestetur, non vero ut a quopiam acceptetur.
«Can. 332 – §2. Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti.»
La BIOGRAFIA
Joseph Ratzinger nasce in un paesino bavarese sul fiume Inn nel 1927 in una famiglia modesta. Studia per diventare sacerdote, ma non si ferma, perché va avanti fino a un difficile e profondo Dottorato in Teologia sul concetto di Amore-Caritas-Agàpe in sant’Agostino. A un ufficiale nazista che gli chiede, lui giovanetto diciassettenne arruolato di forza nella guardia contraerea, che gli chiede che cosa vorrà fare da grande, alla sua risposta “Il prete“, ribatté “Non ci sarà posto per i preti nel nostro mondo“.
E’ professore, prima nel seminario di Frisinga e poi ordinario di Teologia sistematica e fondamentale a Bonn, a Tubingen e infine a Regensburg, Ratisbona. Lo sorprende la nomina a arcivescovo di Monaco e Frisinga da parte di papa Paolo VI e il cardinalato che gli conferisce, quasi contemporaneamente, lo stesso papa Paolo; dai primi anni ’80, papa Woytjla lo vuole alla testa della Congregazione per la Dottrina della fede, il ruolo che ispirò al quotidiano Il Manifesto, quando Ratzinger venne eletto papa dopo la morte di Giovanni Paolo II, una (impertinente) definizione, che potrebbe anche essere non dispiaciuta all’interessato, vista la sua affezione per gli animali domestici, e per i gatti in particolare: “Il Pastore Tedesco“. Ricordo che anch’io sorrisi, perché avevo letto di un uomo incline anche all’ironia, oltre che appassionato di musica classica e dei felini domestico-selvatici.
La TEOLOGIA
Il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo vede i teologi Karl Rahner e Joseph Ratzinger tra i principali protagonisti, assieme a papa Paolo VI. Appena trentacinquenne, Joseph Ratzinger accompagna il cardinale arcivescovo di Colonia Frings come teologo esperto, e lavora assiduamente nelle commissioni che redigono le due massime Costituzioni conciliari, la Lumen gentium, tematizzata su ciò che la Chiesa è, il Popolo di Dio (cf. art. 1) e la Gaudium et spes, per analizzare e dialogare con il mondo nuovo che già Giovanni XXIII aveva iniziato a comprendere.
Coloro che amano le semplificazioni e non amano la complessità, cioè i pigri, attribuiscono a questo periodo una posizione semplicisticamente progressista al giovane teologo, quasi a collocare sulla opposta polarità la teologia del Ratzinger cardinale custode della fede e poi del papa Benedetto.
Non è così, perché non può essere così. In realtà, Ratzinger ha mantenuto l’agostinismo fondamentale della sua formazione nella la centralità della Caritas, Amore di Dio per l’uomo, cui il Creatore dona ciò che gli permette di comprendere il creato e di adempiere al mandato su di esso. Ratzinger, in questo modo, colloca la teologia nella tradizione culturale dei suoi tempi, accogliendo in essa anche i lasciti “laici” delle riforme intellettuali e culturali date nel tempo, e che, sempre nel tempo, la Chiesa ha fatto proprie. L’allora cardinale non è estraneo, al contrario!, alle scelte e alle dichiarazioni del suo predecessore sugli errori della Chiesa nei confronti di Galileo e della filosofia successiva, pur mantenendo al centro, come solido baluardo intellettuale, la Tradizione del pensiero agostiniano e tommasiano.
Anche ciò che è stato l’evento di Ratisbona, quando (era il 2007) papa Benedetto ebbe ad esprimersi – in quella Università dove aveva insegnato – sotto un profilo teologico-storiografico sull’Islam, e citò una polemica tra l’imperatore d’Oriente Manuele II Paleologo e un teologo musulmano persiano sul profeta Mohamed e sulla tendenza autoritaria dell’islam. Allora fu una errata traduzione e trasmissione ai media della lectio papale a generare gravi polemiche con il mondo musulmano, che poi cessarono quando papa Benedetto approfondì il dialogo inter-religioso, parlando con il Gran Muftì di Istanbul e con il Rettore dell’Università Al Hazar del Cairo, e con altri leader musulmani. Forse “qualcuno” avrebbe dovuto aiutare il Papa a tarare il suo discorso in modo meno accademico e più pastorale, da Papa. Benedetto XVI, purtroppo, non aveva “aiutanti” del livello del cardinale Agostino Casaroli, che invece papa Woytjla ebbe a disposizione. E questo dicendo, desidero lasciare intendere anche ciò che deve essere inteso.
Ratzinger, ovviamente, era ben conscio che anche il cristianesimo per quasi due millenni non è stato esente da autoritarismo e confusione con il potere politico. Non ha mai avuto bisogno il professor Ratzinger che gli si spiegasse “Porta Pia, Roma 1870”! O che fino all’elezione di Pio X, papa Sarto, le potenze cattoliche, come l’Impero Austro-Ungarico ebbero voce in capitolo nell’elezione del Pontefice.
Da un punto di vista della fede, Benedetto XVI non ha mai proposto altro che questo insegnamento, valido per ogni uomo di buona volontà, sia per il credente, sia per l’agnostico e l’ateo: “Vivi etsi Deus daretur…, cioè vivi come se Dio ci fosse”, oa anche “come se Dio non ci fosse (non daretur)”, da cui si comprende bene come l’etica della vita umana e sociale deve essere aperta fraternamente all’altro, anche solo in base all’umana sapienza, che però la Fede illumina e sostiene.
La FILOSOFIA
Nutritosi della filosofia cristiana, a partire da Agostino e Bonaventura da Bagnoregio, ma non disattento alle filosofie contemporanee, Joseph Ratzinger si è mosso teoreticamente soprattutto sui temi del relativismo e del nihilismo, così diffusi e presenti nel pensiero, ma soprattutto negli stili di vita contemporanei. Su questo, papa Benedetto ha ripreso la posizione filosofica di papa Woytjla, che era imbevuto di un tomismo aperto alla fenomenologia di Husserl, e anche all’esistenzialismo cristiano di un Maritain e di un Mounier, non trascurando nemmeno Heidegger e Jean-Paul Sartre. La “lotta” ratzingeriana al relativismo non ha mai avuto nulla a che fare con il rifiuto della scienza moderna, che anzi è stata da lui ritenuta il dono di Dio sviluppato nel tempo dell’uomo. Fides et Ratio, Fede e Ragione, come ali per una capacità di usare tutti i beni dello spirito donati dal Creatore.
Il professor Ratzinger non confondeva certo il “relativismo” filosofico innervato di scettico cinismo di certe visioni economico-politiche del nostro tempo, con l’esigenza di comprendere e di studiare che tutto-è-in-relazione, dall’infinitamente piccolo delle particelle sub-atomiche (papa Benedetto era un ottimo lettore di saggi di fisica e di genetica), alle strutture più grandi: l’uomo e le cose della natura e del mondo. Il tema della complessità era vicino al suo modo di intendere l’uomo, nella sua conformazione antropologica ed etica, e quindi era tutt’altro che un conservatore reazionario! Questo giudizio, ripeto, appartiene solo ad osservatori pregiudizievoli e intellettualmente pigri.
Non è mai stato un conservatore né tanto meno un reazionario. Per lui l’illuminismo è stato generato dal Vangelo, così come tutti i saperi contemporanei. Difensore della Fede e della Ragione.
I TESTI
Non serve ricordare qui tutti i suoi testi accademici, sempre originali e profondi, salvo magari il trattato Io credo, che utilizzò nel corso di teologia fondamentale tenuto a Tubingen, ma non posso non citare la biografia storico-teologica di Gesù di Nazareth, in tre volumi, che ho letto con piacere, perché unisce la serietà dei fondamenti storico-critici relativi alla figura del Maestro nazareno, che è Gesù il Cristo, a una scorrevolezza narrativa che serve ad invogliare alla lettura anche chi specialista o interessato alla teologia non è. Il papa racconta Gesù con precisione, affetto e rispetto per i documenti cui fa riferimento, e per i fondamenti dottrinali della Teologia cristiana.
Le Encicliche: Deus Caritas est, Spe salvi e Caritas in Veritate. Papa Benedetto torna ancora nelle due encicliche al tema dell’Amore-Carità, che diventa il Nome di Dio stesso e anche la misura della qualità del rapporto tra gli esseri umani, come si legge nella Prima Lettera di Giovanni apostolo. Chi mi conosce sa quanto ci tenga, nel mio lavoro e nelle mie docenze, a parlare di Qualità relazionale: ebbene, ho trovato e trovo spesso in queste due Lettere di papa Benedetto ispirazione e suggerimenti che vengono colti anche da persone di formazione prevalentemente tecnica, le quali, però, riescono a percepire l’afflato umano che deve esserci e vivere nelle comunità, in tutte le comunità, comprese le “Comunità di lavoro”, che sono le aziende moderne.
Un altro aspetto è quello del valore dell’amore fisico tra gli esseri umani, tra l’uomo e la donna. Ebbene: proprio, voglio dire, alla faccia di coloro che collocano Ratzinger su una posizione retrograda, costoro leggano bene la Deus Caritas est, cioè Dio è amore, là dove troveranno riferimenti teologici e pratici al Cantico dei cantici, che è un esplicito poema erotico, interpretabile certamente con la chiave letteraria dell’allegoria poetica, e quindi rinviano all’amore di Dio per il suo Popolo e di Gesù per la Chiesa, che è il Popolo di Dio, ma anche, esplicitamente, all’amore umano e a un uso della dimensione sessuale, rispettosa, completa e arricchente per la persona.
Sotto il profilo pastorale, Benedetto XVI è stato presbitero e vescovo, ricomprendendo in questo ruolo anche il papato, che si sostanzia storicamente e canonicamente nella guida della Diocesi di Roma, ed è stato un buon Pastore, sempre attento e rispettoso per le scelte di chi ha incontrato per strada. Fu colui che, prima denunziò e poi combattè ogni deformazione morale presente anche nella Chiesa, a partire dalla pedofilia, che lui definì crimine.
Certamente diverso da chi gli è succeduto sul soglio pontificio, o nel “ministero petrino”, lavoratore nella vigna del Signore, come lui stesso si definì, presentandosi al balcone di San Pietro una mattina di primavera di diciotto anni fa.
Anche il nome che scelse diciotto anni fa, Benedetto, ha a che fare con due ispirazioni, la prima è quella di san Benedetto da Norcia, fondatore di molto dell’Europa e Patrono del nostro continente, la seconda per ricordare papa Benedetto XV, che, allo scoppio della Prima Guerra mondiale parlò, anzi, gridò di “inutile strage”.
Costante compagno di via – per nove anni – di papa Francesco, e perfino suo protettore dai detrattori di quest’ultimo.
Se come teologo è stato profondo e sottile, a volte difficile, sotto il profilo umano e spirituale Joseph Ratzinger è stato mite, umile, gentile e profondo, un uomo di Dio e del mondo.
“Edson, Edson, vieni a casa, su“, gli gridò dalla soglia della povera casa di Bauru la mamma Celesta… e il piccolo Edson, nerissimo afroamericano, rispose “Sì, mamma, subito, finisco di pulire questa scarpa e vengo…” Dialogo immaginario, ma verisimile.
Era il 1945 o il ’46. Accadeva in Brasile, nella favela confinante con la foresta. Bauru, così simile a Lanùs, dove nacque quindici anni dopo il mezzo guaranì per un quarto italiano (cosa che pochi sanno) Diego Armando Maradona.
Perché Edson, a cinque o sei anni stava in strada a dare calci a un pallone di stracci con altri ragazzini scalzi, e a pulire scarpe. Sciuscià. Show shoes, il piccolo player, aiutava la famiglia impoverita. Il figlio di João Ramos do Nascimento, in arte calcistica Dondinho, centravanti di medie capacità, ritiratosi per un infortunio al ginocchio men che trentenne, era Pelé, Edson Arantes do Nascimento.
Il nomignolo “Pelé”, con il quale la sua notorietà divenne universale, gli era sgradito, non si sa bene chi glielo appioppò, ma se lo tenne, perché la società dell’immagine nasceva proprio negli anni della sua consacrazione sportiva nel gioco più diffuso al mondo.
A quindici anni lo provò il Santos di Rio de Janeiro, e lì rimase quasi per tutta la vita, rifiutando la corte della grandi europee, tra le quali anche il Milan, l’Inter e la Juventus. Sulle sue qualità di calciatore lascio la parola al più grande (con alcuni difettucci di narcisismo) cantore sportivo italiano, Gianni Brera: “Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l’iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d’erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull’altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti“. Sì, perché Edson Arantes era anche un grande atleta, uno scattista resistente, scrisse di lui un esperto di scienze motorie di cui non ricordo il nome. Molto più completo dei due “dei” che gli sono succeduti nella visione mediatica dei decenni scorsi e fino a noi, Maradona e Messi. A Brera, mancato disgraziatamente troppo presto, avrei voluto dire che su altri campioni il suo giudizio è stato parziale e a volte ingiusto, come quello sul più grande calciatore italiano dell’ultimo mezzo secolo, Gianni Rivera, che lui definiva “abatino” e mezzo atleta. Si vedano i filmati che lo riguardano e si capisce perché Pelé, quando vide la lista dei giocatori che Valcareggi avrebbe schierato nella finale del Campionato del Mondo messicano del 1970, si meravigliò di non vedere il nome di Rivera, e subito dopo si compiacque, perché lui sapeva bene che la Nazionale italiana, con quel 10 in campo avrebbe potuto essere molto più pericolosa e imprevedibile. Non abbiamo la controprova di un tanto, e nemmeno di ciò che sarebbe potuto accadere se Burgnich non fosse scivolato sul cross di Rivelino che permise a Edson Arantes quel primo goal decisivo, in stacco imperioso (sintagma in puro stile breriano), di testa.
Tanto che, per puro divertimento, mi metto a fare il “tattico”, pensando all’attacco che quell’Italia avrebbe potuto schierare: a destra, come tornante, Sandrino Mazzola, Rivera subito dietro le punte Boninsegna e Riva. “Coperti” da due fortissimi mediani come Bertini e Trapattoni. Avrei voluto vedere…
Ma quel Brasile, che poteva permettersi di avere in attacco quattro numeri 10, per classe, cioè Pelé, Gerson, Tostao e Jairzinho era al tempo la più forte squadra del mondo e, forse, di ogni tempo.
Definito O Rei (in italiano Il Re), O Rei do Futebol (Il Re del Calcio) e Perla Nera (in portoghese Pérola Negra), non è il calciatore più vincente in assoluto, salvo che per le vittorie in tre campionati del mondo per nazioni, che nessuno ha eguagliato, ma in gare ufficiali ha messo a segno 757 reti in 816 incontri con una media realizzativa pari a 0,93 gol a partita. Come finora nessuno, oltre ad aver sfornato centinaia di assist-goal, come un trequartista (termine odierno delle cronache calcistiche) o una mezza punta o un falso nueve (falso centravanti, uomo di manovra).
E’ il mas grande, porque Edson-Pelé è stato un ragazzo e un uomo completo, che non ha avuto bisogno della “manita de Dios” o della “pierna que no existe” per vincere tre mondiali. Da ex calciatore ha accettato di fare il Ministro dello sport del Brasile, promulgando una legge importante contro la corruzione nel calcio. Come George Weah, che è diventato Presidente della Liberia, probabilmente il signor Edson Arantes do Nascimento avrebbe potuto diventare il buon Presidente del più grande Paese sudamericano.
Per questi fatti e per ragioni tecniche di calcio che altri, più di me competenti, hanno ben scritto, Edson Arantes do Nascimento, Pelé, è stato più grande di Diego Armando e di Lionel, che ha mostrato l’improba fatica del “saper-vincere”, e perché è stato esempio più limpido (anche e soprattutto per i ragazzini di strada e di palestra), di lealtà sorridente, senza la rabbiosa incapacità di non-vincere di altri calciatori, come ha fatto vedere il portiere dell’Argentina “Dibu” Martinez, all’immondo mondiale del Qatar.
Prima ancora che si registri lo scontro espressivo e semantico, presente nel dibattito politico e sui media, fra le espressioni genitore 1 e genitore 2 e madre e padre, faccio notare che la differenza radicale tra le due impostazioni giuridiche e burocratiche è eminentemente filosofica, mentre la divisione tra gli schieramenti politici di destra e sinistra è meramente di convenienza politica. E trovo che tutto ciò sia abbastanza assurdo, oltre che culturalmente di poco momento e molto sciatto.
La sinistra ritiene che avere un figlio sia un diritto, mentre la destra su questo non si esprime chiaramente, perché nell’area convivono delle impostazioni, si può dire, ancora quasi clerical-fasciste, assieme a pezzi di buona cultura liberale, talora mischiate in un bailamme non facilmente dipanabile. Gli obblighi delle alleanze mettono spesso vicine persone e gruppi politici tra loro non “intonati”, non componibili e di fatto impossibilitati ad avere una linea politica chiara, coerente e ben distinguibile, tra le altre politiche. Un esempio: si pensi a quanto poco “tenga vicino” la cultura politica di un ministro Nordio, coerentemente liberale nell’anima e nella sua biografia, e quella di un Salvini (se per quest’uomo si può parlare di una qualche “cultura politica”).
Dopo varie vicende normative, ora tornano in vigore nei documenti pubblici le dizioni “naturali” di padre e madre, mentre nel contempo, non v’è dubbio – a mio avviso – si deve confermare pacificamente la legittimità morale e giuridica di famiglie variamente “declinate”, e in sovrappiù sono note e ineludibili le difficoltà burocratiche per coloro che costituiscono famiglie cosiddette “arcobaleno”.
Di fronte a questo “ritorno al passato” nei modelli documentali il mainstream radical chic pare essere desolato, come mostra la sociologa Chiara Saraceno, la quale, o non capisce, o non è interessata alla filosoficità del tema, oltre alla sua dimensione politica e sociologica.
Anche giornalisti in gamba come (e qui mi delude) il bravo Vicaretti di Tg24, quando commenta ironicamente la tesi filosofica di Stefano Zecchi, che è analoga alla mia, e poi propone le riflessioni di Saraceno, condividendole, stanno nel mainstream. Trovo che la deontologia di un commentatore stampa di un canale pubblico dovrebbe astenersi dallo sposare così chiaramente una tesi invece di un’altra. Anche questo signore, che è giovane e bravo, avrebbe forse bisogno di ampliare il suo sguardo giudicante a una visione filosofica del tema “diritto & dono” di un figlio.
Per sostenere che avere un figlio non sia meramente un diritto, bisogna, come sempre, utilizzare la logica filosofica, assieme con le scienze linguistiche della filologia e della semantica, prima ancora di interpellare un’etica generale della vita umana solida.
Che cosa significa la parola “diritto”? Innanzitutto un qualcosa che deve appartenere all’uomo(-donna) per il fatto stesso di essere al mondo. Sto parlando dei diritti fondamentali alla vita, alla salute, all’istruzione, al lavoro etc. Immediatamente si coglie la storicità ineliminabile di questi diritti, che sono stati variamente intesi, riconosciuti e praticati nella storia dei popoli del mondo. Ad esempio, anche il diritto alla vita, che per noi occidentali contemporanei sembra (ed è, da noi, fattualmente) fuori discussione, al netto dei crimini e delle guerre, non è sempre stato incontestabile e assoluto, Perfino nella civilissima antica Roma tardo repubblicana o imperiale, ad esempio, gli schiavi erano semplici “oggetti”, la cui morte violenta causata da un cittadino libero, non era nemmeno punibile, se non con una ammenda.
Se allarghiamo lo sguardo ai tempi e ad altri territori, anche mantenendoci nella contemporaneità, questo diritto inalienabile è pienamente in discussione in molti stati e nazioni. Anche qui un esempio: come è garantito il diritto alla vita in un contesto civile di libertà nell’Iran di questi anni? E in Sudan? E in Eritrea? Propongo solo alcuni esempi tra decine di casi e situazioni dove i diritti fondamentali sono, non solo non riconosciuti, ma vilipesi e calpestati.
Bene, se i diritti fondamentali sono un qualcosa di essenziale e di non “contrattabile” o negoziabile, almeno in teoria, tutto ciò che non attiene alla salvaguardia della vita umana, come la venuta o meno al mondo di un figlio, non può configurarsi logicamente come un “diritto” fondamentale, ma come un desiderio, un auspicio, un dono, appunto. Vogliamo chiamarlo un diritto-dono?
In questo caso un’etica della vita umana sana segue la logica.
Inoltre, non è accettabile che la dizioni madre e padre siano considerate “di destra”, perché sono semplicemente dizioni “di natura”.
Burocraticamente, la soluzione è semplice: basta prevedere che sui moduli vi siano le dizioni madre, padre e genitore (1 e/o 2, che possono essere coppie omosessuali, e anche nonni e zii adottanti), e uno barra quello che è (o che si sente, come amano dire i fautori della cultura Lgbt etc., verbalità che non condivido, sia concettualmente, sia per le sue estremizzazioni legislative presenti in molti paesi). Mi dà fastidio anche che su questi temi troviamo fanatismi collocati sulle estreme: da una parte, ad esempio, la legislazione australiana e neozelandese che riconosce circa una ventina di gender, e, dall’altra parte la coppia Putin-Kirill!
Circa l’amore per i figli, quanti bambini abbandonati, poveri, indifesi che si trovano in giro per il mondo chiedono di essere adottati? E qui si può tornare al discorso dell’adozione da parte di coppie omosessuali: per ragioni pedagogiche e socio-culturali non mi piacciono, ma questa mia opinione è anche per me superabile, se si riesce a rendere equilibrata l’educazione di un bimbo/ a adottato in una famiglia di diversa naturalità, se così si può dire senza offendere nessuno.
Infatti, vero è che moltissimi sono cresciuti, e bene, con un solo genitori, con i nonni o con gli zii. Ciò mostra che differenza la fa sempre la qualità della socializzazione e dell’affettività presenti in famiglia, di qualsiasi tipo sia.
Decliniamo allora il concetto di “diritto”, nel caso dei figli, proprio come “dono”, che richiede soprattutto disponibilità di apertura all’altro e di abbandono di ogni forma di egoismo.
Nella mia vita ho conosciuto molte persone del primo tipo e anche persone del secondo tipo. Dico subito che mi danno più fastidio le seconde, perché le prime sono costantemente polemiche e spesso prolisse, ma “debellabili” abbastanza facilmente, mentre le seconde si insinuano con melliflua perseveranza nelle relazioni umane.
Vi sono infinite variazioni sul tema, come negli spartiti musicali: da 1 a 100 uno può essere più o meno “bastian contrario”, oppure “piaggione”.
Brontolo
IL “BASTIAN CONTRARIO”
Spesso i “bastian contrari” sono tali per partito preso più che per ragioni legate a opinioni diverse dalle tue, mentre i laudatores a prescindere, se decidono di non smetterla, ti circondano con una ragnatela di complimenti, che dopo un po’ suonano esagerati.
Nel 1819 Ludovico di Breme scrisse su «Il Conciliatore» n.ro 52, organo di stampa “ufficioso” dei carbonari milanesi: “Ai Signori associati al Conciliatore il compilatore Bastian-Contrario“. Un secolo dopo, più o meno, Alfredo Panzini, nella terza edizione del suo Dizionario moderno, cita l’espressione popolare e dialettale Bastiàn contrari come «detto di persona che contraddice per sistema»; e, a partire dalla settima edizione (del 1935), continua sul tema in questo modo: «Bastiàn cuntrari: pop. detto nelle terre subalpine di persona che contraddice per sistema. Fu in fatti un Bastiano Contrario, malfattore e morto impiccato, il quale solamente in virtù del cognome diede origine al motto».
Si può dunque ammettere che l’espressione risale a circa un paio di secoli fa, e che fu utilizzata primariamente tra il Piemonte e la Lombardia. Anche i vocabolari del dialetto piemontese lo registrano da quei decenni, mentre negli altri dizionari altrettanto non si riscontra.
Il grande linguista Bruno Migliorini ne parla nella sua monografia Dal nome proprio al nome comune (Genève, Olschki, 1927, p. 230). In ogni caso il sintagma bastian contrario (o bastiancontrario) ha circolato nell’uso in italiano ovunque, perdendosi nel più ampio contesto linguistico della nostra lingua nazionale.
Una storia su un certo brigante chiamato Bastian Contrario narra che, su incarico del Duca Carlo Emanuele di Savoia, avrebbe condotto dal 1671 un’azione di disturbo nelle zone di confine con la Repubblica di Genova (ipotesi che valorizza l’origine piemontese); altri studiosi, di contro, propongono che l’espressione si debba far risalire al processo di “fiorentinizzazione” dell’espressione (si pensi alla manzoniana metafora “sciacquare i panni in Arno“, che Don Lisander pronunziò, quando spiegò la ragione per la quale fu in Firenze per un periodo al fine di colà rivedere molto del suo italiano usato per Fermo e Lucia, Renzo e Lucia e infine per I promessi sposi), pensando al pittore fiorentino Bastiano da San Gallo, a causa del suo “peculiare carattere…”.
Un caso di antonomasia, dunque? “Bastian contrario” come sinonimo (quasi) di caparbio o di ottuso…?
LA PIAGGERIA O ADULAZIONE
Vediamo nella Enciclopedia Italiana Treccani: piaggerìa, sostantivo femminile [derivato di piaggiare], letteralmente – Atto, comportamento, o atteggiamento abituale, d’adulazione, di lusinga nei confronti di qualcuno, specialmente al fine di ottenerne favori: era alieno da ogni piaggeria; è sensibile a ogni tipo di piaggeria; ha fatto carriera con la piaggeria; si scansò per farlo passare, ma per un senso di rispetto non per piaggeria.
Etimologia: derivato di piaggiare, lusingare, adulare, derivato da un significato figurato di piaggiare, cioè navigare vicino alla spiaggia, ma anche destreggiarsi, assecondare. La piaggeria non è una semplice lusinga: essa connota un comportamento o un atteggiamento con sfumature lievemente più complesse.
La piaggeria è una lusinga portata avanti in maniera esperta, calcolata – anche se non per questo meno viscida. Si barcamena assecondando la conformazione dell’ego, al modo di un piccolo cabotaggio; non si sbilancia mai, non tocca terra né affronta l’alto mare. Notiamo che è una parola raffinata, che si sente di rado, e non solo perché di rado l’adulazione è accorta, ma perché spesso è semplicemente sconosciuta o nascosta… dall’adulatore. Nell’adulazione si nasconde sempre del veleno verso la persona adulata, questo è certo.
Provo a pensare, senza citarne i nomi ad alcuni “bastian contrari” che conosco. Nessuno di loro lo è proprio del tutto, perché chi mi conosce sa che parlo solo di ciò che conosco bene, non azzardandomi a lanciarmi in giudizi temerari o in ragionamenti improvvisati su temi a me ignoti o per me poco conosciuti.
Pertanto, non è proprio facilissimo contraddirmi, prendendomi, come si dice, “in castagna”. Io parlo solo di ciò che conosco, e di solito lo conosco bene, diciamo “scientificamente”, o almeno come “cultore della materia”. Posso dire che – scientificamente – ho profonda conoscenza di Filosofia, Teologia, Antropologia filosofica, Etica, Sociologia e Politologia; come cultore della materia, anche a livello pratico, di Diritto, Psicologia, Storia, Antropologia culturale, Letteratura e Poesia, Arte e Musicologia. Poco so di Biologia, Fisica, Chimica, Ragioneria, Finanza, Medicina (solo ciò che mi è utile), Ingegneria. Discretamente (quasi a livello buono) di Matematica.
Se intervengo sulle prime sei discipline è difficile che ci si azzardi a contraddirmi frontalmente. E’ ovvio che, da filosofo, accetto, anzi prediligo, il dialogo nel quale altri competenti possono sostenere anche tesi diverse o contrarie alle mie sulle sei discipline del primo gruppo. Sul secondo gruppo di discipline si discute anche animatamente, e accetto tranquillamente di cambiare opinione se ascolto qualcuno che ne ha competenza scientifica, o comunque superiore alla mia.
Se mi capita di intrattenermi su materie del terzo gruppo, ascolto chi sa, con grande rispetto e quasi con devozione. Mi fa a volte arrabbiare che non accada altrettanto quando si parla delle discipline del primo gruppo da parte di persone non competenti.
In generale, però, dialogo anche con “bastian contrari” che sanno della mia ritrosia a parlare di cose-che-non-conosco, e, sulle cose di cui sono esperto, intervengono praticamente solo perché desiderosi di mettere la loro “ciliegina sulla torta”, più o meno. Quindi, hanno l’istinto del “bastian contrario”, ma si fermano prima, senza andare fino in fondo. Li conosco, di solito, e li prevedo, a volte anticipandone l’espressione differenziante con un “Ma tu potresti dire che…“, e allora si continua pacificamente. L’avversativa aiuta il dialogo, in questo caso, mentre a volte lo disturba. Dipende.
In ambito filosofico, qualcuno (intendo il mio successore e attuale Presidente di Phronesis, l’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica) è molto più bravo di me ad accettare il contraddittorio, qualcuno che ha modi che potremmo definire non solo inclusivi, ma addirittura “ecumenici”. Io spesso non ce la faccio: se sento dire che quando si è giunti a un dato pensiero filosofico storicamente dato, non occorre più quasi guardare indietro ai grandi classici, esplodo dicendo che sul pensiero umano, come attività psico-spirituale, è stato detto quasi tutto dai magni Greci di due millenni e mezzo fa (Platone e Aristotele), aiutati poi dal pensiero medievale (Agostino e Tommaso d’Aquino), e dai filosofi moderni e contemporanei (da Descartes e Leibniz a Kant e Hegel, ma sì anche fino a Heidegger, Husserl, Jaspers e Wittgenstein) e che ora possiamo osservare e considerare solo le integrazioni delle psicologie cliniche e delle delle neuroscienze, che possono clinicamente aggiungere qualcosa, come fece il francese Libet con le sue tesi sull’anticipazioneneurale di coscienza (tema che qui non sto ad approfondire, perché lo ho già fatto su questo sito qualche tempo fa), oppure se vogliamo trattare del tema della dissonanza e della consonanza cognitive, che Leon Festinger propose una sessantina di anni fa, per dire che a volte ci auto-inganniamo nel fare ciò che non crediamo positivo o viceversa (anche questo tema ho trattato qui, se pure non specialisticamente, alcuni mesi fa).
Qualcun altro, invece, poco attento alla comunicazione telematica, che rischia di generare lo stracapimento e il fuorviamento significativo e del senso voluto, tende a fare il “bastian contrario”, magari inconsapevolmente, a distanza. Pericoloso, proprio perché, se contraddici qualcuno di persona, questi può replicare, possibilmente con gentilezza, alle tue tesi, ma se usi i potenti mezzi social, perdi espressioni, vocalità, prossemica e fisicità dell’altro, e quindi la strada dell’equivoco e dello stracapimento è aperta. Il resto lo fanno pregiudizi e precomprensioni sbagliate che puoi avere sviluppato sul pensiero dell’altra persona.
Circa i “piaggioni” ne ho ampia conoscenza. Sono più pericolosi dei “bastian contrari”, perché un eccesso di lodi ti indebolisce, mentre la misura giusta ti rinforza. Conosco situazioni nelle quali un eccesso di critiche da parte genitoriale hanno favorito lo sviluppo (purtroppo!) di personalità incerte e poco coraggiose, mentre nel mio caso posso dire di non essere stato mai contrariato dai miei genitori, che mi hanno sempre mostrato fiducia, e io grazie a questa educazione certamente sono stato in grado di scegliere anche percorsi impervi e faticosi nella mia vita e nella mia formazione, credendo fermamente di potercela fare. E ce l’ho fatta, posso dire con umiltà.
Altri, che conosco, no, non ce l’hanno fatta.
A questo punto un’ultima osservazione e un consiglio: tra i “bastian contrari” e i “piaggioni” si trova il maggior numero di esseri umani, come illustra la campana di Gauss (la sua parte centrale), ed è di costoro che bisogna stare particolarmente attenti.
Una situazione esemplare è la seguente: c’è una persona in una posizione di potere; ebbene, molto difficilmente sceglierà qualcuno che possa fargli ombra se questi deve lavorare molto vicino ad essa, nel timore di essere sorpassato in qualità e capacità. L’uomo o la donna di potere si terranno alla larga dai potenziali veri, ma ciò facendo non creeranno un futuro per la struttura che governano, perché la condanneranno al declino. Non aggiungo altro.
Invece segnalo un’altra dinamica: il rischio che corrono quelle stesse persone di potere, quando preferiscono essere circondate da yesmen, piaggioni di professione, a volte untuosi “uria heep”, che sono ben capaci di ingraziarsi il potente, ma solo per le proprie convenienze. Costoro sono poi anche i primi a tradire. C’è un famoso giornalista televisivo e scrittore di instant book che può rappresentare la quintessenza di tale idealtipo weberiano. Caro lettor mio, riesci a indovinare chi intendo con questo accenno?
Queste ultime righe sono dedicate in particolare all’amico che ho citato nel titolo, ma tutto il pezzo è per chi conosco e apprezzo, per chi stimo e a cui voglio bene, m a volte mi permetto, io che non sono né “bastian contrario”, né “piaggione”, di criticare.
E, siccome in greco “critica” significa giudizio razionale, ben vengano le critiche che, in questo caso e modo, sono sempre costruttive.
Auguro un sereno Natale nel ricordo del Rabbi Jesus ben Josef ben Nazaret, che nacque a Betlehem o a Nazareth circa 2022 o 2028 anni fa (secondo la data del censimento ordinato dall’Imperatore Augusto, sotto il Procuratore di Siria e Palestina, Quirinio), di nostro Signore Gesù Cristo, il Vivente.
E’ come se fosse “andato a posto” un evento naturale, e perfino razionale, della storia del calcio, che abbia vinto l’Argentina il mondiale di calcio, pure se in… Qatar, cioè in uno dei posti attualmente più sbagliati del mondo, forse battuto nel genere solo dalla Corea del Nord, dall’Iran, dalla Somalia, dalla Libia, dall’Eritrea e compagnia disumana. E naturalmente dalla Russia, che comunque aveva avuto il suo mondiale, (in coabitazione con l’Ucraina!) nel 2018.
Avenida 9 de Julio, Santa Maria de los Buenos Aires
Sono contento che abbia vinto la Albiceleste, in assenza dell’Italia, anche perché l’Argentina è una mezza Italia, a partire da Lionel Messi Cuccittini e da Angel Di Maria, perché ci sono anche Pezzella, Tagliafico, Scaloni, Musso, Rulli, etc.
E perché ha nei suoi “geni” momenti di gioco ammirevole: a volte assomiglia all’Italia e a volte al Brasile nei loro giorni migliori. Dell’Italia ha la ferocia tattica mentre del Brasile ha una parte della sublime arte prestipedatoria (avrebbe detto il magno Gioan Brera fu Carlo).
Sono stato in Argentina a trovare i nostri emigranti qualche decennio fa, e ho parlato friulano a Santa Maria de los Buenos Aires, a Cordoba, a Rosario, a Salta e Colonia Caroja. Mi sono sentito, io già grande, come quando ero bambino, perché l’Argentina è come l’Italia di cinquanta anni fa, o come il Friuli di prima del terremoto, per ricchezza nazionale e per reddito pro capite.
La Francia ha perso perché ha giocato un po’ peggio, soprattutto nel primo tempo, ma non è più debole, forse è vero il contrario. E sul tema calcistico qui mi fermo.
Parlo d’altro: prima dei gesti insulsi, degni del peggior campetto di periferia, da parte del portiere Martinez, che sono parsi squallidini, anzichenò. Ogni tanto emergono in quel tipo di giocatori i peggiori tratti della cultura meridional-ispanica, ma anche italiota, quelli che non sanno dove abiti la lealtà, che pure era insegnata dai filosofi della Magna Grecia, visto che qualche giornalista ha scomodato perfino il paradosso di Achille piè veloce e della tartaruga di Zenone di Elea, per dire che “Achille (Messi) ha finalmente raggiunto la tartaruga (il titolo mondiale)”. Suggerirei a quel giornalista di lasciar perdere i paradossi di Zenone, che non hanno assolutamente il senso elementare che ha voluto intravedere. A ognuno il suo mestiere, come sempre.
Sto parlando dell’hispanidad di quando la grande potenza di Carlo V imperava sui mondi e anche nell’Italia meridionale e a Milano. Penso all’hispanidad del puntiglio di frate Cristoforo giovane che uccide chi non gli dà il passo perché lui è un hidalgo e l’altro è un c.zo qualunque (come disse qualche secolo dopo il marchese del Grillo, Alberti Sordi voce), nel racconto del nostro grande Don Lisander de Milàn.
Non dell’orgoglio di quella cultura che è grande, perché è una declinazione fondamentale della latinità, capace di epiche imprese insieme con dannate vicende coloniali. Ecco: della migliore cultura ispanica mi sembra che Diego Armando Maradona sia un rappresentante inimitabile, magari assieme con don Cristobal Colòn, non a caso un genovese ispanizzato, così come don Diego è stato un argentino napoletanizzato, en el bien y en el mal. Paragoni e paradossi.
Messi non-è-Maradona come uomo. E questo è scontato. Non ha di Diego la sanguigna capacità di appartenenza al popolo e ai capipopolo, come capopolo; Messi è popolare, ma non parla la lingua del popolo; il suo castellano-argentino idiomatico è incerto, la sua voce quasi afona, non esprime concetti percettibili e intelliggibili; fino a questi mondiali non avevo presente il timbro della sua voce, come peraltro di quella di dom Cristiano de Madeira.
La cosa che meno mi è piaciuta di lui, alla consegna del trofeo, è stato l’indossamento prono della orrida vestaglietta da festa nero-trasparente, il così chiamato bisht, che il potente Emiro gli ha porto con autoritaria autorevolezza, in base, pare, alla tradizione saudi-emiratina. Don Diego non l’avrebbe mai accettata, perché l’avrebbe rifiutata con un gesto autorevole senza essere sprezzante, tornando a gioire con la sua maglietta bianca e celeste sporca di fango, perché nel 1986 in Mexico i campi di calcio erano anche fangosi.
A parziale giustificazione di Leo potrei ricordare la seguente parabola matteana 22, 10-14:
(…) 10Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.11Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
Ecco, forse Messi ha inconsapevolmente rispettato questo costume vicino-orientale, presente nella Bibbia ed echeggiato nel Corano. Forse… anche perché l’Emiro è anche il suo “datore di lavoro a Paris”.
La Dieci albiceleste per Maradona era come una seconda pelle, come l’azzurra del Napoli Football Club, dove aveva la sua seconda casa del cuore.
Il calcio non è solo un gioco oramai miliardario, che interessa tutti i popoli del mondo, ma è anche un fenomeno da studiare sociologicamente e con gli strumenti della psicologia sociale, dandogli la giusta importanza, per la capacità che ha quel mondo di svelare, non solo gli intrighi qatarini con i loro riflessi brussellesi, ma anche la verità di persone vere, forti, autentiche, come Sinisa Mihajlovic, che Dio l’abbia in gloria.
Esempi, ancorché imperfetti (come è umano che sia), per i giovani.
Un’ultima considerazione per chi ha raccontato il mondiale del Qatar: accanto a narrazioni bellissime e ai riflettori sui diritti umani calpestati in quel luogo e tutt’intorno, anche dalla FIFA (che il signor Infantino si vergogni e con lui Michel Platini, suo predecessore e tutti quelli che hanno “venduto” il mondiale), non dimentico e condanno le esagerazioni cronachistiche e dei commenti. Una per tutte: la vergognosa similitudine di tale signor Gabriele Adani, che ha paragonato le azioni calcistiche di Messi a ciò che viene raccontato nel capitolo secondo del Vangelo secondo Giovanni, dove si narra del miracolo di Cana. Poveretto. Non blasfemo, solo misero.
(omissis) Facciamola finita, venite tutti avanti Nuovi protagonisti, politici rampanti Venite portaborse, ruffiani e mezze calze Feroci conduttori di trasmissioni false Che avete spesso fatto del qualunquismo un arte (omissis) Non me ne frega niente se anch’io sono sbagliato Spiacere è il mio piacere, io amo essere odiato Coi furbi e i prepotenti da sempre mi balocco
(testo di Francesco Guccini)
(omissis)
Venite gente vuota, facciamola finita Voi preti che vendete a tutti un’altra vita Se c’è, come voi dite, un Dio nell’infinito Guardatevi nel cuore, l’avete già tradito E voi materialisti, col vostro chiodo fisso Che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso Le verità cercate per terra, da maiali
Tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali Tornate a casa nani, levatevi davanti Per la mia rabbia enorme mi servono giganti Ai dogmi e ai pregiudizi da sempre non abbocco E al fin della licenza io non perdono e tocco Io non perdono, non perdono e tocco
(omissis)
Un testo, una canzone, per mettere insieme i sentimenti di questo sabato, contrastanti, duri, dolorosi. E’ dalla speranza che Guccini canta voglio partire, per dire che la rassegnazione non deve star di casa da me, ma riprendere il suo significato originario di ri-segnazione, che vuol dire ripartenza.
Mihajlovic si è ammalato di quel “brutto male”, il cui “cugino malvagio” aveva colpito anche me due anni prima. Io sono qui, addolorato. Lui lo immagino nelle praterie celesti, con la sua forza slava, senza limiti. Io più fortunato di lui. Fortunato?
Nel testo di Guccini sta un po’ tutto. Leggiamo dove parla dei politici, e qui viene in mente un tipo come Panzeri “Tel chi el Pànzer“, dove sussisteva oltre al cognome evocativo, il termine tedesco che rappresenta la forza di quella etnia e il carrarmato della Seconda Guerra mondiale, come con un qualche compiacimento dicevano alcuni milanesi dopo la sua elezione al Parlamento europeo con centomila preferenze. Il Panzeri capace di travolgere tutto come un “panzer”.
Ora ha veramente travolto tutto, anche l’immagine e il buon nome della sua parte politica, che affannosamente si affanna a dichiararsi “parte lesa”. Ma come “parte lesa”? Di che partito fa parte Panzeri? Ora ci si distingue?
“Parte lesa” è l’Italia, non il PD, vivaddio!
Ragioniamo con la logica filosofica: il Panzeri è inquisito (e fino a che non vi sarà una verità processuale, nessuno che abbia a cuore uno “stato-di-diritto” lo può condannare preventivamente, e si dovrà anche supporre la sua innocenza) per tangenti cospicue ricevute da due stati esteri al fine di favorire le posizioni politiche ed economiche di questi paesi. E dunque non lo condanno io, perché è prematuro e perché non ho titolo per farlo.
Torno al discorso della sua parte politica che, in generale, è anche presso a poco la mia. Ripeto: come si fa a dire che il suo partito si dichiara “parte lesa”? (Letta? dai su). Panzeri è di quel partito e per quel partito è stato eletto. Vero è che la responsabilità penale è personale, ma l’appartenenza è politica… sarebbe quindi saggio che la sua parte politica non si stracciasse le vesti, per due ragioni: la prima perché Panzeri potrebbe essere innocente, la seconda perché, se colpevole, la responsabilità è sua, ma… è anche, per la proprietà transitiva dell’appartenenza, anche obiettivamente di chi lo ha accolto, valorizzato e reso leader in una certa sede, che prima è stata anche sindacale.
Sarebbe dunque meglio, politicamente, e più elegante, esteticamente, che il PD si astenesse, rimanendo in vigile attenzione degli eventi, da un lato, e verificando, dall’altro, le biografie e i comportamenti di chi ritrova all’interno del proprio corpaccione malandato.
Conosco persone di quell’area che nulla hanno da insegnare agli altri, intendo quelli dell’altra parte politica, sotto il profilo etico, così come ne conosco moltissime di specchiata onestà e moralità. Uno degli elementi della crisi attuale della sinistra politica sta proprio in questa miopia, in questa incapacità di selezionare il personale politico.
E del sindacalista Visentini, che conobbi quando era ragazzo, perché fui proprio io ad affidargli il coordinamento dei giovani di quel sindacato, che dire? Gli auguro e auguro alla sua (che fu anche mia) sigla sindacale, di non essere “maltrattati” da cattiva fama derivante da questi tristi eventi.
E della “Afrodite” socialista Eva Kaili? Che dire di lei e del suo rampantissimo e inconsapevolmente apollineo compagno?
Da ultimo, mi verrebbe da fare un ingeneroso (per lui) paragone tra Panzeri e Pilutti, ma anche tra Pilutti e altri che, una volta usciti dal sindacato, si sono collocati in ben godibili comfort zone.
Noto , invece, che io crebbi solo del mio, in cultura e professionalità, nulla avendo di risulta, come si dice, o dal camino dei regali natalizi.
Come è bello dormire sonni assai tranquilli, sapendo che nulla mi è stato regalato per appartenenza a correnti o partiti, ma tutto mi è arrivato da studio, lavoro e credibilità conquistata con la fatica dell’impegno morale ed operativo, cotidie.
Arrivano tristi notizie da Bruxelles. Italiani indagati per avere accettato denari da potenze estere allo scopo di sostenere certi interessi. Cosa non nuova nel mondo della politica e della rappresentanza, con il contraltare talora complice dell’economia.
Sulla Treccani troviamo la seguente definizione di questi fenomeni: Illecito penale distinguibile in diverse ipotesi: a) corruzione del cittadino da parte dello straniero (art. 246 c.p.): delitto contro la personalità dello Stato commesso dal cittadino che riceve o si fa promettere, anche indirettamente, dallo straniero denaro o qualsiasi utilità, o si limita ad accettarne la promessa, al fine di compiere atti contrari agli interessi nazionali; b) (omissis); c) corruzione di pubblico ufficiale (art. 319 c.p.): accordoo fra funzionario pubblico e privato cittadino in base al quale il primo accetta dal secondo un compenso non dovuto, o la relativa promessa, per compiere (art. 318 c.p.), ritardare o aver ritardato, omettere o aver omesso (art. 319 c.p.) un atto d’ufficio, ovvero per compiere o aver compiuto un atto contrario ai doveri d’ufficio. Entrambe le disposizioni si applicano anche all’incaricato di pubblico servizio, ma nelle ipotesi di cui all’art. 318 soltanto se egli rivesta la qualità di pubblico impiegato.
Anche per queste reali fattispecie commettibili, il legislatore italiano ha emanato il Decreto legislativo 231 nell’ormai non più vicinissimo 2001, concernente la responsabilità amministrativa dei soggetti economici e di tutti coloro che ivi lavorano, in base alle responsabilità assunte negli organigrammi. Una responsabilità che prevede il rispetto delle leggi vigenti, di tutti i livelli, e la previsione della commissione di possibili reati.
Si tratta di una legge che non prevede, un po’ stranamente, la sua obbligatoria applicazione, perché i soggetti economici possono anche non scegliere di darsi il Modello organizzativo e gestionale previsto dal Decreto legislativo 231. Da quella data, però, un numero sempre maggiore di aziende si è dato il Modello, scegliendo di non avere nulla da nascondere, né agli istituti di controllo pubblici, né alla Magistratura e alle forze inquirenti.
Sono personalmente coinvolto in una decina di queste aziende, nelle quali presiedo l’Organismo di Vigilanza previsto dal citato Modello. Ho anche contribuito a redigere il Modello stesso, per cui ne conosco ogni aspetto e caratteristica. Mi sono occupato soprattutto della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ma anche dei comportamenti degli amministratori, suggerendo modifiche e attenzioni.
Di fronte a ciò che si sente da Bruxelles mi è venuto subito in mente che anche i Partiti, protagonisti principali del malaffare scoperto in Italia circa trent’anni fa, farebbero bene a preveder di darsi un Modello organizzativo e un Organismo di Vigilanza autonomo (non bastano i probiviri!), composto da persone competenti e probe. Nei vari Organismi sono in compagnia di giuristi, economisti e tecnici della sicurezza, con i quali ci si confronta sui vari casi e situazioni concrete che avvengono nelle imprese.
Gli imprenditori e i dirigenti d’azienda si stanno accorgendo come tale Modello sia utile anche a riflettere su comportamenti e abitudini, accettando di correggere quelle non-virtuose. Il valore del Modello è anche riconosciuto dall’Inail che, alle aziende dove è presente, riconosce una sorta di “sconto” sul premio assicurativo previsto per determinati rischi infortunistici.
Mi sto chiedendo che cosa avrei fatto se mi fossi trovato in un ipotetico Organismo di Vigilanza attivo presso le forze politiche e gli Organismi dell’Unione Europea. Domanda retorica: esattamente ciò che sto facendo oramai da tredici anni di attività in materia: avrei cercato di capire che cosa stesse succedendo con un’indagine approfondita al massimo, e avrei segnalato eventuali anomalie rilevate ai vertici politico-amministrativi dell’Unione (von der Leyen, Metzola, Michel) e, se del caso, alle forze di polizia.
Mi dispiace ricordare che una delle persone inquisite è di mia storica conoscenza personale in ambito sindacale, assieme a dei personaggi che c’entrano direttamente con la sinistra politica. Mi vergogno per loro e di loro. Siccome l’inchiesta è in corso nulla intendo dire di più, augurandomi e augurando a quelle persone, nel caso in cui vengano riconosciute colpevoli di qualche reato, di avviare un percorso di resipiscenza morale, maturando anche una capacità di chiedere perdono alle Comunità che lì le hanno inviate con fiducia e rispetto.
Sulla Treccani troviamo: pronùnzia s. f. – Variante di pronuncia, molto frequente in passato, specialmente nell’uso toscano ma anche più generalmente nell’uso comune, mentre oggi tende nettamente a prevalere la forma pronuncia. ◆ Analoga osservazione va fatta per il verbo pronunziare e per i suoi derivati pronunziàbile, pronunziaménto, etc.
Pronuncia pronùncia (o pronùnzia) sostantivo femminile [derivato di pronunciare (o pronunziare)] (plurale -ce, e rispettivamente -zie). – 1. a. Il fatto e il modo di realizzare i suoni o di leggere le lettere di una lingua, o […] di più lingue (vedi ortoepia; ortografia). Con riguardo a singoli suoni: la pronunzia dell’«u» francese, del «th» inglese; parallelamente aspirata del «c» velare in Toscana (la cosiddetta «gorgia» toscana)…
Gli accenti. L’accento tonico è l’elevazione del tono della voce nella pronuncia di una sillaba di una parola rispetto alle altre sillabe della parola. La sillaba e la vocale su cui cade l’accento si chiamano toniche, cioè colpite dall’accento tonico; le altre si chiamano atone, cioè prive di accento.
Secondo la posizione dell’accento tonico le parole italiane si dividono in:
tronche → quando l’accento cade sull’ultima sillaba: bontà, virtù, parlò;
piane → quando l’accento cade sulla penultima sillaba: cavallo, amore, pane, antico;
sdrucciole → quando l’accento cade sulla terzultima sillaba: tavola, psicologo, ballano;
bisdrucciole → quando l’accento cade sulla quartultima sillaba: visitano, telefonami, mandaglielo;
trisdrucciole → quando l’accento cade sulla quintultima sillaba: ordinaglielo, indicaglielo, temperamelo.
Attenzione! Osserva:
l’accento tonico sulle parole non si segna, né si scrive;
solo quando l’accento tonico italiano cade sull’ultima sillaba (parole tronche) si ricorre all’accento grafico, che viene detto semplicemente accento;
le parole italiane sono in grande maggioranza parole piane;
esistono anche parole àtone, cioè prive di accento. Si tratta di poche parole, tutte monosillabe – cioè di una sola sillaba -, che proprio perché prive di accento proprio, per poter essere pronunciate devono “appoggiarsi” ad altre parole. In particolare:
– se si appoggiano alla parola che la segue si chiamano proclitiche (= “piegate in avanti”). Esse sono: articoli determinativi (il , lo, la, i, gli, le); le particelle pronominali (mi, ti, ci, si, vi, me, te, ce, ve, ne, lo, la, li, gli); avverbi (ci, vi, ne); preposizionii (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra); congiunzioni (e, o, se). Le proclitiche si appoggiano alla parola che le segue nella pronuncia ma ne rimangono staccate nella grafia: «Lo faccio da solo»; «Ci verrà a trovare»;
– se si appoggiano alla parola che le precede si chiamano enclitiche (= “piegate all’indietro”). Esse sono le stesse particelle pronominali e gli stessi avverbi che abbiamo visto sopra; ma in questo caso si saldano alla parola anche nella scrittura: «Salutalo!»; «Verrà a trovarci»; «Portale con te!».
Nonostante le regole sopra richiamate, noto che abbiamo giornalisti incapaci di rispettarle, come quello del Tg2 delle 20.30, che pronunzia cìtta, con l’accento sulla “i”, non città, parola tronca e prevede che si scriva l’accento sulla “a”. Pazzesco, fastidioso! Ma lo correggano, no? Ho anche scritto alla redazione: nessuna reazione.
Circa, infine, la pronunzia di parole che derivano dal latino all’inglese, come plus e minus, come medium e media, non mi stancherò mai di segnalare che sarebbe bene, anche esteticamente, fossero pronunziate come si pronunziano nella lingua in cui sono nate oltre duemila anni fa. NON come se appartenessero all’attuale koinè, l’inglese.
La radice verbale latina “caedere” (tr. tagliare, uccidere, colpire, es. caedere victimas:sacrificare vittime). costituisce il centro di significato e di senso di svariati verbi italiani, che si differenziano per il prefisso diverso: pro, pre, re, de,retro, ad, con, in, inter, uc,… i quali prefissi danno significati profondamente differenti a ciascun verbo.
Tratto di un altro esempio, come quello recentemente commentato in questa sede, dell’ablativoassoluto, che attesta come la lingua latina sia in grado, assolutamente più di altre lingue, di sintetizzare concetti, termini, lemmi, parole, espressioni, magari utilizzando il modo di esprimersi filosofico.
Ad esempio, si pensi alla profonda differenza che si dà in italiano fra i due verbi “decidere”, che significa scegliere, e “decedere”, che è sinonimo di morire. Si tratta comunque di un “tagliare”, “separare”, “dividere”: una scelta o l’altra, la vita e la morte. Un altro esempio: inter-cedere, che letteralmente significa camminare-in-mezzo, metaforicamente assume un significato diverso: intervenire (presso un potente) a favore di qualcun altro. Constatando ciò si può affermare che il latino è un idioma capace di contenere parecchi significati nel medesimo etimo radicale, in modo polisemantico e tale da poter favorire lo sviluppo di una letteratura precisa ed efficace in molti settori, da quella poetica a quella giuridica, da quella storica a quella filosofica.
In latino si potrebbe anche pensare di scrivere di tecno-scienze moderne, in-ventando (cioè “trovando”: si tratta di una derivazione lessicale dal verbo latino invenire) costrutti adeguati. Si pensi alla bicicletta, che ovviamente ai tempi dell’Impero Romano non esisteva, ma che oggi potremmo chiamare “birota”, cioè due-ruote. E si potrebbe continuare.
Accanto a questa duttilità del latino, mi viene da constatare come nella comunicazione contemporanea si indulga spesso in costrutti retorici, come le metafore, che in generale sono molto utili e sinteticamente espressive, ma a volte diventano una moda, che non fa risparmiare energie al parlante, o sono addirittura banali e inefficaci.
Due esempi: trovo che si stia abusando della metafora fattuale “mettere a terra”, volendo dire “realizzare” concretamente un progetto, un’idea, un compito assegnato. Una volta ascoltata alla tv o sul web, uno e poi due e poi tre persone cominciano ad usarla, e il quarto pensa che faccia-figo utilizzarla, per cui la propala geometricamente.
Dopo un po’ di tempo il centesimo utilizzatore (ma anche prima, forse il trentesimo) non si fa più nessuna domanda sull’espressione metaforica e la usa senza alcuno spirito critico, magari decidendo che la si può anche evitare, scegliendo di utilizzare il verbo “realizzare”, cioè “rendere-cosa un’idea”, dalla radice latina “res”, che significa cosa. Si pensi alla res-publica, la repubblica. “Realizzare” in tutte le sue modalità temporali e modali, di cui l’italiano è ricchissimo, come il latino e il greco antico, mentre invece l’inglese ne è largamente privo. Di tali modi, si pensi al rapporto tra modo congiuntivo e modo condizionale nelle frasi ipotetiche e concessive, possiamo proporre esempi innumerevoli. Un esempio: “se tu me ne dessi le possibilità, potrei realizzare questo progetto“; proviamo a “metterla giù” con la metafora di cui sopra: “se tu me ne dessi le possibilità, potrei mettere a terra questo progetto“. Bruttino, no? Oppure vi piace?
Diamo uno sguardo all’altra frase sopra citata, quella del “prendere a bordo”. Invece di proporre questa metafora acquatico-marinaresca, usare il verbo “coinvolgere” è più rapido e anche più elegante. O no? Soprattutto nel lavoro organizzato e gestito delle imprese, il coinvolgimento è il primo motore della partecipazione del lavoratore al progetto aziendale. Il verbo “coinvolgere” (tradotto nell’ottimo verbo inglese to involve), contiene l’etimologia dell’avvolgere, cioè del prendere-dentro, altroché “a bordo”.
“Prendere dentro” è più potente del “prendere a bordo”, o no? Ed è anche più rispettoso intellettualmente e moralmente, poiché interpella la psiche e lo spirito dell’altro senza la direttività di un ordine, che sembra quello del capitano al mozzo sulla nave “da corsa” inglese di Sir Francis Drake o di quella di Walter Raleigh, ambedue corsari di Elisabeth Tudor the First. O no?
Terza metafora, molto amata solitamente dai politici quando vincono le elezioni e devono per forza disprezzare ciò che hanno fatto i predecessori, per cui gli viene bene di dire che “occorre un cambio di passo”, significando che il passo di chi li ha preceduti è stato tardo e lento, e dunque inefficace. Salvo poi non essere diversi da costoro. Diffido sempre da chi usa questo modo di dire, perché non gli credo.
Quarta espressione che mi sento di criticare anche per l’indubbia pigrizia in essa sottesa: “quant’altro”. Politici e persone dei media (pronunzia mèdia, parbleu!) indulgono nell’uso continuo di questo sintagma che significa esattamente… NULLA! Infatti, se tu dici: “Ho provveduto a segnalare questi pericolosi comportamenti, espressioni errate e quant’altro“, che cosa si intende con “quant’altro”? Comportamenti, espressioni? Qualcosa di analogo che attenga all’agire umano? Ma se è così allora è meglio descrivere questi altri aspetti concreti specificandoli, e non lasciando supporre qualsiasi cosa con l’infelice espressione, o no?
Ultimo, fastidiosissimo modo di dire attuale: “tanta roba”, per dire che una cosa è importante, grossa, complicata… E allora si dice “tanta roba”, un’espressione che attesta una enorme pigrizia espressiva. E ciò basti.
Circa l’abusatissimo verbo “implementare” che cosa posso dire? Che mi dà un po’ fastidio anche se lo utilizzo anch’io, appunto, ma con una punta di fastidio quasi inspiegabile. E’ certamente un verbo latino, da impleo, implêre, della seconda coniugazione, che significa “riempire”. Non dovrebbe infastidirmi, dunque, stante la sua storicità e significanza, ma si potrebbe forse utilizzare più armoniosamente un altro verbo il luogo di codesto. Ad esempio: “completare (assieme)”, che ha la stessa radice di “implementare”, ma contiene il più significativo prefisso “con”, che dà il senso di una collaborazione tra più persone.
Vedi, caro lettore, come sia utile riflettere sempre su come parliamo, sulle parole che utilizziamo, sulle frasi con le quali ci esprimiamo, sulla comunicazione che pensiamo di realizzare (non di mettere-a-terra), che è non solo lo strumento comunicazionale che tutti conoscono, ma che è anche “performativo” (cf. Wittgenstein 1922, Habermas 1970, Ocone 2022), cioè trasformativo e possibilmente migliorativo, non solo dei concetti che “significano” cose o espressioni, ma anche della Qualità relazionale. La regola è la seguente: più si cura ciò-che-si-dice, sapendo che non conta tanto ciò-che-si-pensa-di-aver-detto-o-scritto, ma soprattutto ciò-che-l’altro-ha-percepito, e più ci si fa, prima comprendere, e poi capire.
Il come-si-parla è fondamentale. Solo un esempio attualissimo: si pensi ai colpevoli strafalcioni di Giuseppe Conte, quando parla di guerra civile mentre dice di “difendere solo il reddito di cittadinanza”.
Vigilare sui detti, sugli scritti e sul parlato è fondamentale per la difesa della nostra cultura, della nostra economia e anche della nostra democrazia parlamentare.
Ringrazio il caro amico Claudio, mio antico compagno di liceo e professore di storia e filosofia dove… studiammo assieme tant’anni fa (seguìti da mia figlia Beatrice anni dopo), cui ho “rubato” la struttura dei contenuti del titolo, che ho solo un pochino parafrasato e implementato, perché li condivido in toto. Dopo tanti anni ci stiamo trovando d’accordo sul versante di un socialismo democratico e gradualista. Grazie a Dio lui non mi ha sorpassato “a destra” come hanno fatto in moltissimi ex militanti della sinistra radicale nei decenni scorsi.
Eduard Bernstein
Dove sta andando, dunque, il Partito Democratico? Verso una ripresa di capacità propositiva e di presenza sociale, o verso un irresistibile cupio dissolvi (lat., desiderio di essere dissolto)? Duole osservare che anche gentiluomini e galantuomini echeggianti quasi gli aristocratici progressisti di fine Ottocento come un Cuperlo, si affatichino a denunziare gli attacchi al Partito, che – è vero – sono spesso sgangherati, come quelli dei 5S e del loro capo, ma che nascono da un’assenza grave sui temi sociali del Partito che strutturalmente e storicamente dovrebbe stare sempre sul pezzo dei temi sociali. Invece, negli ultimi decenni si è ritirato sul colle riservato ed elitario dei diritti civili, come “un Aventino” fuori tempo massimo, dove si incontrano i maggiorenti pidini con i gruppi padroni del cinema, della stampa e dell’editoria.
Gramsci non intendeva in questo senso l’egemonia degli intellettuali di sinistra. Non li “vedeva” in vacanza in luoghi esclusivi, non li concepiva così distaccati dalle classi lavoratrici. Non avrebbe capito le Cirinnà e le Boldrini, ma forse nemmeno le Schlein, cui avrebbe raccomandato umiltà e pazienza. Gramsci intendeva l’egemonia degli intellettuali comeorganicità alle classi produttive, come attenzione a chi creava ricchezza e risorse da distribuire da reinvestire, vale a dire i suoi operai e impiegati dell’Ordine Nuovo, che oggi sarebbero i tecnici e gli ingegneri che progettano e costruiscono, gli studiosi e i ricercatori delle varie discipline, e anche gli esperti di sviluppo delle Risorse umane nei luoghi di lavoro pubblico e privato, impegnati nel disegnare, organizzare e gestire lavoro per favorire creatività e sentimenti di partecipazione all’impresa.
Una sinistra “capace” dovrebbe sapere distinguersi da chi confonde l’egualitarismo con una giustizia sociale rispettosa dell’individuo-persona declinata sul valore dell’equità. L’ equità è la vera giustizia, proprio perché non-egalitaria. Un paradosso? NO!
Se cinquant’anni fa era corretto politicamente e “di sinistra” ottenere diritti uguali per tutti i lavoratori, perché quei diritti non c’erano (si pensi solo alla possibilità di licenziare un padre di famiglia dal venerdì al lunedì immediatamente successivo!) ed ecco che fu emanato lo Statuto dei diritti dei lavoratori, che con la Legge precedente che regolamentò la giusta causa di licenziamento (la 604 del 1966), impedì quella possibilità di eccessivamente imperativa potestà del datore di lavoro, oggi serve di più, occorre una capacità di discernere tra i diritti quelli più necessari e come correlarli ai doveri. Di tutti e di ciascuno.
Soprattutto i giovani lavoratori richiedono formazione e coinvolgimento nei fattori aziendali. Sotto il profilo teorico è necessario rivedere alcuni concetti della Tradizione della sinistra e scegliere in modo chiaro e senza equivoci una visione che ponga l’intrapresa economica sul versante dello sviluppo dell’uomo, non del suo sfruttamento. Occorre dunque dunque andare “oltre Marx” e ogni massimalismo unilaterale, mantenendo per il Grande di Treviri un’immortale apprezzamento intellettuale e morale.
Quando vedo, anche nella presentazione dell’aspirante segretaria del Pd, ancora i vecchi armamentari teorici consunti e bisunti di una sinistra che da decenni sta solo facendo finta di rispettarli, mi viene una grande tristezza, e non perché avesse dovuto riprenderli e utilizzarli, ma perché ha quasi fatto finta di riferirsi ad essi, senza però crederci più, epperò senza ammetterlo con trasparenza e onestà intellettuale. Non ci credono più, ma li ululano. Compresa la novizia, che non mi pare in grado di ammettere che occorre “andare oltre Marx” (chissà se ha letto qualche pagina dei Grundrisse o del Kapital, oppure del leniniano Che fare?, oppure del trotzkijano Letteratura e Rivoluzione, o un pochino di Luxenburg e di Kautskij, di Agnes Heller o perfino di Bernstein…). E basterebbe un po’ di Hannah Arendt… oltre che una umile, diuturna osservazione della realtà attuale della cultura, del lavoro, della società e dell’economia.
Lo dico chiaramente, le cose del Pd mi interessano e penso che la figura di Bonaccini sia la più adeguata per assumerne la leadership, ma non basta. Vi sono migliaia di amministratori del Pd di grande valore e indubbia onestà intellettuale, ma non basta.
La sinistra deve anche smetterla di demonizzare l’avversario politico, oggi Meloni, perché comunque la nuova premier ha la legittimazione democratica. Anch’io ho sbagliato scrivendo su questo sito alcuni mesi fa che la stessa signora sarebbe stata inadeguata, anch’io vittima di una pre-comprensione assurda per chi ritiene di esser un intellettuale onesto. Sto parlando di me stesso.
Ammettere di sbagliare è sano, molto sano. Ora, questa mia ammissione non significa che mi sto convertendo verso… destra. Tutt’altro. Significa che, per avere una qualche speranza di cambiare le cose “a sinistra”, bisogna prima di tutto modificare le strutture delle proprie pre-comprensioni e dei propri pre-giudizi. Questo lo insegna la filosofia dialogica socratico-platonica, che è sempre maestra di un pensiero “sano”. Prima di tutto sano, non corretto o sbagliato, o giusto e ingiusto.
Non mi pare che stia accedendo altrettanto nei loci politici e mentali di cui sto scrivendo. Vediamo che cosa succederà. Caro lettore mio, sempre et semper spes contra spem (copyright di Saulo-Paolo di Tarso, Apostolo di Cristo e santo della Chiesa universale / Giacinto detto “Marco” Pannella, uomo politico coraggioso e onesto intellettualmente).
Riflessione significa specchiamento, piegamento del pensiero su sé stesso.
La riflessione può essere superficiale o radicale. A me non interessa quella superficiale che può essere chiamata anche solamente “chiacchiera”, attività aborrita da Martin Heidegger (cf. Sein und Zeit, 1927), di cui è pieno ogni angolo del mondo e delle vite di ciascuno. Personalmente ritengo la chiacchiera una delle attività umane più idiote e sgradevoli, mentre di ben altra caratura morale e utilità sociale è il colloquio o il dialogo rispettoso e civile tra due o più persone!
A me qui interessa particolarmente la riflessione radicale, cioè quella che riguarda la gnoseologia, ovvero la critica della conoscenza, che è strumento indispensabile per analizzare le cose e i fatti nostri e del mondo, al fine di scoprirne realtà e verità (anche se non mai assoluta, ma concreta e locale, salvo che nei principi primi del rispetto assoluto per l’integrità psico-fisica di ogni essere umano).
Le cose spesso non sono come immediatamente appaiono, per cui sarebbe bene ricorrere sempre agli strumenti della logica argomentativa, come il sillogismo di primo tipo, che Aristotele propose duemila e quattrocento anni fa, che ho citato in questo mio sito non meno di alcune diecine di volte. Due esempi, caratterizzati dalle due premesse e dalla conclusione necessaria: a) Socrate è un uomo, b) gli uomini sono mortali, c) Socrate è mortale, oppure: a) l’uomo è razionale, b) chi è razionale è libero, c) l’uomo è libero.
Inconfutabili: vi è un’affermazione iniziale a premessa, vi è una seconda affermazione a rinforzo generale della prima, si dà infine una conclusione che deriva dalla logicità “inespugnabile” del rapporto tra le due premesse. Bene.
Si pensi all’ideologia politica, sia essa di destra sia essa di sinistra. Spesso, per una logica ferrea, entrambe esprimono conclusioni assolutamente illogiche. Attenzione, non le metto sullo stesso piano sotto il profilo etico, ma le comparo solo sotto il profilo logico. Un esempio: come si fa a sostenere che l’uguaglianza (amata dalla sinistra) ha una valenza politica e morale senza difetti? Molti, i più che militano a sinistra, lo fanno. Dimostro che logicamente l’uguaglianza non sta in piedi: a) l’uomo ha diritto all’uguaglianza, b) ogni uomo è diverso da ciascun altro, c) se applico un’uguaglianza tra diversi, sono ingiusto, iniquo…
Come si risolve questa aporia logica? uscendo dalla logica stricto sensu,e applicando le differenziazioni che ci sono suggerite dall’antropologia filosofica realista-personalista, che va da Aristotele fino a Emmanuel Mounier, passando per Tommaso d’Aquino. Anche questa esemplificazione è presente in molti pezzi precedenti e ne tratterò presto in uno specifico testo in via di pubblicazione. Si tratta di distinguere tra “struttura di persona”, che attesta la pari dignità fra tutti gli esseri umani, in base alla compresenza – in tutti – dei tre elementi della fisicità, dello psichismo e della spiritualità, e “struttura di personalità”, che attesta l’irriducibile differenza di ciascuno da ciascun altro, in base alla compresenza di tre altri elementi, la genetica, l’ambiente di crescita della persona e l’educazioneavuta.
Proseguendo: se ciò è fondato e quindi è vero, anche il concetto di uguaglianza tipico della sinistra va corretto con il concetto di equità-tra-diversi, nel quale titolo morale si riassume, sia l’irriducibiledifferenza, sia la pari dignità di ogni persona, e anche, sia un reddito di cittadinanza per chi non puòsostentarsi, sia una retribuzione adeguata e differenziataper il merito professionale e la propensione al rischio.
E infine, caro lettore, ti propongo l’esempio del ballerino di quarta fila. Scommetto che lo sapresti riconoscere anche se non lo citassi per nome. E non lo citerò, per noia. Si tratta di un parvenù della politica che fino a quattro anni e mezzo fa nessuno conosceva e che poi è stato imposto dai fatti e dai numeri di una pessima legge elettorale. Il suo piglio è quello del re inaspettato rapidamente (mai troppo, a mio avviso) defenestrato, fatto che non accetta, e allora si arrabatta, peraltro con un certo successo nella parte di pubblico che la “gaussiana” colloca tra chi-non-ci-arriva e chi-ci-arriva-molto, auto-contraddicendosi ogni momento, confidando nella scarsa o nulla memoria di molti Italiani.
Per quanto concerne la logica obbligatoria nella riflessione radicale, questo signore ne è completamente alieno. Lo mostro, con un suo tipico sillogismo implicito (fo’ per ridere): a) la guerra è cattiva, b) gli Italiani fanno la guerra (anche se per interposta nazione), c) gli Italiani sono cattivi (e guerrafondai).
Salvo dimenticarsi di dire che lui è stato fra questi “guerrafondai” fino a qualche decina di giorni fa. Ed era la stessa guerra, che si chiama, scientificamente, in politologia e scienza militare: “aggressione della Federazione russa all’Ucraina”; d’altro canto, in Etica generale e nel Diritto positivo ogni aggressione prevede la giusta e proporzionata reazione, anche armata, per una legittima difesa.
Il rigorosissimo codice morale di Tommaso d’Aquino ammette pacificamente che la persona aggredita, se difendendosi uccide l’aggressore, non è imputabile di omicidio, e per tale reato condannabile a una grave sanzione, perché ha solamente applicato la forza necessaria per impedire di essere ucciso. La morte dell’aggressore, nel caso, si configura come effetto secondo non voluto, per il cui esito non si dà, dunque, alcuna responsabilità morale, né penale. E’ chiaro il concetto logico-morale, allora, cari semplificatori e banalizzatori di un pacismo idiota, delirante e insensato?
Il pacifismo razionale ed eticamente fondato è radicalmente altro: è la ricerca diuturna, con la massima pazienza, di una possibilità di interruzione delle ostilità, prima di tutto, di un armistizio successivamente, e infine di una pace che non sia umiliante per l’aggredito (in altre parole, nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina, evitando un consolidamento dei referendum farlocchi celebrati senza controllo alcuno nelle regioni del Don).
Ci sono degli esempi virtuosi da imitare? Sì, me ne viene in mente uno che ci interessa. Ci ricordiamo degli attentanti degli anni ’50 e ’60 in Alto Adige/ Sud Tyrol effettuati da un nazionalismo germanizzante armato? La soluzione politicamente intelligente e moralmente ineccepibile fu, da parte dell’Italia e dell’Austria, di ri-conoscere agli abitanti di quel territorio caratteristiche particolari con la quali si applicò un bilinguismo tedesco-italiano perfetto nella Pubblica amministrazione, negli obblighi disciplinari scolastici, nell’organizzazione sociale, etc., dando ai parlanti-tedesco gli stessi diritti sociali, politici e culturali degli abitanti del Tirolo Settentrionale facente capo ad Innsbruck, ma all’interno della Repubblica Italiana.
Analogamente si potrebbe proporre per il territori afferenti il fiume Don e la Crimea: rimangano ucraini con caratteristiche prevalenti russe. Se si vuole si può. Un passo indietro Putin e un passo di lato Zelenski. Si tratta, peraltro, di una proposta che venne formulata nel 2014 in un gruppo di lavoro transatlantico composto da Obama, Hollande, Merkel, Cameron e Renzi, ma non gli si diede seguito.
Circa il conflitto provocato dai Russi putiniani in Ucraina attualmente si può solo auspicare e lavorare perché sia fermato immediatamente. Circa la sua genesi remota e prossima, al di là delle incontestabili responsabilità dirette degli attuali capi della Russia, saranno gli storici a dipanarne gli intrecci e gli intrighi.
In questa sede non ho fatto la fatica di riportare anche le illogicità della cultura di destra perché ora non mi interessa affaticarmi anche su quel versante. Mi basterebbe che la Destra dichiarasse, per bocca di Meloni, che il 25 Aprile è anche la loro festa, e il discorso sarebbe chiuso, a mio avviso.
La sinistra avrebbe invece bisogno di riflettere – utilizzando la logica razionale – sui “danni” dell’egualitarismo puro sapendo declinare i termini dell’equità, (in un post precedente ho già in parte approfondito questo tema) come insegna la tradizione del socialismo gradualista e del cristianesimo sociale.
Innanzitutto la traduzione delle quattro espressioni latine del titolo: “le cose ripetute giovano“; “sotto il comando di Cesare“;”(lett.te) con il collo storto, ma significando la fatica di accettare una decisione sgradevole“; “essendo le cose così come sono“; “essendo state cambiate le cose che avrebbero dovuto essere cambiate“.
È una costruzione molto comune in latino ed è alternativa al cum + congiuntivo e al participio congiunto: ha funzione di proposizione subordinata temporale, causale, concessiva, ipotetica. .
Contiamo le parole numerando le espressioni: 1) due in latino, quattro in italiano; 2) due in latino, quattro in italiano; 3) due in latino, quattro in italiano, ma sette nel significato demetaforizzato; 4) tre in latino, sei in italiano; 5) due in latino, addirittura dieci in italiano (con la possibilità di ridurle a cinque in questo modo: “cambiate le cose da cambiarsi”, costrutto molto, forse troppo, ellittico, però).
Primo commento: in latino servono esattamente la metà delle parole utilizzate in italiano per dire le medesime cose.
Certamente, tale “risparmio” è particolarmente comodo con l’utilizzo del costrutto grammaticale dell’ablativo assoluto che, con un sintagma composto da un participio verbale e da un nome, basta a rappresentare un’azione o una situazione che si volge nel tempo.
E’ utilizzata anche in luogo di frasi costruite per rappresentare azioni temporali, concessivo-ipotetiche, avversative oppure continuative, che avrebbero necessità di essere espresse con un numero ben maggiore di termini.
In italiano, l’ablativo assoluto può essere reso in forma implicita con il gerundio o il participio, con una proposizione di vario tipo, ma talvolta può essere reso anche con un sostantivo. Alcuni esempi:
diis iuvantibus me absente regibus exactis mortuo Caesare
con l’aiuto degli dei durante la mia assenza dopo la cacciata dei re dopo la morte di Cesare
lett. «aiutandoci gli dei» lett. «mentre ero io assente» lett. «cacciati i re» lett. «morto Cesare»
PARTICOLARITA’
Un tipo particolare di ablativo assoluto è quello costituito da due nomi o da un nome (o eventualmente, un pronome) e un aggettivo. In questo caso il participio presente del verbo sum (che non esiste) viene considerato sottinteso. Alcuni esempi:
Cicerone consule Hannibale duce diis invitis caelo sereno natura duce
sotto il consolato di Cicerone sotto il comando di Annibale contro il volere degli dei a ciel sereno sotto la guida della natura
lett. «essendo console Cicerone» lett. «essendo comandante Annibale» lett. «essendo gli dei contrari» lett. «essendo il ciel sereno» lett. «essendo guida la natura»
«Hostibus victis, civibus salvis, re placida, pacibus perfectis, bello exstincto, re bene gesta, integro exercitu praesidiisque… (Plauto)»; trad. it. mia: Essendo stati vinti i nemici, salvati i cittadini in una situazione tranquilla, perfezionati gli accordi di pace dopo la fine della guerra come una cosa ben gestita, e infine con l’esercito e i presidii militari salvaguardati…: 16 parole latine vs 38 italiane!
In greco, con funzioni pressoché analoghe, vi è il genitivo assoluto.
Come potremmo negare la potenza sintetica ed espressiva di questi antichi costrutti, che potrebbero giovare – quantomeno nel loro “spirito” – a migliorare le qualità espressive contemporanee, che invece spesso indulgono nella banalizzazione terminologica, nell’uso improprio ed inutile di forestierismi e in cedimenti alla cancel culture della lingua condita di politicamente corretto, come nei casi che qui ho più volte citato, e che non richiamo per evitare di innervosirmi ultra!
Non pensi il mio lettore che io sia inopinatamente caduto, nonostante i miei testi e dichiarazioni contrarie, nell’antica eresia manichea, che tormentò il giovane Agostino. No.
Ma la frana di Ischia mi ha indotto a proporre una riflessione apparentemente semplificata. Dico “apparentemente”, perché il titolo potrebbe condurre a pre-comprensioni, giudizi sommari o pregiudizi sulla realtà.
Un breve elenco di bellezze, virtù dianoetiche (direbbe Aristotele) ed efficienze: Delle prime gli Italiani non possono vantare alcun merito, perché si tratta solamente della sorte di essere nati in un territorio, che è il più vario e bello del mondo, per consolidata opinione universale. Lo ammettono perfino i Francesi, e se lo ammettono loro, figurarsi gli altri, dagli Inglesi in poi, fino all’adorazione smisurata dei Giapponesi.
Delle seconde, le virtù dianoetiche, cioè le capacità creative, certamente gli Italiani hanno di che “vantarsi”, anche se con moderazione: non serve qui riportare l’infinito elenco delle creazioni artistiche e dei valori culturali prodotti dal genio italico (così si usava dire fino al fascismo, sintagma poi negletto, per l’abuso fascista dello stesso).
Se poi vogliamo citare le “efficienze”, ebbene, ancora troviamo gli Italiani fra i primissimi del mondo, primi in diversi campi: intendo l’economia generale, quella aziendale, quella dei servizi, a partire da quel mix di virtù dianoetiche e di efficienze che sono le produzioni afferenti al Made in Italy, cioè moda, mobilio, calzature, estetica automobilistica, architettura, etc., senza trascurare alcun settore produttivo.
E veniamo all’Italia delle deficienze. Qui l’elenco è immenso, ed è quello che azzoppa l’Italia, come se la “troppa fortuna” della prima parte esigesse una nemesi, una compensazione.
Intendo, in generale, la politica e principalmente la politica nazionale, interpretata da pessimi attori, salvo rare eccezioni. Un’accolita di legulei freddi ed opportunisti, vanamente contrastati da pochi galantuomini che non vivono di politica, ma che credono nella politica.
Non farò nomi, per non dimenticarne alcuno, e anche per non fare la dispendiosa e fastidiosa fatica di ricordare personaggi che non stimo. Spesso i peggiori sono a capo dei partiti, e in due casi di questo periodo questo è certo.
Lettor mio, sai bene a chi mi riferisco.
A latere di costoro c’è la pletora dei burocrati e dei grand commìs di stato che comandano – nel quotidiano – tutti i servizi. Uno di questi ha addirittura pubblicato un illuminante pemphlettino anonimo che conferma quanto vo dicendo. Questi personaggi, che troviamo dal piccolo dei comuni al grande dei ministeri, variamente diffusi, sono impegnati, innanzitutto, a difendere la propria rendita di posizione, e poi ad attuare le deliberazioni della politica. E allora, non poche volte, si mettono di traverso, non perché hanno rilevato che qualche procedura non è rispondente alla legge, ma perché gli “conviene” rallentare la pratica, o perché temono di mandarla avanti per un remotissimo rischio che qualcuno li quereli.
Dopo queste categorie su cui ho espresso giudizi poco lusinghieri tocca ricordarne un’altra, e non meno importante. Un detto in qualche modo veritiero e nello stesso tempo nefasto recita “ogni popolo ha i governanti che si merita“. Ebbene, se critico politici e burocrati non posso trascurare chi quei politici elegge: il popolo. Il popolo non è quell’entità quasi “sacrale” che qualcuno tenta di far passare come verità, ma una congerie sconfinata di persone ognuna delle quali ha i pregi e i difetti tipicamente umani: anche la pigrizia, l’egoismo, a volte l’incapacità di analisi, l’ignoranza.
Tutte queste deficienze si aggregano a quelle dei due soggetti sopra descritti e succede il patatrac, che consiste in atteggiamenti che favoriscono malversazioni e malgoverno, comprese decisioni su condoni et similia, che sono la prima ragione, ed è solo un esempio, del dissesto idrogeologico non-gestito, oltre che di un altro elemento di inciviltà, l’evasione fiscale, con il suo corollario astuto dell’elusione. E i populisti sono i “coltivatori” pericolosi e indegni dei peggiori “istinti” popolari.
Una piccola cosa capitata a me. Incaricato di un progetto culturale in un comune veneto, e concordato il compenso, ho dovuto penare le pene dell’anima per potere avere un acconto, perché “di solito noi paghiamo gli esterni alla consegna del progetto“. Solo che in quel caso avrei dovuto lavorare per due anni (ovviamente non a tempo pieno) senza vedere un euro. Poi riuscii ad avere il 50% dopo il primo anno di lavoro. So che funziona così, da tante testimonianze di professionisti e imprese che lavorano per il pubblico: una forma indiretta ed iniqua di finanziamento del settore pubblico, a rischio dei legittimi e concordati compensi di chi lavora nel servizio commesso o appaltato.
Per la parte dell’Italia deficiente potrei citare ora la tristissima, cialtronesca e vergognosa vicenda afferente l’onorevole Aboubakar Soumahoro (che finora sembra non essere stata presa sul serio dai suoi supporter politici), ma evito di farlo, perché fatto oramai notissimo e per non aumentare i miei umori negativi.
Vengo alla tragedia di Ischia. In modo chiarissimo si sono manifestate le “due Italie”. L’Italia della deficienza si è mostrata nelle parole di Conte, che ora negal’evidenza di un condono (la parola “condono” è presente in più parti del Decreto “Ponte Morandi etc.”) che lui firmò da capo del Governo nel 2018 (allora eterodiretto dal genio di Dimaio), decreto che allora fu votato dalla maggioranza gialloverde e (ahi ahi, Meloni!) da Fratelli d’Italia. Meraviglia questo suo negare? No, zero. Basti pensare alle sue posizioni sull’aggressione russa all’Ucraina, che definire ondivaghe e mero e triste eufemismo.
L’Italia dell’efficienza invece si trova nelle parole del Presidente della Campania De Luca, che – tra altro di saggio – ha detto che non esiste concettualmente “l’abusivismo di necessità”, ma solo l’abusivismo, e che si deve intervenire subito attuando le demolizioni decise per legge, oltre a tutto quanto è già stato progettato e finanziato per affrontare il dissesto idro-geologico strutturale dell’Italia.
Le persone devono mettersi in testa che l’acqua torna sempre dove è già stata,e se non trova spazi se li crea. Lezione, non del professor Mario Tozzi, ma del contadino di Glaunicco di Camino al Tagliamento (che conosce il grande fiume alpino a regime torrentizio) Gjovanin dai Manis. Quindi non ci sono scuse, né son credibili le pietose geremiadi che si sentono ululare dopo ogni disastro.
La politica e la scuola hanno il dovere di fare capire che non si può sanare tutto e sempre, ma si deve sanare soprattutto il modo di ragionare degli Italiani. Allora la pars deficiens comincerà ad essere sostituita da quella efficiens.
Sono interessato a dare un contributo, nel mio piccolo, alla ricerca di temi, argomenti, priorità, ma soprattutto valori etici e politici per una “sinistra nuova”, non per una “nuova sinistra”, sintagma che potrebbe creare qualche ambiguità o fraintendimenti. Mi piacerebbe che questa mia riflessione arrivasse anche nelle stanze dove in molti si stanno dando da fare per farsi eleggere nuovi capi del Partito Democratico. Senza false modestie, penso che potrebbe essergli utile (se non opportuno o addirittura necessario, visto che da anni (o decenni? dai tempi di Veltroni?) – da quelle parti – non si producono concetti e pensieri di filosofia socio-politica, vero Franceschini, Bersani, Orlando, Zingaretti et co.?, evitando di citare i giovani alla Provenzano, che assomigliano maledettamente ai quattro citati prima.
Storicamente, in Italia, sia la sinistra comunista sia la sinistra socialista, anche se con modalità e in misura diverse, hanno avuto come stella polare il discorso e il valore etico-politico-sociale dell’uguaglianza.
Tale valore ha poi dialogato, almeno dalla seconda metà del XIX secolo, non mancando di confliggere, anche con il mondo cattolico, che per parte sua ha sempre tenuto in evidenza il sentimento e il valore della fratellanza universale tra tutti gli uomini, ispirandosi innanzitutto al biblico versetto 1,26 di Genesi “(Egli, Dio stesso) fece l’uomo a sua immagine“.
L’entimema (sillogismo abbreviato) Dio – uomo – genere umano, ha ispirato per millenni teorie (dottrine) e prassi dei movimenti religiosi ispirati dal Cristianesimo nelle sue tre principali declinazioni del Cattolicesimo, dell’Ortodossia orientale e del Protestantesimo, anche se quest’ultima modalità storico-religiosa si è distinta abbastanza chiaramente dalla visione cattolica (soprattutto), la quale ha conservato, nel rispetto del nome “cattolico” (che nel sintagma greco katà òlon significa secondo-il-tutto), una valenza morale pratico di universalità.
In altre parole, il Protestantesimo, come si evince dai fondamentali studi di Max Weber (cf. soprattutto L’Etica protestante e lo Spirito del capitalismo), ha evidenziato come la Grazia divina tenda a “privilegiare” (termine oltremodo impreciso) chi si dà da fare nella vita confidando nella Grazia stessa: teologicamente, sulle tracce della lezione paolina e di sant’Agostino, primo ispiratore di frate Martin Luther.
La visione egualitaria delle sinistre storiche si è dunque incontrata con la visione universale del cristianesimo cattolico, costruendo un’alleanza di fatto, soprattutto nelle prassi sociali e sindacali di tutto il ‘900, spesso addirittura in concorrenza per acquisire più adepti tra i lavoratori e nella società civile.
Esemplifico: dopo l’avvio della Guerra fredda negli anni successivi alla Seconda Guerra mondiale, la CGIL unitaria (come rappresentanza generale della sinistra sociale), ritrovatasi, dopo il ventennio fascista, con il Patto di Roma del 1944 (mentori il grande e compianto Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio e Giulio Pastore) si spaccò, prima in due parti, con la nascita della CISL (sindacato cattolico) nel 1948, e poi in tre parti, con la nascita nel 1950 della UIL, punto di riferimento delle forze laiche, come socialdemocratici, socialisti e repubblicani (nomi definitivi dopo un periodo di altre denominazioni acronimiche).
Negli anni successivi vi fu concorrenza soprattutto tra la CGIL, che era costituita da tutti coloro che nel mondo del lavoro facevano riferimento al Partito Comunista Italiano e alla maggioranza dei Socialisti (anche dell’area più radicale di Unità proletaria), e la CISL, e il maggiore tema nel quale si dialogò e ci si scontrò era il tema dell’uguaglianza salariale. In quegli anni, solo una parte della FIOM (Federazione Impiegati ed Operai Metallurgici) e la UIL sottolineavano anche l’importanza dell’inquadramento per livelli, con il quale andare a riconoscere capacità professionali diverse e a retribuirle in proporzione.
Tant’è che il mondo dei media coniò anche un termine abbastanza sgradevole nei toni e negli intendimenti per definire la comune sensibilità egualitaristica tra la maggioranza della CGIL e la CISL: andò in auge il termine “cattocomunisti”.
Solo per citare un altro fenomeno intrinseco alla sinistra politica: nei decenni tra gli anni ’60 e gli anni ’80/ ’90, si mossero anche forze di estrema sinistra, variamente denominate, che “nutrirono” gli ulteriori estremismi dell’Autonomia organizzata di un Toni Negri (cattivissimo maestro), fino alle organizzazioni della lotta armata delle Brigate Rosse e di Prima Linea (mentre a destra operava lo stragismo orrendo dei Nar e altri, una cum i servizi segreti deviati). L’onestissima “ragazza del XX secolo”, Rossana Rossanda, riconobbe negli estremismi citati un album di famiglia della sinistra italiana, che non è stata sempre – nella storia – gradualista e parlamentare.
Una nota mia personalissima: nei decenni successivi al massimo fulgore delle organizzazioni di estrema sinistra, mi sono visto sorpassare a destra da innumerevoli ex militanti duri e puri che mi consideravano, essendo io socialista gradualista, più o meno una “spia dei carabinieri”. Ricordo che quando andavo a trovare qualche amico mio, a cui volevo bene anche se non condividevo nulla della sua posizione politica, in quei “centri sociali”, che furono anche fucina di scelte individuali armate, appena mi vedevano si davano la voce (sottovoce): “attenti che arriva Renato, cambiamo argomento“.
Ovviamente si dovrebbe (dovrei) meglio specificare questi fenomeni e questi schieramenti (ad esempio, andrebbe fatto un discorso a parte sui sindacati del Pubblico impiego, dove la Cisl esercitava una sorta di egemonia, con una cultura di stampo corporativistico e conservativo, stante la concorrenza del sindacalismo autonomo), perché la realtà era molto più frastagliata, variegata e complessa. Non dobbiamo dimenticare che tra lavoratori del Pubblico e lavoratori del Privato sussistevano differenze (peraltro ancora presenti) radicali a livello legislativo ricorrenti agli ultimi due decenni del secolo precedente, quando il capo del Governo Francesco Crispi definì giuridicamente il ruolo dell’impiegato pubblico.
Proseguendo in questa analisi sintetica ricordiamo i regi decreti del 1922 sulla distinzione tra qualifiche di operaio e di impiegato, e l’istituzione di Inps e Inail nel 1933, e poi passiamo al secondo dopoguerra.
Negli anni ’60 si tentò l’unità sindacale tra le tre maggiori confederazioni, ma il progetto non riuscì, confermando una sorta di incapacità delle forze sociali di auto-riformarsi, potendosi dire che la fine del comunismo post 1989 non ha generato quasi alcun cambiamento nel sindacato, mentre alcuni partiti della sinistra sono stati smantellati dai giudici ai tempi di tangentopoli. Solo il PCI-PDS se la cavò…
Vengo al nucleo concettuale cui desidero continuare a dare spazio, sulla traccia di post immediatamente precedenti. Se storicamente le sinistre hanno sostenuto prevalentemente il valore dell’uguaglianza nella sicurezza, ora dovrebbe essere in grado di comprendere l’importanza dell’equità nella libertà, che le giovani generazioni mostrano di preferire, stanchi dell’egualitarismo collettivistico delle sinistra storiche.
Se la sinistra non riuscirà a dare centralità a questa “riforma etico-culturale”, l’importanza di un pensiero “di sinistra” sarà sempre meno significativo se vogliamo parlare più in generale dell’economia e della società italiana.
Riassumendo, l’Italia è la 3a potenza economica d’Europa, è 1a o 2a nella manifattura, 1a nel settore metalmeccanico, ma è penultima dell’aumento del Pil e ha lasciato i salari fermi da almeno trent’anni.
Mi chiedo: quante responsabilità ha la sinistra politica (i partiti) e quella sociale (i sindacati) in questo deliquio retributivo?
I lavoratori italiani, a differenza dei loro colleghi delle principali Nazioni, sono gli unici ad avere perso potere d’acquisto, nonostante il meraviglioso sistema del Made in Italy.
Le persone, e i lavoratori in primis, temono il futuro e, anche quando hanno mezzi economici, non spendono, e dunque la domanda interna crolla, mentre sul versante pubblico mancano gli investimenti e una seria riforma per la sburocratizzazione del sistema.
Può la sinistra suggerire un pensiero politico economico nuovo, di rilancio dello sviluppo? A mio parere sì, ma non deve continuare a pensare e a muoversi come sta facendo ora.
Può essere ancora attuale un pensiero socialista democratico che faccia chiarezza sul valore intrinseco delle imprese in un bilanciamento tra diritti e doveri, sia degli imprenditori sia dei lavoratori?
Domanda retorica: io ci credo, mi piacerebbe ci credessero anche quelli che stanno preparando il loro Congresso, tra dichiarazioni presuntuose e paura del cambiamento! E altri tutt’intorno.
Caro lettore, perdonami la scelta di questo orrendo neologismo, di cui non sono l’autore, ma forse uno dei primi utilizzatori: il “dirittismo”.
Come tutti gli “ismi” pare essere qualcosa di sgradevole, di negativo, ed effettivamente lo è, come tutte le esagerazioni o deformazioni. Si tratta della de-formazione di “diritti”, i quali, concettualmente e storicamente di solito vengono collegati ai “doveri”.
Storicamente, i “doveri” hanno sempre avuto la primazia sui diritti, fin dalle filosofie antiche, dall’etica aristotelica e stoica, da Seneca a Tommaso d’Aquino fino Immanuel Kant e a… Giuseppe Mazzini.
Con l’avvento del parlamentarismo e delle democrazie moderne di stampo illuminista, i diritti sono entrati a pieno titolo nel lessico principale della politica.
Sotto il profilo dottrinale i diritti si suddividono in fondamentali, legati alla vita umana e alla sua salvaguardia integrale, sociali e civili. I diritti fondamentali e sociali sono stati curati per primi, con l’habeascorpus giuridico, il diritto alla difesa in giudizio, con la contrattualistica del lavoro e poi con le tutele sociali sanitarie e pensionistiche. Buoni ultimi, dunque, i diritti civili, come il diritto al voto e al suffragio universale.
Ad esempio, in Italia, se gli uomini hanno avuto il diritto di votare tutti, senza distinzione di classe o di censo attorno al 1910, le donne hanno potuto votare tutte solo dal 1946.
Il divorzio e l’interruzione di gravidanza sono stati “diritti civili” (definizione molto imperfetta soprattutto in relazione al secondo diritto citato) di più recente acquisizione, assieme alla parità formale di trattamento di uomini e donne sul lavoro. “Formale”, perché non si è ancora realizzata, soprattutto per quanto attiene ai trattamenti economici.
Un esempio per tutti: nel 1970 è stata emanata la Legge 300 “Statuto dei diritti dei lavoratori”, che equilibrò i rapporti tra dipendenti e datori di lavoro, che fino ad allora erano stati molto squilibrati a favore degli ultimi. Ricordo con piacere l’occasione che ebbi a una Direzione nazionale del Sindacato di cui facevo parte, di aver incontrato colui che redasse lo Statuto dei Lavoratori, il professor Gino Giugni, il più insigne giuslavorista del tempo, socialista riformista e uomo gentile. Mi spiegò, stando in piedi al caffè, come lo Statuto fu votato dal Centrosinistra di allora con i comunisti che si astennero, perché “non potevano” votare per il Governo cui si opponevano, anche se nel Governo i socialisti di Nenni e i socialdemocratici di Saragat avevano un ruolo importantissimo. Infatti, non a caso era stato incaricato lui di redigere quella importantissima Legge.
Bene.
Negli ultimi decenni, invece, sono stati proposti al dibattito cultural-politico nuove tipologie di diritti, ed è qui che nasce quella che finisce con il diventare “dirittismo”. E siamo ai nostri giorni.
Se parliamo di ambiti civili troviamo, nell’ordine:
a) unioni civili tra persone dello stesso sesso (che qualcuno si ostina a chiamare “matrimoni”, ignorando del tutto il latinismo giuridico che costituisce la semantica del termine: mater-munus, cioè ufficio-della madre, che, fino a prova biologica contraria, non può essere un maschio), diritto ottenuto;
b) adozioni per coppie omosessuali, diritto non ottenuto, a mio parere giustamente sotto il profilo etico-pedagogico;
c) maternità surrogata, come b), e speriamo così resti;
d) dizione genitore 1 e genitore 2, invece che madre e padre, sui moduli anagrafici (recentemente confermata dall’Alta corte), che a me sembra una sesquipedale stupidaggine (scuola elementare di Viggiù: “Paolo, ieri è venuta a prenderti quella signora, è mamma tua, vero? Ma quella di oggi chi è, la zia? No… è papà), care nere toghe autorevolissime, etc..
Sotto altri aspetti ora alcuni nulla facenti si esercitano a litigare nervosamente con la lingua italiana, proponendo di femminilizzare tutti i termini che storicamente sono nati (e funzionano bene) al maschile. Un esempio di questa idiozia, per tutti: è noto che nella politica e nel sindacato il termine-ruolo di “segretario” è riferita al capo politico dell’organizzazione (si pensi alla figura di Stalin nel Pcus, o anche più minutamente alla mia come segretario regionale di un sindacato), che comandava, mentre il termine di “segretaria” significa e rappresenta un ruolo subalterno e di supporto. Infatti, la premier italiana testé eletta preferisce – giustamente – farsi chiamare “Il” Presidente del Consiglio”, non “La (Presidente del Consiglio)” e men che meno “Presidentessa”. D’altra parte il deverbale “presidente” è il participio presente del verbo “presiedere”, e quindi…
Di queste teorie balzane vi sono anche militanti ben individuabili. Due su tutte: Murgia Michela, scrittrice di cui non ho mai letto un rigo (e non mi manca, preferisco passare il mio tempo rileggendo mille volte Dickens o Gogol o Manzoni) e Boldrini Laura, nota politica. Dietro a costoro e alle loro risibili teorie c’è un piccolo stuolo di uomini e donne dei media e diversi politici di sinistra, specialmente quelli/ e più snob e radical chic. I politically correct, che sono anche paladini dell’orrore culturale e morale della cancel culture. Vorrei che venissero in un qualsiasi paese friulano a spiegare che loro butterebbero giù i monumenti ai Caduti di tutte le guerre, per vedere la reazione del popolo che loro si illudono di rappresentare. Vada per i giornalisti/ e, ma i politici della sinistra, così facendo, perdono un’altra occasione di riprendere un percorso politico e culturale che gli appartiene, ma quelli/ e attuali non lo sanno. Un nobile percorso che ha avuto esempi gloriosi, come quello che segue.
La sigla F.I.O.M. è l’acronimo della più antica federazione sindacale di categoria e significa Federazione Impiegati Operai Metallurgici, anche se qualche suo militante non se lo ricorda neppure. Ebbene, gli straordinari operai, impiegati e tecnici che fondarono nell’ultima decade del XIX secolo questo sindacato avevano in testa, oltre che i loro diritti che allora erano tutti da conquistare, anche i doveri che avevano imparato a rispettare.
Potrei esemplificare ad libitum, ma mi fermo qui, suggerendo solo di riprendere la lettura di alcuni classici anche abbastanza recenti, che dovrebbero essere proposti addirittura in famiglia e certamente a scuola. Utile una lettura mazziniana:
«Colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia, che porteranno le vecchie passioni nell’ordine nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque di trovare un principio educatore superiore a siffatta teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli senza farli dipendenti dall’idea d’un solo o dalla forza di tutti. E questo principio è il DOVERE. Bisogna convincere gli uomini ch’essi, figli tutti d’un solo Dio, hanno ad essere qui in terra esecutori d’una sola Legge – che ognuno d’essi, deve vivere, non per sé, ma per gli altri – che lo scopo della loro vita non è quello di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli altri migliori – che il combattere l’ingiustizia e l’errore a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, è non solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza colpa – dovere di tutta la vita.»
(Giuseppe Mazzini, Dei Doveri dell’Uomo, 1860)
Dopo il grande Italiano, sulle sue tracce troviamo politici come il Presidente americano Woodrow T. Wilson, il premier britannico David Lloyd George, e anche diversi leader post coloniali come Gandhi, David Ben Gurion, Golda Meir, Nehru e Sun Yat Sen.
Suggerirei a Stefano Bonaccini che mi auguro sia eletto segretario del PD di riprendere questa letteratura etico-politica.
Osservo le triste manovre in vista del congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione, ma sono sempre loci di distribuzione di posti di potere e di stipendi, candidature alla segreteria tra il risibile (De Micheli/ Provenzano / …) e il presuntuoso (Schlein, e chi è? 37 anni, pontifica di economia e di società dicendo ovvietà e vecchiume, come quando attacca il Jobs Act, lei che non ha mai visto – ne son certo – un’azienda di produzione, e ha incontrato lavoratori e imprenditori in tutta la sua vita come io in un giorno solo), presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e di sociologia politica da Lucia Annunziata (riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista), mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci a Berlinguer, e recuperando perfino (!!!) il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in “esilio”, termine giuridicamente improprio, ma evocativo di uno stato della situazione colmo di un grande malessere etico e politico. La tristezza continua a sinistra.
Poi ci sono i “vecchi” saggi, brave persone alla Cuperlo, che credono ancora al metodo correntizio, magari non à la Franceschini, che è una vecchia lenza democristiana, senza accorgersi che il possibile-mondo-di-una-“sinistra-possibile” (l’aggettivo non ha nulla a che vedere con il movimentino del simpatico Civati da Milàn) va da tutt’altra parte.
A guardare lo spettacolo vien da pensare immediatamente che pare il set di una commedia tragicomica tendente al grottesco. Su un lato ci sono coloro che non si limitano (come continua a fare Letta rasentando il patetico) a criticare Renzi & Calenda, ma di costoro percepiscono la plausibilità delle critiche, come Bonaccini (che spero venga eletto segretario, ma ho molti dubbi su tale prospettiva) e dall’altra ci sono quelli che starebbero con Conte notte e giorno. Povero “Partito storico della sinistra”! Questi si chiamano Speranza, Provenzano, Bettini, ma anche Bersani che ha rinunziato alle fatiche improbe della prima fila. Dal loro punto di vista non si sono accorti che stanno correndo dietro a uno che è ontologicamente un “notabile democristiano fuori tempo massimo”. e di più non dico su un personaggio sul quale mi sono già esercitato troppo, e non a suo vantaggio.
Non è che i primi debbano accodarsi a Renzi & C., ma mi pare evidente che l’unica strada percorribile per una “sinistra possibile” sia quella capace di dialogare con la contemporaneità dei nuovi mezzi di comunicazione, con i “valori” delle ultime generazioni, che non hanno dimenticato la solidarietà e i sacri principi di eguaglianza evangelico-socialista, ma vogliono declinarla secondo il principio di equità, che è l’epicheia aristotelica.
Il principio di uguaglianza è da collocare solamente nel giudizio antropologico della struttura di persona, nella pari dignità di ogni essere umano, ma non nella struttura di personalità, che dice irriducibile differenza, unicità mia, tua, sua, caro lettore! Una sinistra che non si accorge che oggi i giovani desiderano rappresentarsi nella vita in modo diverso da come lo volevano i giovani anche solo di mezzo secolo fa, non può accostarli, e nemmeno portarli a condividere una lotta politica.
E questo lo spiegano la sociologia e l’antropologia culturale: oggi, il valore più importante percepito è la possibilità di essere sé stessi, non di essere uguali a tutti gli altri! Una sinistra capace di dialogare con il tempo attuale deve cominciare a capire cheil valore principale non è l’uguaglianza, ma l’equità nella libertà. Ancora Aristotele e Tommaso d’Aquino. I signori sopra citati non studiano più (se mai hanno studiato). Studino con umiltà la filosofia morale classica, dallo Stagirita fino a Kant, per saper declinare anche il principio del dover-essere-come-lo-richiede-la-realtà-fattuale-attuale, che non è quella di Marx, di Lenin e di Gramsci, ma neanche quella di Berlinguer e di Gorbacev.
Se una “sinistra possibile” vuole vincere di nuovo differenziandosi dalle destre al potere, soprattutto da quella salviniana, deve saper declinare valori ritenuti “di destra”, come il successo individuale e il non-collettivismo, con il rispetto dell’individuo-persona che non è ascrivibile a nessun operaio-massa modernamente declinato.
Non sto proponendo un relativismo etico all’americana, né un liberismo economico senza leggi regolatrici, che ritengo indispensabili, soprattutto a livello sovra-statuale (una UE vera!), ma uno sforzo di comprensione dei nuovi linguaggi che rappresentano un mondo nuovo, preoccupante per molti aspetti (clima, guerre, pandemie…), ma pieno di potenzialità straordinarie (ricerca scientifica, esplorazione dello spazio, sviluppo di terre e popolazioni finora neglette…).
Una “sinistra possibile” non teme di concordare con la cultura politica di destra sul tema delle migrazioni, e si misura non sul ruolo delle ONG o su porti aperti o chiusi, ma sullo sviluppo del Sud del mondo, rischiando anche topiche ed errori. Un esempio, se il da me (e non dal PD, ahi ahi) rimpianto ministro Minniti (di sinistra!) ha fatto accordi con i Libici di dubbia efficacia e con esiti morali anche negativi, lo spirito della sua iniziativa di “lavorare in Africa” era giusto, corretto, eticamente fondato e politicamente lungimirante.
Una “sinistra possibile” non tema di misurarsi su un tema controverso come il “reddito di cittadinanza” di matrice grillina, e accetti di selezionarne rigorosamente i beneficiari, smettendo di ululare, una cum travaglieschi borborigmi giornalistici, all’attacco ai poveri!
Anche le dottrine morali cristiane (musulmane e buddiste) ammettono l’esigenza di accostare al principio dell’amore di benevolenza (la nobile Caritas, che comprende anche, nei casi estremi, l’elemosina), il principio dell’impegno individuale e del riconoscimento dei meriti derivanti da questo faticoso impegno, e da differenze antropologiche strutturali (genetica, ambiente, educazione).
Il tema delle “stesse opportunità” di partenza, tipicamente “di sinistra”, se declinato in modo assoluto, è realisticamente assurdo. Bisogna invece creare le condizioni per un’istruzione accessibile ai massimi livelli per tutti… quelli che vogliono istruirsi. Per illustrare questo principio devo di nuovo ricorrere alla mia biografia personale e a un esempio esterno.
Quando la mia umile famiglia condivise con me che sarei andato al liceo classico (incredibile dictu per chi aveva solo la licenza elementare, come i miei genitori!), vi andai con profitto. Altri miei coetanei non ci andarono, a volte anche potendo economicamente farlo con facilità. In questo caso come si considerano le pari opportunità di partenza? Io, partendo da più indietro, sono andato più avanti. Che legge ho violato? Quella delle pari opportunità? Al contrario, io ne avevo di meno. E allora? La verità è che è antropologicamente insopprimibile l’irriducibile differenza della struttura di personalità singola.
Il mio bisogno, come quello degli altri coetanei, era quello di studiare; il mio merito è stato quello di aver studiato (e di continuare a farlo), mentre altri, pur potendolo fare, non lo hanno fatto. E’ di destra che io abbia raggiunto il livello accademico di due dottorati di ricerca? E’ di destra il merito acquisito con la mia fatica, con il coraggio dei miei e con l’aver io avuto molta forza fisica e psichica e salute?
No, non è né di destra né di sinistra, cari Schlein, etc., mentre i vostri detti e fatti sembra che vogliano farlo apparire tale, come quando avete polemizzato con la nuova dizione del Ministero dell’Istruzione e del Merito neo istituito, perché la parola Merito, che significa differenza (antropologico-filosofica), vi fa paura, perché la ritenete di destra. Suvvia! Studiate, studiate.
Merito e bisogno vanno declinati assieme, come tentava di fare, inascoltato, il Ministro della Giustizia del governo Craxi, Claudio Martelli, a metà degli anni ’80.
Un altro esempio è quello di un grande imprenditore, della mia stessa classe sociale: egli partì per la Germania mezzo secolo fa, o poco più, come garzone gelataio, e oggi ha tremila e cinquecento dipendenti con un fatturato di oltre cinquecento milioni di euro, che lo hanno fatto diventare un gran signore, ma con il lavoro retribuito di migliaia di persone, lavoro che ha creato lui con i suoi valorosi collaboratori, dal più giovane dipendente all’amministratore delegato.
Cara Sinistra e caro PD, ce la fai a discutere in questo modo di come “essere sinistra” oggi senza aver paura di condividere valori che non sono storicamente nati nel tuo grembo, per poi declinarli con i tuoi? E magari anche il valore semantico, politico e morale della parola “Patria”, termine da te negletto, perché pensi che sia ancora fascista. Dai!
Se sì, se riesci a discuterne e a considerare in questo modo l’essere-di-sinistra-oggi hai speranze, altrimenti, lascerai il TUO campo di lavoro politico e sociale ai furbi populisti che si spacciano per sinistra e a quelli che saranno sempre voces sine fine clamantes, toto populo inutiles.
Partiva per il Nord Europache aveva appena compiuto diciassette anni, per andare a fare il garzone in gelateria. Dopo due anni l’aveva comprata e dopo un altro anno ne aveva comprata altre due. Ma voleva crescere ancora.
Si guardava in giro per vedere se c’era qualcosa di meglio da fare. Ecco: una fabbrica per la produzione di gelato, e la crescita delle sue iniziative si realizzò in termini quasi geometrici. Si era messo in affari con i suoi fratelli, aveva sposato una brava ragazza di quelle plaghe laboriose, gli erano nate due figlie e poi un figlio.
A un certo punto era tornato in Italia, soddisfatto del gran lavoro già fatto prima dei quaranta anni. Ma il dèmone della creazione di impresa e di nuova economia lo aveva ricatturato prestissimo. Ed ecco che anche in Italia inventa un modo di vendere cibi buonissimi a domicilio e poi diventa industriale, producendo pane e pizze.
Il resto è storia degli ultimi trentacinque anni. Ora presiede aziende che occupano, tutte insieme, più di 3500 persone con fatturati che qui non riporto, perché sono pubblici. Ora, niente potrà mai inficiare in alcun modo le dimensioni e la sua statura di uomo di economia e di azienda. Di persona carismatica e rara.
Talvolta gli capita anche di essere un po’ malinconico, silenzioso, dopo tanto darsi da fare. Eppure ha fatto della sua vita un “capolavoro”. E’ stimato, a partire da chi scrive questo pezzo, ma soprattutto in tutto il mondo dell’economia, dai suoi dipendenti che gli vogliono bene e dalla società che ha contribuito a rendere più sicura, costruendo coesione e cultura del lavoro.
Nella fabbrica più grande di sua proprietà lavorano centinaia di donne che altrimenti non si sa dove potrebbero trovare un’occupazione altrettanto solida. La fabbrica della Pedemontana è il cuore di quella economia e il punto di sviluppo civile, economico e sociale più importante di un ampio territorio. Un’altra azienda di sua proprietà è leader nel settore energetico, una terza gli dà la sensazione di essere, come è sempre stato, un signore legato alla propria terra friulana e a ciò che produce, nel caso uno dei tre cibi più limpidamente sacri di tutta la storia umana, il vino.
Caro e rispettabile amico, questo tempo di cambiamento è un tempo nel quale riflettere a fondo sulla propria vita, accettando il fatto ineluttabile che il tempo fugge e ci chiede un nuovo modo di stare al mondo e tra gli altri.
Caro e rispettabile amico, ogni essere umano deve (deve, come insegnava un grande sapiente tedesco, Immanuel Kant, di cui le ho parlato più volte collegandolo al suo senso del dover-fare) accettare di interpretare un (in parte) nuovo ruolo nel mondo e tra le altre persone.
Caro e rispettabile amico, la vita ci chiede sempre di crescere per affrontare nuove sfide, che in questo caso non sono più solamente “quantitative”, ma più di qualità delle relazioni, di consolidamento e di equilibrio degli affetti, di disponibilità di tempo per dialogare con le persone, portando nel dialogo la sapienza dell’esperienza fatta.
Caro e rispettabile amico, questo tempo di passaggio richiede di guardare il mondo e le persone con uno sguardo in qualche modo diverso, superando la tensione che la ha vista temere sempre per il futuro, lei conoscendo bene i difetti dell’umano e con preoccupazione a volte sospettando premurosamente che potessero danneggiare le splendide iniziative.
Caro e rispettabile amico, questo è il tempo di accettare la complessità delle relazioni umane, la complessità dell’animo umano, che è anche la sua.
Caro e rispettabile amico, questo è il tempo di accettare letture della realtà proposte anche da altri, con le quali confrontarsi senza pre-comprensioni date dall’esperienza, e di fidarsi di più degli altri (specialmente delle persone che le sono più vicine, della famiglia e nelle aziende), perché non sempre l’esperienza insegna tutto per il meglio, e soprattutto non si ha sempre ragione, a prescindere dalla complessità delle cose, dei fatti e degli atti umani, che richiede la fatica di un’analisi approfondita.
Caro e rispettabile amico, in questo modo, quest’altra fase che si apre nella sua vita, potrà portarle arricchimenti importanti sul piano umano e spirituale, e infine normali gioie e tanta serenità, la serenità di un uomo che ha fatto cose eccezionali come pochissimi hanno saputo fare, partendo da una famiglia umile e semplice (come la mia, ed è per questo che la comprendo e quasi la capisco, molto bene).
Buona vita, caro amico, io ci sono, anche per continuare questo discorso seduti, magari sorseggiando un taj del suo buonissimo Tocai.
(Ho scritto questo pezzo per uno stimatissimo imprenditore, cui voglio bene, il cui nome non citerò).
Ora che la signorina Piperno da Roma è tornata a casa dall’Iran dove ha passato in carcere quarantacinque giorni per essere stata “beccata” a manifestare giustamente per ricordare l’ammazzatina (copyright di Andrea Camilleri) vigliacca di Masha Amini, mi viene da ragionare sull’accaduto.
I media la presentano come una travel blogger, cioè una viaggiatrice che pubblica i suoi viaggi su un blog che raccoglie pubblicità per conseguire un reddito.
Oggi ci sono vari tipi di blogger, in generale organizzati e visibili dentro il più vario merchandising / marketing, per lucrare nei rispettivi mercati: tanti clic sul blog, altrettanti centesimi o euro riconosciuti dalla ditta che si pubblicizza sul link; c’è poi il tipo di blogger come me, senza accordi commerciali e con regole precise e rigorose per il dialogo tra me e il lettore. In altre parole, a me arrivano commenti e contatti che – di volta in volta – decido se pubblicare o meno. Se educati e pertinenti li pubblico, altrimenti no.
Di solito pubblico tutto a meno che non vi siano insulti. In quindici anni di vita del mio blog www.sulfilodisofia.it, e la pubblicazione di almeno millesettecento post e una ventina di corsi universitari di etica generale e del lavoro, di sociologia, di filosofia morale e di teologia sistematica in power point, ho ricevuto circa trecento messaggi (pochissimi, dunque), tutti pubblicati eccetto uno solo, che conteneva insulti nei miei confronti, non solo immotivati, ma letterariamente scadenti. Niente da paragonare a una “pasquinata” o cose del genere!
Controllo le statistiche delle visite settimanali/ mensili, e “faccio” numeri di tutto rispetto (circa tremila al mese) che attestano visite da tutti i paesi del mondo nelle seguenti percentuali approssimative: 60% dall’Italia, 20% dal resto d’Europa e 20% dal resto del mondo, con presenze anche dalle nazioni più remote, come le isole Samoa e le Marshall.
Ho scelto di stare nel web in modo curato e rispettoso dei saperi, evitando ogni forma di abbassamento dei toni e dello stile scrittorio, salvo che in certi pezzi dove non esito ad utilizzare l’invettiva e a definire qualcosa come idiozia.
E vengo alla signorina citata. Sono molto lieto che sia stata liberata da quel paese senza democrazia e rispetto per i diritti umani, ma mi chiedo se sia saggio viaggiare in modo così “esposto” in territori di quel genere, peraltro segnalati regolarmente come pericolosi dalla Farnesina.
Se si è maggiorenni e si sceglie di andarci, e di andarci non con lo stile del viaggiatore attento e cauto, ma esponendosi, o per raccogliere immagini e situazioni “forti” e/ o per militanza, si dovrebbe anche accettare di subirne e di pagarne le conseguenze.
Come è successo per le famose “Simone” e le Greta & Vanessa degli anni di guerra Irakeni (la guerra letteralmente “inventata” in modo criminale dal George W. Bush e da Tony Blair, la mia più grande delusione politica dell’ultimo mezzo secolo!), lo Stato italiano si è accollato tutto l’impegno politico, diplomatico e finanziario per la soluzione positiva della vicenda. Addirittura, la signorina è tornata a casa su un jet Falcon dell’Aeronautica militare. Solo il volo sarà costato 50.000 euro… Dico sommessamente: non poteva tornare a casa su un volo di linea?
Spese (nome) quasi come quelle… spese (participio passato) per soccorrere gli sprovveduti che sono caduti con il loro bimbo nel lago ghiacciato l’inverno scorso, calzando delle infradito o giù di lì, o come in altre decine di casi analoghi di persone che vanno in alta montagna con le scarpe da ginnastica e poi restano “incrodati” nottetempo su un sentiero qualsiasi.
La Francia è incazzata con noi per la Ocean Viking posteggiata a Tolone con 230 migranti, mentre a Lampedusa, con il mare calmo, ne arrivano oltre 500 al giorno, la Germania un po’ meno, la Spagna traccheggia, tutti un pochino gelosi&invidiosi di un’Italia, che “ha troppo”: storia, arte, paesaggio, industria, sport, capacità lavorative, troppo, troppissimo. D’accordo che Germania e Francia ospitano più migranti, ma l’Italia li accoglie, li lava, li nutre, li cura, li fa dormire all’asciutto, mai considerandoli “residui”, ministro Piantedosi! Aaah, il linguaggio!
In ogni caso, i portavoce dei ministri di Macron la smettano di inveire contro l’Italia e si tengano i loro problemi interni senza scaricarli su noi. Capiamo bene che Monsieur le President ha problemi sia a destra (Le Pen), che lo rimprovera di lassismo verso i migranti, e a sinistra (Melenchon), che lo cazzia per humanitas insufficiente, ma, mehercules, la smettano, comunque!
Qua da noi Meloni sta sperimentando quanto difficile sia l’arte del governo, il dottore Piantedosi quanto debba studiare per evitare il linguaggio burocratico borbonico cui è stato un po’ abituato da anni di funzionariato, e di Conte mi sono stancato di dire cose poco lusinghiere.
Sbarra Luigi è il segretario generale della Cisl: come la maggior parte dei “parlanti in tv” è talmente scontato nei suoi detti, e noioso, che lo “adopero” per l’addormentamento serale, a volte al posto del sempre più vieto Crozza.
Osservo le triste manovre in vista del congresso del PD: vecchi vizi immarcescibili, correnti che si affannano a presentare le “correnti” interne come centri di riflessione, ma sono sempre loci di distribuzione di posti di potere e di stipendi, candidature alla segreteria tra il risibile (De Micheli/ Provenzano / Nardella) e il presuntuoso (Schlein, e chi è? 37 anni, pontifica di economia e di società dicendo ovvietà e vecchiume, come quando attacca il Jobs Act, lei che non ha mai visto – ne son certo – un’azienda di produzione, e ha incontrato lavoratori e imprenditori in tutta la sua vita come io in un giorno solo), presentazione di libri di militanti imbolsiti… e qui mi fermo un momento: ne ho sentito parlare per Radio radicale, dove gli amici e compagni si sono fatti fare una lezione di filosofia e si sociologia politica da Lucia Annunziata (riflessioni interessanti, quando ha parlato di “PD territoriali”, però dette con il tono saccente e da superioriy complex che è proprio di questa giornalista), mentre D’Alema si è faticosamente arrabattato sulle “radici della storia della sinistra”, da Marx-Gramsci, e recuperando perfino (!!!) il vituperato Bettino, cioè Benedetto Craxi, morto in esilio. La tristezza continua a sinistra.
Potrei continuare con una pletora, o di disutili, o di noiosi, o di incompetenti, o di mestieranti.
Mi auguro che il competente Tajani riesca a farsi ascoltare in Europa con la sua proposta di intervenire in Africa, alla base del problema, e che il tonitruante Salvini lo lasci lavorare.
Si permetta di lavorare ai competenti, anche se noi Italiani siamo quelli che spesso li lasciano a casa, come abbiamo fatto, con Marco Minniti qualche anno fa, e con Mario Draghi un mese fa.
Ho trovato questo classico verso virgiliano per cercare di spiegare a un amico, con una metafora letteraria, l’ambito e le difficoltà nelle quali ci si può trovare in una riunione aziendale, tecnico-politica, o anche filosofica, e perfino in una seduta di auto-coscienza collettiva, come erano solite fare le femministe “anni ’70”.
Le persone si possono trovare come se fossero in un gorgo marino o lacustre assieme ad altre, con la prima preoccupazione di non annegare (nella discussione, specialmente se essa è molto animata).
Una riunione è un “sistema complesso”, poiché moltiplica la complessità del singolo partecipante per la complessità di ciascun altro, in una dimensione non aritmetica, ma geometrica. Infatti, ogni partecipante è lì con tutto sé stesso, con conoscenze, emozioni, pretese, ambizioni…, per cui il primo pensiero che può maturare in ciascuno è quello, prima di tutto, di non sfigurare di fronte ad altri che possono essere competenti come o più di lui.
Se ciò è vero, probabilmente non sarà neanche il secondo pensiero quello di far funzionare bene la riunione, anche a costo che qualcun altro si metta in evidenza. Meglio aspettare e vedere che cosa succede. E a volte succede che, se uno prende la parola spiegando questioni tecniche su cui si è preparato bene, a un altro venga il ghiribizzo di mettere in difficoltà il primo intervenuto con una osservazione bizzarra o impertinente, comunque spiazzante.
Di solito gli altri stanno ad osservare la reazione del primo intervenuto che, se è un tipo paziente e resistente, riuscirà a controbattere con calma e convinzione le proprie ragioni, riuscendo a smontare le obiezioni pretestuose, mentre se è un tipo un po’ fumantino, esploderà mettendosi immediatamente, come si suole dire, dalla parte del torto. E gli altri stanno a guardare, un po’ per vedere come si svolge la polemica e un po’ per individuare il momento giusto per fare almeno bella figura. E a volte anche per il sottile e un po’ perfido piacere del male dell’altro.
In questi contesti, inoltre, ci sono anche quelli che non parlano mai, o perché non hanno nulla di originale e creativo da dire, oppure perché temono di essere “sgamati” nella loro inconsistenza. Di questi tipi umani ve ne sono in tutti i consessi, perché sono bravissimi a insinuarsi nelle pieghe dei gruppi di potere, ed agiscono solo quando sanno di essere più forti, e quasi solamente nell’uno contro uno. Avrei diversi esempi pratici da citare, ma evito. Magari potrei farlo in privato con qualche lettore.
Se quanto descritto è veritiero, emerge subito un’esigenza, anzi una necessità: quella di designare una figura che aiuti il consesso a discutere con ordine e razionalità: il FACILITATORE, o MODERATORE della riunione.
Il facilitatore è necessario, specialmente nei casi in cui la persona più alta nell’ordine dell’autorità e del potere giuridico presente (presidenti, amministratori delegati, direttori generali, etc.), preferisca non assolvere a questo compito, perché non gli piace o perché desidera vedere all’opera i propri collaboratori e misurarne anche in questo modo le capacità gestionali e di resistenza psichica.
Personalmente, presiedendo diversi Organismi di vigilanza ex D.Lgs. 231/ 2001 ed avendo presieduto anche importanti consessi culturali nazionali, oltre a strutture socio-politiche come i sindacati dove ho esercitato anche attività contrattualistiche in seguito mutuate nelle aziende, non ho mai avuto alcun problema a “facilitare” le riunioni, senza eccedere in direttività. Pertanto, tale ruolo si può interpretare, anche se si esercita la massima autorità tra i presenti.
Esempi: se in qualche riunione qualcuno mi anticipa per sua distrazione o mala interpretazione della propria posizione, faccio gentilmente notare che stavo per fare la medesima domanda o che mi ero già premurato di segnare l’argomento sulla bozza di verbale che solitamente ci tengo a redigere io stesso, a scanso di fraintendimenti, a meno che un altro non si proponga di scrivere lealmente ciò che viene detto. Ho esperienze di ambedue i casi.
Tornando alla figura del “facilitatore”, è importante ricordare i cinque elementi che compongono la comunicazione inter-soggettiva soprattutto nelle riunioni:
linguaggi, cioè il “codice espressivo” stili, cioè il “carattere o cifra derivanti dai tratti di personalità soggettivi” modalità, cioè il “modo ordinario di comunicare e le scelte verbali/non verbali/paraverbali” livelli di condivisione, cioè le “simmetrie e le asimmetrie delle informazioni” (tra colleghi e Direzione o Presidenza, etc.) mezzi e strumenti operativi, cioè “telefono, computer, riunione in presenza, oppure on-line, etc.”.
Come si può constatare, ognuno degli elementi pone l’esigenza di rispettare l’importanza che assume, se si vuole che la comunicazione di concetti e informazioni, specialmente se complicati, produca risultati positivi in termini di comprensione reciproca e di avanzamento della discussione per un fine progettuale condiviso.
Se ciò non si realizza, il rischio è di produrre riunioni inconcludenti, inutilmente stancanti e foriere anche di inimicizie tra i partecipanti, specie se la comunicazione scadente ha in qualche modo (anche parzialmente) “lesionato” la Qualità Relazionale tra ciascuno e ogni altro, poiché la QR è la condizione imprescindibile per lavorare bene assieme, tra diversi, ma per un Fine condiviso.
Per tutto ciò, mi pare di poter dire che la figura di un “facilitatore” concordemente individuato, possa evitare infortuni interpretativi (cioè di ermeneutica) durante importanti riunioni di lavoro, di organismi dirigenti e societari. Ad esempio nelle riunioni dei CdA è prevista spesso la figura del segretario-verbalizzatore, che potrebbe anche fungere da moderatore, se ne ha le capacità.
Infatti, non è indispensabile che tale figura sia quella “tecnicamente” più preparata sugli argomenti che si stanno discutendo, ma deve certamente conoscerne gli aspetti principali, per discernere l’ordine degli interventi e favorirne la proposizione, come accade nei migliori esempi di dibattito pubblico governato dai giornalisti più professionali, che vengono anche definiti “moderatori”, e come deve accadere (accade) nei seminari accademici.
Nelle aziende, soprattutto, oltre che in tutti gli altri contesti, bisognerebbe avere l’umiltà di ritenere tale figura necessaria al buon andamento di ogni discussione tra diversi e/o portatori di interessi diversi.
Dispiace che molto “popolo” (forse l’80% del totale del popolo, secondo una realistica “gaussiana” fa parte del “popolo”), quello che non si accorge delle bestialità ciniche e volgari che qualche politico sostiene, continui a ignorare le bestialità stesse.
Guarda un po’, caro lettore, mi riferisco, come già ho fatto millanta volte, all’ineffabile capo dei 5S, Conte Giuseppe, capace di sostenere “A” e il “suo contrario”, tesi logicamente contraddittoria (come ci ha insegnato Aristotele 2400 anni fa, all’incirca con queste parole: “non si può affermare o negare dello stesso soggetto nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto due predicati contraddittori“, che illustra il Principio di non-contraddizione) con la faccia tosta di chi è abituato a mentire anche a sé stesso, perché ontologicamente, proprio come “struttura di personalità”, la quale – come è notorio agli intellettualmente onesti – è costituita da genetica, ambiente ed educazione, è qualunquista, proprio come l’Antonio Albanese della saga di Cetto Laqualunque, prefigurazione cinematografica dell’avvocato foggiano. Auff, Cicero adiuva me!
Respiro, finalmente.
Sulla guerra di aggressione della federazione Russa all’Ucraina: l’ineffabile esclama stentoreo nella piazza uno spaventoso proclama (ah ah ah!) “…il Governo NON SI AZZARDI ad inviare armi all’Ucraina senza un dibattito parlamentare“. Con garbo e una certa nonchalance il ministro Crosetto, cui non dispiacerebbe misurarsi con Conte a singolar tenzone (e l’arma del duello la scelga pure Conte, pistola a colpo singolo, come nel leggendario film kubrickiano Barry Lindon, revolver, semiautomatica, sciabola, picca, fioretto o mazza ferrata, non importa), ha risposto che il Governo si atterrà alle leggi e alle determinazioni assunte democraticamente in Parlamento.
“Non si azzardi...”, una minaccia. Ridicola in sé, come quella del contadino che dice che se tuona può piovere. Ma che paura, una minaccia dell’avv. Conte, che paura! Mi si restringono i calzini di fronte a tanta coraggiosa baldanza! E se il Governo “si azzarda”, che cosa succede, che cosa farà il minaccioso leader scravattato?
Continuerà nel suo percorso sempre più piazzaiolo, o tornerà alla pochette d’ordinanza per riprendere quell’allure che la sua sconosciutezza (sì, “sconosciutezza”, è un neologismo italico, un mio ghiribizzo di cantor domenicale) contribuiva a incuriosire qualche generoso benpensante?
Non stanchiamoci di ricordargli che, Draghi imperante (ablativo assoluto, cuibusque Latina lingua cognita non est), quest’uomo ha sempre votato per inviare aiuti di pace e aiuti di guerra (sistemi d’arma) all’Ucraina aggredita. Giustamente, secondo l’Etica alta del diritto alle legittima difesa!
Le due piazze “per la pace”, quella di Roma e quella di Milano sono state molto, molto, molto diverse. Come il mio lettore ha capito, se avessi potuto sarei andato a Milano, ebbene sì, Con Renzi e Calenda, e anche con la Moratti, essendomi nessuno dei tre simpatico. E avrei evitato accuratamente Roma, ma non perché non comprenda e non sia vicino al sentimento puro dei più, che là marciavano, dalla fanciulla che obliterava la storia con le pagine del sussidiario di terza media, alla signora in età seduta stanca nel mezzo della via che era contenta di star lì, al giovane cinquantenne con barba e naso da clown convinto che allegramente si possa convincere a far pace Putin e Zelenski (sì, perché molti colà intervistati citavano l’uno e l’altro, come se entrambi fossero equamente responsabili dei massacri indecenti), alle colorate ragazzine che compitavano “pace, pace, pace”…
L’avrei (e l’ho) evitata per non incontrare, prima di tutto il già troppo citato giurista daunio, per non incontrare don Ciotti, che mi ha stufato fin dai suoi esordi come eroe antimafia (si lavasse i capelli, ogni tanto!), per non incontrare Fratoianni e Bonelli, i cui discorsi prevedibili fin dal primo accenno pre-verbale m’annoiano come poche altre cose al mondo, per non incontrare Travaglio (mea ratione omnibus cognita), per non avere la pena di incontrare il buon Letta, che apprezzo per quest’ultima stanchissima coerenza civica e morale. Purtroppo è circondato da figure mediocri come il suo vicesegretario e altri, zavorra di questo ex grande partito.
Mi fa male per lui e per lo sgangherato suo partito di questo tempo.
Riporto dal dizionario Treccani, integralmente la dizione di cieco-pacista, s. m. e f. (iron.) Chi sposa la causa pacifista senza il vaglio della ragione. ◆ La distinzione che ci divide è tra pacifisti incoscienti — che dirò «cieco-pacisti» — e pacifisti pensanti. Il cieco-pacista non sente ragioni, è tutto cuore e niente cervello. (Giovanni Sartori, Corriere della sera, 18 ottobre 2002, p. 1, Prima pagina) • Il professor [Giovanni] Sartori ha inventato il neologismo ciecopacista per dire un pacifista virtuoso ma utopico, senza un serio rapporto con la realtà. (Giorgio Bocca, Repubblica, 21 aprile 2004, p. 1, Prima pagina), ad libitum…
A Roma, la piazza era colma di questo tipo di persone, laici e cattolici, questi ultimi convinti da pissime ragioni da me non condivisibili. Ingenui!
Non mi interessano i cieco-pacisti, ma la ricerca di una conoscenza reale dei fatti e le azioni necessarie per porre fine all’aggressione. Pace, dunque, ma in una situazione giusta, dove chi vive in Ucraina possa svegliarsi domani senza un drone sulla testa e la Russia stia tranquilla, se vuole, a sognare i sogni di gloria imperiali nel suo mir, che significa pace secondo i propri voleri, che non diverranno mai realtà.
Le immense onde oceaniche che si abbattono sulle coste frastagliate dell’Algarve (toponimo derivante dall’arabo Al Garbh), sembrano travolgere il coraggioso surfista, ma quegli emerge miracolosamente da sotto la ripiegatura dell’onda che lo rincorre. E lui continua surfando… sull’orlo del caos.
Locandina del film “Un mercoledì da leoni”
Queste onde richiamano concetti matematici come i frattali da un lato, e filosofici come la complessità dall’altro, i cui assiomi primari sono stati approfonditi in questi anni da studiosi di fama come il russo Ilya Prigogyne e l’italiano Alberto F. De Toni, caro e valoroso amico, cui ho “rubato” la prima parte del titolo dal suo account di whattsapp.
Un concetto che si può riferire ai due sintagmi citati è autosimilarità, che in filosofia significa una sorta di analogia di partecipazione della parte (dell’ente) al tutto e viceversa. La sintesi espressiva di questo “tutto” può essere Unità nella Distinzione nella Relazione, che poi è lo slogan del mio blog.
Ecco dunque alcuni punti di tangenza tra filosofia, fisica, matematica e geometrie non euclidee.
Che cosa è un frattale: “un oggetto geometrico dotato di omotetia (in matematica e in particolare in geometria unaomotetia composto dai termini greci omos, “simile” e dal verbo tìthemi, “pongo”) interna, cioè di una capacità di ripetersi nella sua forma allo stesso modo su scale diverse, e dunque ingrandendo una qualunque sua parte si ottiene una figura simile all’originale” (dal web).
Si dà dunque anche una geometria frattale, non euclidea che studia queste strutture, ricorrenti ad esempio nella progettazione ingegneristica di reti, e nelle galassie. Ecco una formula logaritmica adeguata:
Anche in geometria, come in filosofia, si può definire questa caratteristica autosimilarità o autosomiglianza, mentre il termine “frattale” venne scelto nel 1975 da Benoit Mandelbrot nel volume Les Object Fractals: Forme, Hasard et Dimension.
Il termine deriva dal latino fractus (rotto, spezzato), così come il termine frazione, vale a dire parti di un intero. I frattali si utilizzano nello studio dei sistemi dinamici e nella definizione di curve o insiemi e nella dottrina del caos. Sono descritti con equazioni e algoritmi in modo ricorsivo. Ad esempio, l’equazione che descrive l’insieme di Mandelbrot è la seguente: a_{n+1}=a_{n}^{2}+P_{0}}
dove a_{n}} e P_{0}} sono numeri complessi.
La natura produce molti esempi di forme molto simili ai frattali, come ad esempio nell’albero: in un abete, ogni ramo è approssimativamente simile all’intero albero e ogni rametto è a sua volta simile al proprio ramo e così via; un altro esempio si trova nell’osservazione di una costa marina, dove si possono notare aspetti di auto-similarità nella forma che si ripete in baie e golfi sempre più piccoli e collocati in successione lungo la costa stessa.
Altre presenza di forme a frattali sono presenti in natura, come nel profilo geomorfologico delle montagne, delle nuvole, dei cristalli di ghiaccio, di foglie e fiori. Il Mandelbrot ritiene che le relazioni fra frattali e natura siano più profonde e numerose di quanto si creda. Ad esempio, con la stessa mente umana, intesa come organo del pensiero.
«Si ritiene che in qualche modo i frattali abbiano delle corrispondenze con la struttura della mente umana, è per questo che la gente li trova così familiari. Questa familiarità è ancora un mistero e più si approfondisce l’argomento più il mistero aumenta»
Un altro esempio di analisi delle cose si può ritrovare nella logica filosofica denominata fuzzy , che si inserisce a buon titolo in questo novero di ipotesi teoriche.
La logica fuzzy (o logica sfumata) è una teoria nella quale si può attribuire a ciascuna proposizione un grado di verità diverso da 0 e 1 e compreso tra di loro. È una logica polivalente, peraltro già intuita da Renè Descartes, da Bertrand Russell, da Albert Einstein, da Werner Heinseberg e da altri meno conosciuti dai più.
In tema, con grado di verità o valore di appartenenza si intende quanto è vera una proprietà, che può essere, oltre che vera (= a valore 1) o falsa (= a valore 0) come nella logica classica, anche parzialmente vera e parzialmente falsa. Si tratta di una logica-in-relazione-ad-altro.
Si può ad esempio dire che:
un neonato è “giovane” di valore 1
un diciottenne è “giovane” di valore 0,8
un sessantacinquenne è “giovane” di valore 0,15
Formalmente, questo grado di appartenenza è determinato da un’opportuna funzione di appartenenza μF(x)= μ. La x rappresenta dei predicati da valutare e appartenenti a un insieme di predicati X. La μ rappresenta il grado di appartenenza del predicato all’insieme fuzzy considerato e consiste in un numero reale compreso tra 0 e 1. Alla luce di quanto affermato, considerato l’esempio precedente e un’opportuna funzione di appartenenza monotona decrescente quello che si ottiene è:
μF(neonato) = 1
μF(diciottenne) = 0,8
μF(sessantacinquenne) = 0,15
Aggiungiamo a questo novero di dottrine, anche la teorie del caos che troviamo in matematica, le quali possono mostrare anche una sorta di casualità (sul “caso” dirò dopo) empirica in variabili dinamiche, come nel frangente dell’oggetto matematico denominato asintoto (linea parabolica non-finita che si avvicina, senza mai toccarlo, a un segmento soprastante), mostrando come tra lo 0 e l’1 possano collocarsi infiniti (se pure relativamente) numeri o quote.
Ecco perché i paradossi di Zenone di Elea (VI secolo a. C.) possiedono una notevole perspicacia filosofica.
Comunemente il termine “caos” significa “stato di disordine“, ma nella sua dottrina può e deve essere definito con maggiore precisione, in quanto sistema dinamico, non statico, in questo seguente modo:
deve essere sensibile alle condizioni iniziali;
deve esibire la transitività topologica;
deve avere un insieme denso di orbite periodiche.
La transitività topologica è una caratteristica necessaria implicante un sistema evolventesi nel tempo, in modo che ogni sua data “regione”, che è un insieme aperto, si potrà sovrapporre con qualsiasi altra regione data. In sostanza, le traiettorie del sistema dinamico caotico transiteranno nell’intero spazio delle fasi man mano che il tempo evolverà (da qui “transitività topologica”: ogni regione dello spazio delle fasi di dominio del sistema dinamico verrà raggiunta da un’orbita prima o poi). Questo concetto matematico di “mescolamento” corrisponde all’intuizione comune fornita ad esempio dalla dinamica caotica della miscela di due fluidi colorati.
La transitività topologica è spesso omessa dalle presentazioni divulgative della teoria del caos, che definiscono il caos con la sola sensibilità alle condizioni iniziali. Tuttavia, la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali da sola non dà il caos. Per controesempio, consideriamo il semplice sistema dinamico prodotto da raddoppiare ripetutamente un valore iniziale. Questo sistema ha la dipendenza sensibile dalle condizioni iniziali ovunque, dal momento che qualsiasi coppia di punti vicini alla fine diventerà ampiamente separata. Tuttavia, questo esempio non ha la transitività topologica e quindi non è caotico. Infatti, ha un comportamento estremamente semplice: tutti i punti tranne 0 tenderanno a infinito positivo o negativo.
L’essere umano è la quintessenza della complessità, e il cervello la sua epitome-quintessenza, nel senso che ci hanno saputo spiegare in questi ultimi decenni i neuroscienziati. L’essere umano è l’esempio più formidabile della complessità vs. la complicazione.
Circa, infine, il caso, rinvio all’algoritmo più volte presentato in questo blog, laddove la differenza delle posizione dell’osservatore di un determinato fenomeno, rende il caso necessità. Mi riferisco alla topografia dell’incrocio stradale verso il quale si avviano due auto che viaggiano su strade perpendicolari, una delle quali ha la precedenza e l’altra no: chi può osservare dall’alto i due vettori CAUSALI incrociantisi, può affermare con sicurezza fattuale che, in determinate condizioni, esse (le due automobili) si scontreranno, al di fuori di ogni casualità, ma per perfetta causalità
Ripeto qui una facile espressione: la metatesi di una “u” cambia la “lettura logica” del mondo, e fa diventare “ordinato” il “disordine”.
Brocardi e latinismi giuridici, come quest’altro seguente, ancora più interessante: Nulla lex innocentem punit. sed puta, se vis, hunc innocentem condemnari licuisse: certe non oportet (trad. mia: nessuna legge punisce l’innocente, ma prova a pensare, se vuoi, se fosse lecito condannare l’innocente, certamente non sarebbe giusto). Quid dicis, mi amice? Che cosa dici amico mio?
Marco Tullio Cicerone
Ricorro al Diritto Romano per dire che sono contento della nomina a Ministro delle Giustizia di un liberale, come il dottor Carlo Nordio, un uomo di legge garantista secondo quanto il Diritto Romano già proclama da oltre duemila anni, e che il migliore filosofare illuminista (Montesquieu) ha confermato con chiarezza… e che anche i nostri Padri costituenti hanno ripreso con l’articolo 27 della Costituzione della Repubblica Italiana con queste parole: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (omissis)”.
Perché mi va di parlarne in questa sede? La ragione è legata alla mia esperienza carceraria di tutore legale, ma ancora di più alla mia attenzione etica più generale per la giustizia, che deve essere rigorosamente equa e capace di punire con equilibrio gli autori di reati, garantendo che la pena stessa sia eseguita, ma senza trascendere oltre; d’altro canto, riconosca i diritti delle vittime, tutelandole con rispetto, attenzione e cura. Per vittime intendo anche i condannati senza colpa, specialmente quando per errori giudiziari hanno scontato magari molti (o anche pochi, che sono sempre troppi) anni di carcere, e hanno diritto a un risarcimento pecuniario, che di per sé non corrisponde mai al dolore subito.
Si pensi che lo Stato risarcisce ogni anno circa mille persone per ingiusta detenzione, con un costo di svariate decine di milioni di euro.
Non vi è cifra ragionevolmente in grado di compensare anche un giorno solo di privazione ingiusta della libertà, che è il bene maggiore della vita dei singoli e di tutto il consorzio umano, superiore – a mio avviso – anche alla stessa giustizia sociale. In altre parole è meglio essere poveri ma liberi, piuttosto che essere non-poveri come nei regimi comunisti storici (non nell’u-topia sansimoniana o marxiana mai realizzate, appunto!), ma privati della libertà di pensiero, di parola e di movimento.
Meglio pane e salame (invece di ostriche e champagne), seduti sulla riva di un fiume, piuttosto di dover ubbidire a un regime che ti garantisce la sicurezza dalla nascita alla morte.
Già 72 sono i suicidi in carcere nel corso del 2022. Dall’anno 2000 si sono tolti la vita dietro le sbarre circa milleduecento persone. Si tratta di una specie di subdola, surrettizia irrogazione della pena di morte in un paese dove tale pena è stata abolita da settantacinque anni, con la riforma dell’articolo 21 del Codice Rocco (1930), che aveva reintrodotto la pena di morte già abolita dal Gabinetto Zanardelli nel 1880.
Riprendo il discorso generale: a) vi deve essere la certezza della pena; b) non si deve procedere ad arresti arbitrari e a detenzioni pre processo ingiustificate, se non in casi ben chiari di pericolosità dell’indagato, di fuga o di inquinamento delle prove; c) le procure non devono essere quasi “trasparenti” per i media, che possono accedere spesso a fascicoli che sono riservati per legge, per costruire “mostri” mediatici sulla stampa e in tv.
Ascoltavo qualche giorno fa per Radio radicale (emittente benemerita per il suo impegno ultra decennale dedicato al diritto alla conoscenza e per una giustizia giusta) la storia di Nunzia De Girolamo, ex deputata, che fu indagata e processata per nove lunghi anni, in base a intercettazioni di un colloquio privato a casa sua, nel quale avrebbe fatto affermazioni dubbie sulla gestione del sistema sanitario di Benevento, salvo poi essere assolta perché il fatto non sussisteva …e lei spiegava che comunque sapeva bene di essere una privilegiata rispetto alla maggior parte degli indagati che poi risultano innocenti.
Gli antichi brocardi e latinismi giuridici dovrebbero ancora ispirare la Politica legislativa in tema di giustizie e la stessa giurisdizione della Magistratura.
Mi auguro che il nuovo ministro della Giustizia, che ha già detto di voler partire con la sua attività studiando la situazione delle carceri, per poi procedere con la riforma della giustizia, il cui caposaldo, egli condivide, è la separazione delle carriere tra procuratori e giudici, così imitando la parte migliore del modello anglosassone, sia messo nelle condizioni di procedere.
Sì, proprio quello che vediamo nei thriller polizieschi e avvocatizi, là dove il giudice tratta parimenti con il procuratore, che è il pubblico accusatore, e con l’avvocato della difesa, senza commistioni pelose come quelle che spesso si notano nel sistema italiano tra i due magistrati. Il giudice deve essere veramente parte terza, senza avere nel procuratore un punto di appoggio che sbilancia il procedere del giusto processo, anche dal punto di vista psicologico e relazionale.
Un altro intervento da fare è quello dell’edilizia carceraria: tre quarti delle attuali Case circondariali (è l’eufemistica definizione della galera) sarebbero da abbattere o da ristrutturare profondamente, perché sono in contrasto, sia con lo spirito sia con la lettera dell’articolo costituzionale numero 27, che parla di possibilità di resipiscenza del condannato e di recupero sociale. Lavoro, cultura, dialogo, potrebbero essere i tre strumenti per rendere questa nostra Italia sempre più civile, visto anche che ha tra le peggiori carceri dei paesi democratici.
Circa l’ergastolo ostativo, non posso non sostenerne la plausibilità nei confronti dei criminali più efferati e non collaborativi, ma trovo che sarebbe utile “guardare dentro” con maggiore approfondimento da parte della Magistratura sorvegliante nelle biografie e negli intendimenti di condannati all’ergastolo, che, pur non collaborando, con il loro comportamento mostrano di poter provare a vivere un’esperienza esterna di comunità per ciò che gli resta da vivere, trattandosi quasi sempre di persone oramai avanti con gli anni.
Aggiungo: circa la condizione della “collaboratività” con la giustizia da parte dei condannati a un ergastolo ostativo, per poterne riconsiderarne l’applicazione rigida, forse bisognerebbe prevedere anche fattispecie più di dettaglio. Un esempio: se un ergastolano colpevole di delitti di mafia, sussistendo tuttora la mafia nelle sue varie espressioni criminali, può essere sempre in grado di collaborare con la sua organizzazione in qualche modo dall’interno, come potrebbe farlo un terrorista ex Brigate Rosse o ex Prima Linea o ex NAR, dato che queste organizzazioni sono state sconfitte ed eliminate? In questo caso, a mio avviso, si dovrebbe tenere presente il comportamento e i “valori” umani che il detenuto esprime, stando in carcere, per cui l’ostatività potrebbe venir meno.
Peraltro, se una persona del genere fosse “messa fuori” dovrebbe comunque restare in una struttura comunitaria per alcuni anni, cosicché la magistrature penale potrebbe controllarne le mosse e il livello di resipiscenza di fatto (cf. ex art. 27 Costituzione della Repubblica Italiana).
Uno strumento essenziale per affrontare i problemi di vita dei carcerati è l’approccio filosofico. La filosofia è dentro le carceri, con i suoi strumenti dialogici, ma potrebbe essere ulteriormente considerata come disciplina etica e pratica per migliorare la situazione e realizzare il progetto di riforma.
In questa situazione, come si muove la sinistra politica? Ho ascoltato l’ex ministro della giustizia Orlando lodare le parole del suo successore Nordio. Ora vediamo se il suo partito sarà conseguente nel sostenere il ministro e anche quanto già aveva introdotto Cartabia, o se si farà trascinare nel campo dei manettari cinquestelluti e travaglieschi.
Caro Lettore, devo dirti che il momento per me più significativo per simbologia politica (e anche tristemente divertente) veduto nel corso dell’intervento di Meloni alla camera dei deputati, è stato quando la nuova premier si è rivolta “all’on.le Serracchiani chiedendole, retoricamente, se lei stessa, Giorgia, stesse un passo indietro ai maschi“.
Al che, la assai sopra valutata deputata romana, che ha osato (ma di questo incolpo il suo flebile partito e gli elettori ingenui) diventare presidente della mia Regione, senza avere con essa neanche un rapporto degno di questo nome, si è rattrappita con un sorriso forzato, borbottando qualcosa tra i denti.
Ebbene, quel’immagine mi è parsa rappresentare la situazione nella quale si trova la parte politica nella quale ho creduto fin dall’uso di ragione. Intendo, genericamente, la sinistra storica e politica, non quella che oggi è rappresentata dal PD e soprattutto dal mediocre presidente dei 5S, nonché da frammenti di poco conto, con rispetto parlando delle persone costà impegnate. La parte che spesso privilegia il politically correct e strizza l’occhio talora alla cancel culture, non mostrando una chiara e generale posizione contraria nel merito. Anzi, qualcuno/a addirittura è una militante della cancel culture, Un nome o due: Boldrini Laura, oppure Murgia Michela.
Underdog significa – alla lettera – “sotto-cane”, metaforicamente sfavorito, sfortunato, come i proletari delle periferie.
Leggo poi nei giorni successivi gli articoli di alcune giornaliste, come De Gregorio e Annunziata, che la paragonano in modi diversi a doňa Evita Peròn, più che a Mrs Thathcher. Contente loro.
Tutt’intorno è evidente la triste fine di Berlusconi, che ha però ancora la forza cattiva di sorridere malignamente a Salvini all’uscita dall’incontro al Quirinale (smorfeggiando da dietro la premier).
Si constata il declino inesorabile di Salvini che, nonostante si sforzi di fare il grande con il c. degli altri (mi si perdoni la vulgar espressione, perché la c. puntata esprime l’evidenza della parte anatomica citata), appare in tutta la sua enfiata e sempre arrogante nullaggine. Sempre di più. Per dire, neanche fatto il Governo, lui già annunzia un’agenda-Salvini.
Renzi e Calenda si oppongono con juicio, promettendo di esaminare le proposte governative caso per caso.
A sinistra, invece, si scatena una gara a chi farà l’opposizione più “implacabile” a Meloni, e vince facilmente Conte su un sempre più spento Letta, circondato da campioni come Boccia e Orlando, nonché dalle sue pasionarie, tra le quali spicca la sola, mi fa piacere constatarlo, per dignità di tratti e di eloquio,la senatrice Malpezzi.
Mi auguro che al Congresso, da convocare prima di marzo, emergano persone come Bonaccini, come Matteo Ricci (dal gran nome e cognome gesuitico), come Dario Nardella, evitando il rischio dei sopra citati e della auto-candidatasi De Micheli. Mah, caro lettore, molte persone non hanno il senso delle proporzioni che devono esserci tra candidatura e posizione ambita!
Due parole, per chiudere, sull’IMPLACABILE (bum!) Conte. A partire dall’etimologia: l’im-placabile è colui-che-non-si-placa. Mi viene in mente un Annibale da Cartagine, un Alessandro il Macedone, un Giulio Cesare, un Traiano, un Costantino, un Timur Lenk, un Genghis Khan, un Salah el Din, un Raimondo di Tolosa, un Federico di Prussia, un Bonaparte, un von Moltke, un Montgomery o un Rommel… e via elencando implacabili VERI.
Ooh quanto assomiglia l’avvocato foggiano a questi personaggi! Vero, caro lettore? Meloni, di fronte a questa implacabilità può stare tranquilla, perché l’implacabile dei 5S non è uomo da battaglia in campo aperto, ma è uomo da agguati, da guerriglia urbana con tutti i mezzi, specialmente quello della menzogna sistematica.
Badi invece con attenzione ai due sodali che si ritrova, perché quelli sì sono pericolosi, ma se mancheranno i voti di uno dei due, ci penseranno l’uomo dei Parioli e quello di Rignano sull’Arno a soccorrerla.
Buona fortuna, non alla Meloni, ma alla Patria Italia, amata.
Quando in terza media dovevamo decidere in famiglia in quale scuola superiore io dovessi (o potessi) andare, non ci fu quasi discussione, perché i miei tennero conto dell’opinione dei miei insegnanti delle medie, per la quale “Renato avrebbe potuto andare in qualsiasi scuola superiore, a partire dal liceo classico“.
Sarei andato (e andai) al Liceo classico a Udine, la scuola più prestigiosa della città e dell’intero Friuli, la scuola dei ricchi signori, dei figli degli avvocati, dei notai, dei dottori commercialisti, della classe dirigente attuale e futura, colà “necessariamente formanda”.
Il Liceo Ginnasio “Jacopo Stellini” di Udine
Infatti, se si va a vedere il librone che contiene i nomi di tutti i diplomati dal 1808, quando la scuola udinese, in quegli anni Napoleone imperante, fu istituita come Imperial Regio Liceo Ginnasio, dedicato al sacerdote filosofo Friulano Jacopo Stellini, docente all’Università di Padova, utilizzando biblioteca e tradizioni dei padri Barnabiti presenti in città da qualche secolo, si trovano decine o, meglio, centinaia di nominativi di persone di riguardo, del diritto, dei saperi umanistici, dell’economia e della scienza, che colà hanno acquisito la maturità classica.
Ebbene, sarei andato in quella scuola, pur essendo “solo” figlio di un operaio emigrante stagionale in Germania, cavatore di pietra tra i boschi dell’Assia, e di una donna delle pulizie, abile nel fare iniezioni a chi ne aveva bisogno. Le voci, i commenti dei paesani, e anche di qualche parente, erano del tipo “ma come, Renato va nella scuola dei signori... (?)”, non ricordo se con tono interrogativo, oppure se con tono affermativo-perplesso. Andai, studiai con profitto, proprio negli anni della Rivoluzione sessantottina di cui non mi occupai molto, perché dovevo studiare, studiare, studiare e poi vedere che cosa avrei potuto fare in seguito.
Non ebbi problemi particolari, nemmeno con le materie più difficili come il greco, il latino e la matematica, anzi davo proprio del tu a queste discipline. Oltre che a filosofia, storia e lettere italiane. Perché studiavo, ma forse avevo anche talento. Terminavo solitamente le versioni di greco e latino in metà del tempo previsto con risultati sempre molto buoni, e passavo “pizzini” a qualche compagno/ a.
Tutte le estati andavo a lavorare in una ditta che forniva bibite e birre a tutti gli ambienti pubblici che stavano dal mio paesone di campagna fino al mare, ma non a Lignano, bensì nei villaggi di campagna. Giocavo benino a basket come “guardia”, che è quello che tira a canestro o cerca di “entrare” da vicino a canestro, e cantavo in un gruppo musicale.
Chi mi conosce sa che dopo la matura andai a lavorare in fabbrica, dove stetti sette anni pieni, essendomi anche iscritto a una facoltà universitaria, presso la quale lentamente ottenni la laurea lavorando. In seguito fui tirato dentro nel sindacato, dove ebbi ruoli direttivi rilevanti (a Udine, a Trieste e infine a Roma), fino a che fui chiamato a dirigere il personale in una grande azienda, anzi grandissima. A quel punto ripresi studi severissimi di filosofia e teologia, fino al conseguimento delle lauree e di due dottorati di ricerca, cui fece seguito il diploma al corso di filosofia pratica che mi portò anche a presiedere l’Associazione nazionale, fino a qualche giorno fa.
Caro Lettore, leggi (se vuoi) Qoèlet III, quia transit omnia vel gloria mundi (!).
I miei studi e il mio lavoro mi portarono ad essere nominato docente universitario e a presiedere diversi organismi di vigilanza in aziende di tutte le dimensioni. E a scrivere decine di articoli scientifici, migliaia divulgativi e a pubblicare quasi una trentina di volumi. E siamo ad oggi.
Qui e ora voglio fare una domanda al Segretario generale della Cgil, al bravo e onesto Maurizio Landini che, constato, non condivide la nuova denominazione governativa del Ministero della Pubblica istruzione e del… Merito, soprattutto in ragione di quest’ultimo lemma. Di contro, un politico sveglio anche se non molto simpatico, lo contrasta sostenendo che il merito è il migliore antidoto contro la scuola classista.
Condivido quest’ultima tesi, che è attestata dalla mia biografia. Landini potrebbe obiettare che non tutti possono avere esiti come il mio. Obietterei a mia volta a Landini che dovrebbe studiare le basi di un’Antropologiafilosofica sana, per poter distinguere rigorosamente tra ciò-che-è-“persona”, che dà senso al valore della pari dignità fra tutti gli umani, e ciò-che-è-“personalità”, che invece dà conto dell’irriducibile differenza di ognuno da ciascun altro. Sono diversi tra loro perfino gemelli monozigoti, e dunque, a maggior ragione, qualsiasi altro da un altro.
Diverso è il discorso della dispersione scolastica, che è serio, e deve essere affrontato con forza, metodo e mezzi adeguati dal nuovo Governo, per ridurne la diffusione in tutti i modi, con costanza e perseveranza.
Il merito, caro Landini (sul tema la invito a dare uno sguardo agli atti dei convegni che l’on. Claudio Martelli organizzò a metà degli anni ’80 su “Merito e Bisogno”), non c’entra nulla, nulla!
mi sento di scriverle qualche riga,
prima di tutto per ringraziarLa per il suo servizio
all’Italia, per i modi con i quali ha
espletato questo servizio, sempre garbati e all’occorrenza fermi nei toni e nel
linguaggio, per la competenza – sempre
trasparsa limpidamente – del suo agire, in ogni situazione e affrontando
qualsiasi tema o problema, per la autorevolezza
che Lei ha costantemente mostrato di possedere, e che è stata chiaramente
riconosciuta dai Suoi interlocutori, specialmente quelli internazionali, per la
pazienza esercitata come virtù
fondamentale, antica e sempre attuale, come quando – specialmente in Italia –
più di qualcuno che ufficialmente avrebbe dovuto sostenere la Sua azione
politica, La ha invece spesso contrastata con argomentazioni pretestuose, illogiche,
contraddittorie e fondamentalmente disoneste.
Palazzo Chigi
Nel novero di questi ultimi non riesco a non fare, in primis, il nome di Giuseppe Conte, che si è mostrato il “campione” del modo di fare sopra specificato, nonché il primo responsabile della fine del Suo Governo.
In secundis non posso non nominare, di questo tristo elenco, Salvini, et in tertiis, Berlusconi, che conferma anche in queste ore difficili la smisurata grandiosità e pericolosità del suo narcisistico ego.
Volgendo il mio sguardo dall’altra parte dell’emiciclo, non mi sfugge la debolezza del sostegno del Partito Democratico, nel quale un segretario intimidito dalle circostanze e circondato da mediocrità umane (mi duole dirlo) presenti nell’ampia pletora di donne apicali, non ha saputo continuare in un sostegno politico che sarebbe stato utile all’Italia fino al compimento naturale della legislatura. Su chi “sta a sinistra” del PD non trovo utile spendere commenti.
Pur non provando una gran simpatia personale verso le personalità di Calenda e Renzi, riconosco che sono stati gli unici della “sua” maggioranza ad operare con coerenza, sostenendoLa fino in fondo.
L’ultima considerazione è per la signora Meloni, che in questi giorni Le sta succedendo. L’azione di questa leader è stata sempre dignitosamente a Lei oppositiva, senza però far mancare il sostegno al Suo Governo nei momenti più difficili degli ultimi mesi, così mostrando che il suo Amor Patrio è sempre stato il sentimento maggiore che la ha guidata, superiore agli interessi del suo partito. E la “sorte”, nel senso greco di tyche, la ha premiata.
Spero, su questo tema, che la nuova Presidente del Consiglio dei Ministri si avvalga ancora (come mi pare stia facendo) della Sua esperienza, caro Professor Mario, e La interpelli quando necessario.
Infine, salutandoLa con gratitudine, mi auguro e auguro all’Italia e all’Europa che si trovi il modo di impegnarLa in qualche altro grande e generoso compito per il Bene comune e per la Pace come, azzardo, la Segreteria generale della Nato, che attualmente è presidiata, mi consenta il giudizio, da una persona non all’altezza del difficilissimo compito.
Carissimo professor Mario, le auguro, con stima e affetto, ogni bene
Berlusconi è pericoloso nella misura proporzionale al suo potere, che è ancora immenso, in Italia, con la sua visibilità mediatica e i suoi media di proprietà, televisioni e giornali.
Se le sue aziende sono dirette e gestite da persone responsabili e capaci, come i suoi figli e il dott. Fedele Confalonieri, il suo agire politico non conosce soggetti in grado di orientare il suo dire in modi che non siano pregiudizievoli di interessi più vasti e collettivi.
Di contro, le persone del suo partito-azienda, i deputati, i senatori et alia similia, gli sono devoti come chierichetti, perché da quel partito-azienda monocratico hanno avuto pressoché tutto, nella loro vita, mentre i dipendenti, almeno, sono tutelati dallo Statuto dei diritti del lavoratori, Legge 300 del 20 Maggio del 1970. Compreso il marito di Giorgia Meloni, che Berlusconi ha voluto citare come suo dipendente, con gesto volgare e villanissimo, con rispetto parlando del volgo e dei villani.
Oltre alla citazione del compagno di Meloni, annoveriamo tra le perle più volgari del cav gli epiteti che si è fatto leggere sul suo scranno indirizzati a Meloni, che qui non riporto, attribuendo poi la responsabilità dei quali a parole dette e ascoltate qua e là per l’emiciclo. Lui, a suo dire, si sarebbe limitato a scrivere ciò che sentiva dire. Gli crediamo? No.
L’ultima, per ora, centellinata, perché l’uomo ama sorprendere, è questa: beccato (ma no, dai!) da un registratore furbetto, Berlusconi afferma, tra la miserabile claque dei suoi, che Zelenski ha provocato più morti e che Putin ha dovuto avviare l’operazione militare speciale “per mettere a Kiev un governo di persone perbene e di buon senso” (parole sue). Berlusconi ha la stoffa del tiranno, come ha ben scritto anni fa l’Economist, che però qualche giorno fa è caduto nello spirito anti italiano che percorre il mondo britannico almeno dai tempi di Churchill.
Ricordo all’Economist che titola Britaly, per paragonare l’attuale condizione delle due Nazioni, che Truss è durata 44 giorni e che, ad esempio, l’Italia è al 7o posto nel mondo per le esportazioni e la Gran Bretagna al 14o. Stiano buoni gli Inglesi e i loro giornali, ché l’impero mondiale è morto e sepolto. Lo sa perfino Charles the Third.
Non mi sorprende più nulla di quell’uomo, che si vanta di essere tra i cinque migliori amici di Putin, come un adolescente, solo che è un uomo ancora potente e mediatizzato che amoreggia con un pericoloso tiranno sociopatico. Nel silenzio assordante di Salvini, che la pensa come Berlusconi, come l’attuale ambasciatore russo a Roma Sergey Razov, e come Maria Zakharova, la portavoce di Lavrov. In che mani.
Meloni fa bene, a questo punto a puntualizzare che se non vi saranno candidati ministri limpidamente allineati con le politiche occidentali dell’Italia, il governo potrebbe non nascere. Ben detto. Ripeto: non avrei mai pensato di apprezzare Meloni, e fino a questo punto.
…
Giro lo sguardo. La cancel culture colpisce ancora. Caro lettore scolta l’ultima: siccome in un corridoio del ministero dello sviluppo economico sono appese al muro le fotografie di tutti i ministri succedutisi nel tempo, dalla proclamazione del regno d’Italia del 1861, fino a Giancarlo Giorgetti, che è stato l’ultimo della serie con il governo Draghi, è evidente che in lista vi sono anche i ministri succedutisi nel ruolo ministeriale durante il famigerato Ventennio, magari sotto altre dizioni, come quella di “Ministero delle Corporazioni”.
Ebbene, nel 1934, mi pare, s.e. il Capo del Governo Benito Mussolini assunse quella carica ad interim, e dunque si provvide ad appendere anche una sua foto, in borghese, giacca e cravatta da grand commis dello Stato. Per di lì è passato anche lui e non si può riavvolgere il nastro della Storia per far finta che così non sia avvenuto.
Well, Bersani, che per molti aspetti è un uomo simpatico, emiliano verace e anche provvisto di una certa verve umoristica (“non sono qui a pettinare le bambole”, “c’è una mucca nel corridoio”, etc. alcune sue memorabilia), oltre che di rispettabili capacità politiche, ha fatto sapere che “se non provvedono a rimuovere il ritratto di Mussolini, desidero che sia tolta la mia foto“.
Ma sei fuori, Bersani? Vuoi imitare la Boldrini che voleva togliere tutte le memorie legate ai Caduti italiani di tutte le guerre? L’intelligentona funzionaria Onu. Forse che i soldati italiani amavano andare a farsi fucilare sui campi di battaglia di tutto il mondo? Forse che non meritano tutti di essere ricordati sotto il profilo di una memoria storica e morale nazionale? Che colpa avevano gli alpini della Tridentina se il cavalier Benito li ha mandati con le scarpe di cartone a morire assiderati nelle pianure ucraine sotto i colpi delle katiusce? Andiamo!
Forse è il caso, finalmente, di togliere le dedicazioni di vie e piazze a personaggi come il gen. Cadorna, Luigi, intendo, non suo figlio Raffaele, sperando che in giro per l’Italia non vi siano vie e piazze dedicate a Pietro Badoglio o a Rodolfo Graziani… Questo da un lato.
Volgiamoci all’altro versante, quello della sinistra. Ma che sinistra è, questa? Vogliamo compararla ricordando la sinistra dei fratelli Rosselli, di Emilio Lussu che combatté sull’Altipiano, di Sandro Pertini, e l’antifascismo di don Giovanni Minzoni, dell’onorevole liberale Giovanni Amendola, di Piero Gobetti, di Antonio Gramsci, di Umberto Terracini, di Filippo Turati, di Pietro Nenni? Per tacere di tant’altri altrettanto nobili combattenti per la libertà?
E sulla pace che cosa fa la sinistra? Dopo due penosi sit-in ecco che vanno in piazza, grillini et varia animalia su una “piattaforma generica”, forse buona per il moralismo (generico) del papa, ma non per partiti politici seri che sanno distinguere tra aggrediti e aggressori, declinando un’Etica corretta sul diritto alla legittima difesa, sul quale concetto, ripeto con dispiacere, anche Francesco è deficitario. Bisognerebbe rileggere Agostino e Tommaso d’Aquino. Rimpiango Benedetto XVI.
La desolazione, la delusione, lo sconforto e perfino lo schifo di certe prese di posizione non mi tolgono certo da quel campo, che per me è una scelta di vita, ma mi dicono che il declivio sul quale si è incamminata da tempo, colloca la sinistra politica in una situazione che le rende ai miei occhi quasi irriconoscibile.
Come su ogni cosa e in ogni caso, si pone l’antica domanda leniniana: “che fare?” Molte cose, ma soprattutto mostrare con l’esempio del dialogo aperto con gli altri che la distinzione politica, oggi, non è tanto e solo fra destra e sinistra come appartenenza partitica, ma fra persone che scelgono di affrontare ogni tema e problema acquisendo le conoscenze necessarie e quindi curano la cultura e la conoscenza, e persone che ritengono tutto facile, tutto semplificabile e perfino banalizzabile, a partire dalle espressioni linguistiche.
Curare il linguaggio “cum cura” (la tautologia è voluta), dire ciò-che-è-necessario-dire con chiarezza, senza fumosità e con onestà intellettuale, parlare solo di ciò che si conosce, ascoltare con attenzione chi parla, e verificare se si mantiene “sul suo”, segnalando le “uscite da seminato”, cioè dal tema di cui deve essere esperto, con ferma educazione, concludere i dialoghi e le riunioni con equilibrio ed evitando fraintendimenti e possibili svarioni logici e operativi. Su questo tema la responsabilità dei giornalisti è enorme, e spesso si nota come tra loro vi siano persone che non hanno cura di come lavorano, di come parlano, di come scrivono.
In politica: occorre fare il contrario del comportamento di un Berlusconi, ma anche di un Conte-che-la-conta a modo suo, ora parlando di successo elettorale del “suo” partito, falsità smentita dai dati reali, o di un Salvini che si aggrega al carro vincente di Fratelli d’Italia facendo finta di aver vinto. Qui mi stupisco della mancate presa di posizione dei suoi “maggiori”, che pure avrebbero i mezzi per differenziarsi e metterlo in riga, riducendone il potere.
Circa il PD c’è solo da augurarsi che faccia un congresso vero, con il quale un gruppo di persone giovani e disinteressate (e anche meno giovani tipo un Misiani o un Delrio) riescano a pensionare i Franceschini, i Boccia, i Guerini, i Provenzano, un giovane mediocre già vecchio, che ha fatto un voto, quello di non commentare i twitt di Calenda (ridicolo!), i… Letta, e le mediocri donne di cui si è circondato quest’ultimo.
In questo pezzo cercherò di delimitare il campo semantico di “inadeguatezza”, intendendolo come limite nei vari sensi, ma soprattutto nel senso proprio, che chiamerò “del primo tipo”. In altre parole intendo parlare di inadeguatezza come di una condizione esistenziale, umana e professionale connessa al ruolo e alla posizione propri dell’individuo. Si può dire che una persona è inadeguata, non solo se “non ci arriva”, e dunque possiede uno status intellettuale e professionale non all’altezza del ruolo eventualmente assegnato, ma anche se il suo standing è superiore alle esigenze del ruolo.
Si può, dunque, affermare che uno è inadeguato a fare il direttore generale di un’azienda, perché non possiede le conoscenze e le esperienze (competenze) per poter adempiere a ciò che prevede una posizione così elevata; si può affermare che, di contro, inserire una figura che può “fare” il direttore generale in una posizione subalterno-esecutiva, vale a dire di capo reparto di produzione, è inopportuno poiché quella persona non conosce i dettagli del ruolo e, pur potendo essere sovraordinato gerarchicamente a tutti i capi reparto, di per sé non può farlo, e pertanto è inadeguato al ruolo.
Si può essere inadeguati, dunque, per eccesso oppure per difetto. Segue un esempio del primo tipo. Più avanti proporrò anche degli esempi di ambedue le tipologie.
Definire “inadeguato” al ruolo il signor Jens Stoltenberg è un eufemismo (modo abbellito di dire una cosa), una litote, cioè una attenuazione linguistica nell’esprimere un giudizio sul politico norvegese, da troppi anni segretario generale della NATO. E sperabilmente di prossima sostituzione, magari con Mario Draghi.
Jens Stoltenberg ha sessanta tre anni ed è un politico norvegese, nazione di cui è stato anche Capo del Governo. Laureato in economia, è un laburista (non si direbbe tanto, visto il suo agire dall’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina). Avrebbe dovuto essere sostituito questo scorso settembre nel ruolo di Segretario generale della Nato (lo è dal 2014, troppo!), ma hanno proceduto a prorogarlo nella funzione, vista la situazione. A parer mio è stato fatto un errore macroscopico, perché l’uomo ha mostrato, fin dall’inizio delle attività belliche, una assoluta inadeguatezza al ruolo, che dovrebbe essere quello del facilitatore dei rapporti tra i Governi dei Paesi aderenti all’Organizzazione di difesa atlantica. Invece, si è preso la libertà di intervenire molte volte con espressioni e toni poco adatti a favorire un riavvicinamento razionale tra le parti.
Ha parlato spesso di escalation del conflitto, con toni che lasciavano pensare quasi se lo augurasse, di armi, di nucleare, in queste ore anche di esercitazioni sul nucleare da tenere ai confini dell’Ucraina. Il contrario di ciò che servirebbe. Non capisco se lo lasciano fare, o se è agli ordini di qualche potentato politico-economico che domina il mercato delle armi nel mondo, americano, asiatico o europeo che sia. Mi auguro e auguro alla Nato, all’Europa e al mondo che venga al più presto sostituito, perché è ora di sapere quale possa essere il “punto di caduta” militare, politico e soprattutto morale per la interruzione e poi per la soluzione di questa guerra di aggressione.
Propongo un altro esempio di inadeguato del primo tipo: Lorenzo Fontana. Quest’uomo non è “inadeguato” per il ruolo che gli è stato assegnato, perché frutto di una procedura democratica: lo è, in questo momento, per la sua biografia, che non depone a favore di una sua coerenza morale tra vissuto biografico e discorso di insediamento. Siccome io sono fondamentalmente cristiano cattolico, non nego ad alcuno (e chi sono io per farlo?) la possibilità di una resipiscenza, e spero che questa avvenga, proprio per conciliare eticamente ruolo e biografia, almeno per quanto apparirà all’esterno della sua persona.
Ahh dimenticavo, un amico mi fa notare che il neo presidente della Camera dei deputati, nel compilare la sua scheda biografica per la registrazione come deputato, ha scritto per ben due volte “inpiegato” con la “enne” e non con la “emme”, nonostante le sue tre vantate lauree e la quarta in arrivo. Forse gli occorre ancora un pochino di medie e di ginnasio inferiore.
E vengo al “mite” segretario del PD: nessuno, caro Letta (e sarei anche stato tentato di collocarla nell’elenco degli inadeguati del primo tipo), può leggere nel cuore dell’uomo, perché ciò è prerogativa solo dello Spirito Santo: lei, da cattolico, dovrebbe saperlo, ma i suoi interventi pubblici mostrano il contrario. E me ne dolgo, prima di tutto per lei, e poi per il popolo di sinistra che si aspetterebbe altro da lei, non una “opposizione dura”, ma parole chiare, coerenti, capaci di accettare il gioco democratico dell’alternanza, e piene di spirito di iniziativa.
Ronzulli Licia è la terza persona “inadeguata”, in questo caso, per le pretese che ha, di avere un ministero adatto alla sua esperienza. Il suo comportamento verso il tema di un incarico governativo e il suo partito, verso il suo leader in particolare è meritevole di svariate censure, a partire da quella estetica, nel senso filosofico metafisico del termine, dimensione che la rende più importante di quella etica. Come si fa a rispondere a un giornalista che le chiede “come fa Berlusconi a chiedere aiuto” in questo modo “abbaia“? Neanche per scherzo, Ronzulli. Neanche per scherzo.
Potrei continuare a lungo ad esaminare casi di inadeguatezza del primo e del secondo tipo, ma mi fermo qui, dicendo solo che, dalla nuova seconda carica dello Stato (e comunque la sua “predecessora” non lo sovrastava per standing) ai principali tra gli eletti, a partire dai capi partito, l’uomo-di-Foggia in primis, l’inserimento nel primo o nel secondo tipo di inadeguatezza sarebbe un gioco tutt’altro che futile.
Eppure, nonostante tutto questo e altro ancora, sono fiducioso negli anticorpi democratici della nostra Italia.
Charles Louis de Secondat, Barone de La Brède et deMontesquieu mi viene in mente per assonanza del titolo di questo pezzo con il suo
Lettere Persiane, Lettres persanes), pubblicata anonima nel 1721 ad Amsterdam. Lo scambio epistolare fra due persiani che viaggiano in Europa, Usbeck e Rica, offre a Montesquieu l’espediente per pubblicare, in forma di lettere, brillanti saggi nei quali la società e le istituzioni (francesi innanzi tutto), sono descritte secondo moduli relativisti, adottando il punto di vista di esponenti di una cultura diversa da quella europea. Con satira sferzante, vi si traccia un quadro disincantato dell’assolutismo francese, della crisi finanziaria conseguente alla politica economica attuata da Luigi XIV, della crisi dei parlamenti e della società civile nel suo complesso. La critica dei costumi si estende anche alla polemica religiosa in cui si vede un segno di instabilità e decadenza che alimenta dispute e divisioni più che la fede. Veicolo potente dei temi relativisti e della critica alle istituzioni politiche e religiose durante tutta l’età illuminista, le L. p. rappresentano un testo in cui secondo l’auspicio iniziale dell’autore «il carattere e l’intenzione sono così scoperti» da non ingannare «se non chi vorrà ingannarsi da sé» (dalla Prefazione sul web).
Charles Louis de Secondat, Barone de La Brède et de Montesquieu
La Persia evoca territori sconfinati, leggende e meravigliose città. Il nome “Persia” evoca uno dei più grandi imperi dell’antichità, ci ricorda il Re dei re Ciro il Grande, che liberò gli Ebrei dalla cattività babilonese nel 525 ca a. C., e i successori di Ciro, Dario, Serse, che combatterono le pòleis greche e furono sconfitti.
“Persia” evoca Alessandro il Macedone che la conquistò, con le battaglie di Isso e di Gaugamela, arrivando con i suoi soldati fino alle porte dell’India a contemplare le acque turbinose del fiume Indo, che scendono dall’Himalaia.
“Persia” evoca ancora altre dinastie come i Sasanidi che lottarono con i basilèi bizantini, prima di essere travolti da popolazioni turcomanne e mongoliche.
“Persia” evoca una delle due grandi dottrine dell’Islam, quella sciita, che si ritiene la più vicina alle origini, tramite una parentela diretta con Mohamed, l’uomo della Profezia.
“Persia” ora evoca la rivoluzione delle donne, dopo quaranta tre anni di teocrazia.
Nei decenni passati non sono mancati i tentativi di liberazione del popolo iraniano, caratterizzato però dal solo impegno delle donne. Ora pare che le cose siano cambiate. L’occasione è stata la morte di Masha Amini, accusata dalla “polizia morale” di indossare il velo islamico in modo scorretto. E uccisa.
Due parole sul velo che, nella versione più “moderata” ricorda le nostre donne dei secoli passati, ma anche fino al Concilio Vaticano II. E anche le meravigliose Madonne di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini, che illustrano un fascino femmineo di grande spiritualità. Una meraviglia estetica e d’armonia coloristica.
Abbiamo l’hijab, un foulard normale che copre i capelli e il collo della donna, lasciando scoperto il viso. Nel Corano il termine è utilizzato in maniera generica, ma oggi è diffuso per indicare la copertura minima prevista dalla shari’a per la donna musulmana. Questa normativa prevede non solo che la donna veli il proprio capo (nascondendo fronte, orecchie, nuca e capelli), ma anche che indossi un vestito lungo e largo, in modo da celare le forme del corpo, che si chiama khimar, diversamente lungo e modellato.
Un altro nome di questa lunga veste è jibab, oppure abaya.
Nel Vicino Oriente e in Egitto sono diffusi i seguenti tipi di veli: abbiamo il niqab, che copre il volto della donna e che può (nella maggior parte dei casi) lasciare scoperti gli occhi. Il niqab può essere diffuso in due forme più specifiche: quella saudita e quello yemenita. Il primo è un copricapo composto da uno, due o tre veli, con una fascia che, passando dalla fronte, viene legata dietro la nuca. Il secondo è composto da due pezzi: un fazzoletto triangolare a coprire la fronte (come una bandana) e un altro rettangolare che copre il viso da sotto gli occhi a sotto il mento.
Se vogliamo specificare ulteriormente… l’abaya (sopracitato), diffuso nel Golfo Persico è un abito lungo dalla testa ai piedi, leggero ma coprente, lascia completamente scoperta la testa, ma normalmente viene indossato sotto ad un niqab.
Ed eccoci ai veli diffusi in Iran: abbiamo il chador, che è generalmente nero, ma può essere anche colorato (ricordo un chador che mi fece vedere la assai da me, e non solo, rimpianta, signora Cecilia Danieli, che andò spesso in Iran per ragioni commerciali dell’Azienda) e indica sia un velo sulla testa, sia un mantello su tutto il corpo.
Possiamo completare la carrellata con i veli diffusi in Afghanistan: quivi troviamo il burqa, che è perlopiù azzurro, con una griglia all’altezza degli occhi, e copre interamente il corpo della donna. Tecnicamente, assolve le funzioni del niqab e del khimar.
Tradizione, cultura, religione, politica: tradizione e cultura in senso storico-antropologico; religione in senso teologico normativo; socio-politico nel senso, inaccettabile, di costrizione.
Ho distinto i tre/ quattro sensi per individuare le ragioni della ribellione che sta prendendo sempre più piede nella grande Nazione persiana. Sembra proprio che l’occasione della morte di Masha sia per ora capace di suscitare proteste più vibranti e generali di quelle precedenti. Ho già scritto qualche giorno fa che non si tratta più solo di sporadiche manifestazioni di piazza limitate alla capitale Teheran e a qualche altra grande città come Isfahan, ma di manifestazioni diffuse in tutto il territorio nazionale, fino ai lontani monti Zagros che confinano con l’Afganistan e le repubbliche ex sovietiche d’Asia.
Si tratta di manifestazioni non-armate, perché le persone tengono in mano solo i veli che simboleggiano l’oppressione politico-normativa che è diventata insopportabile. Si coglie un sentimento diffuso di ricerca della libertà intesa come rispetto dei diritti delle persone, e si sente anche la fiducia che le varie polizie degli ayatollah non potranno uccidere o arrestare tutti e tutte.
Le carceri scoppiano di prigionieri politici e anche di donne, vi sono morti e feriti. Un accenno anche alla signorina Alessia Piperno, colà tenuta in prigione. A lei, come a qualsiasi altro giovane generoso, che pensa di potersi immergere nei luoghi più pericolosi del mondo senza riflettere più di tanto sui rischi, magari anche sostenuti dai genitori, porgo un invito a riflettere sulla congruità e sulla razionalità morale di scelte come la sua, che nulla apportano alla causa delle donne nel mondo, se non una testimonianza inutile e costosa per l’erario italiano.
Quella iraniana è una rivoluzione, non una jacquerie ribellistica à là Ciompi o Vespri siciliani. E’ una “cosa” pericolosa, che pare progressivamente assomigliare alla Francia del 1789. Spero di non sbagliare. Si tratta di seguirne le vicende in modo non inerte, come cittadini e Paesi democratici.
Chi mi conosce solo un pochino potrà pensare anche che sono impazzito a scrivere un titolo come quello sopra, ma chi mi conosce bene non si meraviglierà, perché conosce la mia autonomia di giudizio, che fa sempre premio sul mio orientamento politico, che è dalla parte opposta di Meloni.
Opero questo distinguo per mostrare ai “militanti” di tutti gli schieramenti politici come la militanza non debba mai sopprimere lo spirito critico dell’essere umano, provvisto di intelletto, conoscenze storiche e informazioni politiche.
Se Meloni riuscirà a varare un Governo ascoltando i consigli patriottici e politici del presidente Mattarella e di Mario Draghi inizierà con il piede giusto. Non mi soffermo qui su candidature e nomi, perché basteranno pochi giorni e la nostra legittima curiosità civica e democratica sarà soddisfatta.
Innanzitutto, evitando di dire ancora una volta il mio pensiero sull’idiozia cinquestelluta e leghista (che spero pagheranno in qualche modo) di aver fatto cadere Draghi, affrontiamo realisticamente la realtà dei fatti accaduti nelle ultime consultazioni politiche. Ha vinto lo schieramento di centro-destra-destra, soprattutto con Fratelli d’Italia, mentre la Lega salviniana ha preso una batosta epocale, e Forza Italia traccheggia su percentuali distanti una galassia dai tempi in cui era il primo partito italiano e Berlusconi in auge.
Ho una discreta fiducia che il nuovo Governo sia in grado di affrontare, in questa prima fase, i gravi problemi attuali: a) energia, b) bollette, c) guerra, d) economia, e) debito pubblico, f) semplificare gli apparati burocratici e accelerare i procedimenti giudiziari, g) ambiente e difesa del territorio… , dialogando con l’Europa di Bruxelles e Strasburgo e anche con le Nazioni “maggiori”, cioè Germania e Francia. L’Italia è in ogni senso la “terza” nazione d’Europa per l’economia, senza dubbio alcuno, la seconda per il sistema industriale, e addirittura la prima per le lavorazioni meccaniche.
Da un punto di vista politico invece l’Italia conta meno di quanto abbia diritto di contare, nella UE e nella NATO/ OTAN. Parto da qui: ad esempio, una delle richieste che dovrebbe fare Meloni è di accelerare la sostituzione del signor Jens Stoltenberg, che sbaglia pericolosamente ogni volta che apre bocca. Paolinamente stolto. Da pensionare.
Vengo al nuovo Governo con alcuni consigli: non toccare le legislazioni sul divorzio e sull’interruzione di gravidanza e dialogare con le Parti sociali, sindacati e imprenditori; non serve che aggiunga quanto è da farsi in tema di energia e di bollette.
Per quanto attiene riforme legislative di carattere socio-culturale relative ai diritti civili, sarà bene che il nuovo Governo non si limiti a dei niet, ma sia capace di proporre dei testi legislativi sui vari temi.
Ad esempio, su quanto poneva il D.d.L. “Zan”, non abbandonare il tema della omotransfobia, ma legiferare con un testo che non contenga equivoci, neppure per lontanissime ipotesi di fattispecie, che possano portare al reato di opinione.
Sulla maternità surrogata non cedere a una legislazione che ne permetta lo sviluppo; si promuovano piuttosto le adozioni. Su questo tema con attenzione ai contesti nei quali si possano dare… vale a dire non sempre e in ogni caso.
L’ipotesi di un utilizzo dello schwa rimanga uno scherzo di cattivo gusto di un certo politically correct che le tv e certi politici, anzi (più di) donne in politica, spesso mettono in evidenza, stupidamente, oppure per misteriose progettualità tese allo spegnimento dei neuroni. Altrettanto penso della idiotissima cancel culture.
Sulla aggressione russa all’Ucraina, il nuovo Governo deve mantenere una solida chiarezza di posizione a difesa di Kijv, senza tentennamenti. Su questo voglio compiacermi che Meloni abbia triplicato Salvini, perché altrimenti avremmo avuto un leader primario affascinato dal nazionalismo imperial-zarista di Putin. Tra l’altro, non tanto stranamente, sul tema torna la consonanza tra Lega e Cinque Stelle, già governanti assieme.
Desidero chiarire, parlando di un Governo “conservatore” le differenze teorico-pratiche fra, appunto, il conservatorismo e l’atteggiamento politico reazionario. Scrivo di nuovo che i due orientamenti non sono sinonimici, neppure in parallelo, anzi. Conservatorismo significa attenzione alla tradizione e cautela sulle innovazioni, in ogni settore della vita sociale, salvo che in economia. Reazione, invece, significa reagire a ogni progresso umano, intellettuale, socio-politico ed economico, talora stranamente affine a certi ambientalismi estremi.
La sinistra, prima di modificare i gruppi dirigenti, pensionando personaggi senza senso come… evito di fare nomi; deve chiarire dove vuole collocarsi sulle tematiche di cui sopra. In altre parole, deve chiarire se vuole evitare di allinearsi, come a volte sembra voglia fare, proprio ai vizi sopra richiamati, sotto i profili culturale, civico e politico.
Se la sinistra non esce dagli equivoci dell’ammiccamento continuo a quei deprecabili vizi, mi genera un sempre più grande progressivo e doloroso distacco.
Mi pare sempre più urgente, dunque, a duecento e venti anni dalla sistemazione metaforica e reale (mi riferisco agli emicicli dei vari parlamenti) dei termini destra/ sinistra, ri-considerarne gli aspetti distintivi.
Mi sembra inoltre che sempre di più la distinzione socio-politica tra i due schieramenti sia da collocare, per molti aspetti, su un altro piano intellettuale, ferme restando le distinzioni classiche, ancora marxiane, che qui non richiamo: vale a dire tra coloro che privilegiano la cultura e lo sforzo per acquisirla, la documentazione rigorosa sui vari temi e problemi in campo, e coloro che invece preferiscono le semplificazioni, le banalizzazioni da marketing elementare e il conseguente inevitabile impoverimento linguistico e dunque intellettuale e cognitivo.
I Cinque Stelle hanno provocato un danno enorme in Italia con il loro concetto antropologicamente assurdo e pericoloso dell’uno–vale uno. Certo è che sono riusciti a dimostrarne l’efficacia alle elezioni politiche del 2018, quando hanno portato a casa il 33% dei suffragi, facendo entrare in Parlamento una schiera di incompetenti (tra pochissimi altri di valore), come si dice, o scappati di casa, a partire dai capi di allora, che stanno venendo oggi miseramente inghiottiti dall’oblio. Come si meritano, secondo legge di natura.
Esperti nei processi di falsificazione del dato, oggi, attraverso il loro capo, il più volte da me nominato avvocaticchio, riescono perfino a convincere qualche giornalista televisivo (cf. Tg2 Post) di avere vinto alle ultime elezioni con il 15% dei consensi, perché paragonano tale numero alle percentuali dei sondaggi di qualche mese prima, che li davano al 8/10% al massimo, evitando di ricordare che la comparazione andrebbe fatta con il 33% raggiunto nel 2018. Si capisce bene che molti elettori 5S del 2018 sono passati a Meloni, ma ciò è stato dovuto alla confusione ideologica del Movimento di cinque anni fa, i cui capi sostenevano di non essere né di destra né di sinistra (!!!). Onestà intellettuale, comunque, a zero virgola uno.
Torno a Meloni e alla “sinistra” (la cui dizione ora virgoletto). Non aggiungo se non che, nell’interesse della Patria (a me è sempre piaciuto questo “Nome” nobile della terra in cui viviamo, chiamandola in questo modo “da sinistra”, e così evitando di lasciarne il monopolio proprio a Meloni) Italia, spero che il nuovo Governo operi bene e che l’opposizione si muova nel merito delle critiche in modo costruttivo.
Su questo, la sinistra vera, quella che mi ostino ancora a credere sia ancora (nonostante tutto) presente nel Partito Democratico, vigili (congiuntivo esortativo) sapendosi rinnovare con la ripresa di un dialogo vero con la società civile, con l’economia, con la cultura, con gli uomini e donne tutti (e senza schwa, ah ah ah!).
La ministra francese Laurence Boone ha alzato il ditino per ammonire la nuova maggioranza italiana a “non toccare i diritti”.
La Liberté di Eugene Delacroix
Cito alla lettera: “Vogliamo lavorare con Roma ma vigileremo su rispetto diritti e libertà“. Lo dice – in un’intervista a Repubblica – Laurence Boone, nuova ministra per gli Affari europei del governo francese, per la quale “è importante che il governo Meloni resti nel fronte europeo contro Mosca e in favore delle sanzioni“.
“Rispetteremo la scelta democratica degli italiani – afferma- L’Europa deve rimanere unita, in particolare nell’affrontare la guerra che la Russia ha dichiarato in Ucraina, con le sanzioni che abbiamo adottato. Su questo punto, Meloni ha espresso chiaramente il suo sostegno a ciò che l’Europa sta facendo. Dopodiché è chiaro che abbiamo delle divergenze. Saremo molto attenti al rispetto dei valori e delle regole dello Stato di diritto. L’Ue ha già dimostrato di essere vigile nei confronti di altri Paesi come l’Ungheria e la Polonia“.
Napoleone Boone ha detto, augh. Arrogante signora! “Vigileremo…”, dice lei, poi dirò io.
Primariamente, mi fa incazzare TUTTO dell’intervento della maestrina Boone, TUTTO, toni e testo. Se avessi l’indirizzo della donna (ma confido nella potenza del web, che arriva ovunque come uno “spirito santo” tecnologico) le invierei questo testo con l’immagine del quadro di Delacroix, che il grande pittore francese dipinse per rappresentare il valore principale della Grande Revolution, la Libertè, che assiemeall’Egalitè e alla Fraternité segnò con forza quel cambiamento radicale, essenziale per la storia dell’Europa e del mondo. Noi siamo nel mondo che la Rivoluzione Francese ha contribuito a costruire, e crediamo nei valori di questo mondo, cara Boone!
Ha ragion d’essere che io pubblichi qui sopra il dipinto di Delacroix, benedetta donna!
E’ offensivo che lei ritenga opportuno farci questa raccomandazione. Offensivo per la raccomandazione in sé, e offensivo per il modo con cui la fa.
E’ una raccomandazione superflua e pertanto inutile, ed è una raccomandazione top-down, che presuppone una superiorità della Francia sull’Italia, per quanto riguarda lo spirito democratico e di rispetto dei diritti civili e sociali fondamentali, e pertanto è offensiva.
Il superioriy complex che traspare dalle frasi della Boone è insopportabile.
La Francia ha queste caratteristiche e questi problemi. Anche la lingua francese presenta una certa allure da primadonna. Sempre elegante, ma fastidiosa, talvolta, quando si inflette in gorgoglii e piccole raucedini da pronunzia fricativa delle consonanti liquide.
La Boone la rappresenta benissimo, la Francia, peraltro come il presidente Macron, bellino, educato, ricco, fortunato, potente. Forse un po’ solo.
E vengo alla breve lezioncina di storia per la Boone.
Se lei ritiene di “vigilare” sul rispetto dei diritti in Italia, siccome noi Italiani non “abbiamo l’anello al naso”, come per quasi due secoli i Francesi hanno pensato degli Africani e degli Indocinesi, devo ricordarle ciò che hanno fatto i militari francesi nelle “colonie”, appunto, in Vietnam, nell’Africa Equatoriale, Mali, Niger…, in Algeria?
Devo ricordarle i massacri di indigeni, cioè di abitanti autoctoni di quelle terre? Il loro sfruttamento economico e sociale? Devo ricordarle quanto recenti sono stati i processi di liberazione nazionale di quelle Nazioni?
Vogliamo ricordare ciò che ha fatto in anni recenti il presidente Sarkozy in Libia per impedire che l’Italia avesse un rapporto più proficuo con la Libia?
Non mi si risponda che anche gli Italiani non sono stati “brava gente” in guerra e nelle politiche coloniali. Conosco bene ciò che hanno fatto il maresciallo Rodolfo Graziani (uno che sarebbe stato meritevole di fucilazione) in Africa, o il generale Alessandro Pirzio Biroli (sotto il quale combatté mio papà, che assistette alle stragi, inerme e triste, come mi raccontò, avendo dovuto lui stesso uccidere, da lontano con la mitragliatrice, e all’arma bianca in una occasione quando fu aggredito mentre montava di guardia, non mi seppe mai dire se da un serbo cetnico o da un serbo titino) nei Balcani e mi fermo qui, e non per mancanza di nomi di capi militari criminali da citare.
Non facciamo gare tra chi ha commesso più abominii anti umani: la Francia comunque quantitativamente ne ha compiuti di più. Torniamo ai diritti.
E dico alla signora Boone: si studi la Costituzione della Repubblica Italiana e avrà la risposta ai suoi dubbi. NON tema che gli anticorpi democratici ITALIANI non vigileranno a sufficienza sul rispetto dei diritti, anzi lo faranno ad abundantiam, senza che lei si periti di alzare il suo ditino di laureata della Sorbonne o della L’École nationale d’administration.
…del maggiore partito della sinistra italiana dopo la sconfitta elettorale.
Mi ero ripromesso, dopo il titolo-articolo pubblicato lunedì 26 settembre 2022 post crash in ogni senso della politica italiana, di tornare sul tema.
Approfitto del fatto di avere ascoltato per due o tre ore in viaggio in auto gli interventi nella direzione nazionale del Partito Democratico, dove si è consumato un autò da fè impressionante del gruppo dirigente, un atto di auto accusa impregnato di un po’ di contrizione e di molta attrizione. Uso questi due termini teologico-morali, contrizione e attrizione per tenermi nel mood della riunione che, iniziata con la relazione del segretario Letta, capace di citare per due volte dei passaggi evangelici, è poi proseguita con altre citazioni di altri oratori, abbastanza a sproposito, sia delle Sacre scritture sia di espressioni in lingua greca e in lingua latina.
Per il PD tutto, una riflessione informativa: contrizione significa dolore e pentimento per il male compiuto come offesa a Dio stesso; attrizione è come dire dolore (anche se non tanto) e pentimento per il male compiuto, e non per avere offeso Dio, ma per paura della pena eterna dell’inferno. Una differenza radicale, tanto grande da far concepire teologicamente la contrizione come sufficiente per accedere al purgatorio, anche a fronte di peccati gravi e senza la confessione formale dei peccati, e l’attrizione come atteggiamento sufficiente per il perdono divino, ma solo dopo una confessione formale. Detto altrimenti, il peccatore contrito è atteso comunque dal purgatorio, il peccatoreattrito può rischiare l’inferno.
Questo vale per la casistica canonico-penalistica classica. Che cosa c’entra con la direzione del PD? Vedremo più avanti: qui mi limito a dire che tutti/ tutte erano almeno “attriti/ e” per il male commesso di avere sbagliato, non solo la campagna elettorale, ma le politiche degli ultimi dieci o dodici anni, troppo confusamente “governativistiche” e poco attente ai bisogni del popolo, cui sono stati più attenti i populisti di destra e di sinistra. “Di sinistra” per modo di dire, visto che si tratta dei grillini.
C’è chi ha tirato fuori di nuovo le “agorà (!!!) democratiche“, nonostante, se si vuole usare correttamente il greco, si debba scrivere “agorài“, perché l’espressione è plurale. Mi sono affaticato a scriverglielo due o tre volte a “contatti PD nazionale”, ma si vede che, o non leggono, oppure la cosa non gli sembra importante. Possibile che non vi sia nessuno in quei luoghi che abbia fatto uno straccio di liceo classico? Una volta da quelle parti c’era il professor Alessandro Natta, oggi ci sono invece le Serracchiani et similia.
Altra perla odierna, peraltro pronunziata da una delle migliori intervenute, la Ascani. A un certo punto ha esclamato una cosa del genere: “…dobbiamo essere saggi, come suggerisce il detto latino festìna lente (cioè affrettati lentamente, sottinteso, con saggezza), con l’accento sulla “i”, mentre si deve scrivere e dire fèstina lente, con l’accento sulla “e”.
Anche qui, è importante questa cosa? poco, molto?… dico, rispetto al quasi deserto propositivo della riunione, su cui arrivo subito. Se si vuole essere seri, e seeri non à la Calenda, ma à la Marco Aurelio, sarebbe bene rispettare anche le nostre madrilingua, e non usarle a sproposito.
Di più: Pollastrini, una “storica” dell’antico Pci, a un certo punto ha detto con enfasi che “ci vuole uno spirito santo” (al minuscolo perché noi laici… alla faccia dei cattolici del PD, che però probabilmente poco conoscono dello Spirito Santo come terza Persona della SS. Trinità, Dio Unitrino). Figurarsi la Pollastrini. Dimenticavo, lei intendeva lo “spirito santo” (rigorosamente minuscolo!) come “partecipazione popolare”.
Su questo potremmo anche disquisire e fors’anche (pur se solo in parte) convenire, perché, teologicamente, lo Spirito Santo “soffia dove vuole” e pertanto può senz’altro “soffiare” sulla partecipazione popolare, visto che la Chiesa è il Popolo di Dio (cf. Lumen Gentium I, Roma 1965).
Naturalmente provvederò a inviare alla direzione del PD una copia di questo pezzo e i riferimenti bibliografici per una, se non necessaria, opportuna acculturazione specifica, se si vuole persistere nelle citazioni filosofiche e scritturistiche.
Vengo al dunque. Innanzitutto l’analisi del voto. Solo Letta prova a farla con una sufficiente dovizia di supporti logici e di argomentazioni, oltre al cavalleresco tirarsi indietro come segretario, virtù presente in pochissimi altri di quel consesso. Certo, gli spettava, ma almeno mostra una onestà intellettuale di cui gli altri / le altre sono nella maggioranza (degli interventi che ascolto) privi/ e. Non uso lo schwa, IMBECILLI! (qui mi rivolgo ai tifosi/ e di questa idiozia)
Si sbaglia Letta, a parer mio, però, quando prova a ri-sostenere che la colpa del fallimento del “campo largo”, che doveva comprendere tutti, da Renzi & Calenda a Fratoianni, e forse a Ferrando e Marco Rizzo, e soprattutto i 5 Stelle, è da attribuire al furbo capo di questi ultimi. No, caro Letta: è sbagliato il concetto e il progetto. Non puoi far ragionevolmente convivere Renzi & Calenda con Fratoianni (e mi fermo qui), se quest’ultimo ha sempre votato contro il Governo Draghi. Ma come fai solo a pensarlo? Già Prodi sbagliò clamorosamente quando onorò di credibilità il Bertinotti che lo pugnalò “senza se e senza ma” (ridicolo sintagma che il perito chimico di Torino si attribuì orgogliosamente, così come con altrettale sentimento si gloriò talvolta di non avere mai firmato un accordo). Repetita quoque non juvant (se proprio si vuole ostinatamente usare il latino).
O il PD è capace (non lo è stato finora), sperando che lo sia in futuro, di proporre una politica riformistica complessiva dove possano armonizzarsi diritti & doveri sociali (dimenticati dal PD per un decennio) e civili (privilegiati dal PD per un decennio, peraltro senza successo, scimmiottando una sorta di partito radicale di massa), oppure non avrà futuro, perché sarà sostituito del tutto, “a destra” dal duo liberal-riformista R & C, e “a sinistra” da quel dandy-falsodemocristiano di Conte e codazzo cantante. Senza che con questa citazione di destra e sinistra sia un modo per con-fonderle. Ma oggi non bastano questi due poli: piuttosto si esige di distinguere tra culture politiche populiste che sono sempre più rossobrune e culture politiche dell’intelligenza, della competenza e della ragionevolezza.
Non ho ascoltato chiarezza sul piano programmatico, mentre già il Partito deve fare i conti con le fughe in avanti di chi si auto-candida alla segreteria come De Micheli o Schlein (pure!). All’improvviso, come la canzone di Mina. La “gente” (chissà se De Micheli si ritiene “gente” o benaltro dalla gente) non ha il senso delle proporzioni, a volte.
Quale il tema? Come si può sintetizzare un riformismo realistico e capace di leggere i “segni dei tempi”. Eppure non è difficilissimo. Equità sotto il profilo fiscale, NON aumentando tasse in alto, ma equilibrando le aliquote alle categorie produttive, diciamo fino a 150.000/ 200.000 di reddito annuo, che è lo stipendio di un dirigente industriale bravo e responsabile, che deve essere alleato del riformismo. Si tratta della borghesia intelligente e produttiva che anche Marx apprezzava moltissimo, ma sembra che i suoi mezzi nipotini non la capiscano. Mi spiego meglio: non sto parlando dei vacanzieri di Capalbio, che sono bene rappresentati anche nel PD, ma di chi opera nell’economia reale, non nel terzo settore privilegiato degli influencer e del giornalismo televisivo, che è uno dei settori più deleteri di questi ultimi anni.
Circa il Reddito di cittadinanza, invece di seguire a papera i 5S (cf. esperimento di etologia di Konrad Lorenz), recuperare il Reddito di inclusione selezionando le posizioni dei percettori e obbligandoli a considerare seriamente le offerte di lavoro. Politiche attive del lavoro fatte da chi le sa fare, cioè le società di somministrazione, non dai fantasiosi navigator, opera del Dimaio vincitore delle povertà e tritato dalla sua stessa ambizione, senza senso della misura. La sorte lo ha collocato finalmente dove meritava di stare da tempo, l’oblio.
Il PD dovrebbe saper parlare di diritti civili senza allinearsi al mainstream (dico e scrivo ancora una volta, ahi ahi Letta!) della scuola materna obbligatoria dai tre anni di età, del D.D. L. Zan, che, così come è congegnato, prevede il reato di opinione. Io, socialista autentico e antico, ho scritto cinquanta volte che la maternità surrogata (evitando l’espressione atroce di “utero in affitto”) è un abominio morale e socio-culturale, così come quasi lo è l’adozione da parte di coppie omosessuali, per ragioni educazionali e socio-culturali. Per queste affermazioni, in base allo “Zan” potrei essere denunziato da qualche anima bella, inquisito da qualche giudice ecumenico e condannato. Ma siamo impazziti?
Sono esempi di come il PD si è perso, non è stato più né socialista né cattolico democratico. Posso continuare.
Sulla pace e la guerra. Senza fumisterie incomprensibili, il PD dica tutto insieme che l’Ucraina, aggredita, deve essere sostenuta fino al raggiungimento di una situazione che la metta in sicurezza, evitando qui di parlare di Crimea e/o Donbass sì, Crimea e/o Donbass no, ma chiarendo che la pace la pace la pace su cui ululano Conte e altri non si ottiene se non da una onorevole posizione di autodifesa. Non vada in piazza il PD su una “piattaforma” grillina” o vagamente pacista. Potrebbero svegliarsi i partigiani della pace in sonno da cinquant’anni, perfettamente “sovietici”, a volte ingenuamente nascosti anche in mezzo ai cattolici.
Il PD smascheri chi si attribuisce ogni merito di qualsiasi cosa, come ancora si azzardano a fare i 5 STELLE CHE HANNO PERSO – RISPETTO AL 2018 – CINQUE MILIONI DI VOTI, e parlano come se il 25 settembre avessero vinto, su questo aiutati da giornalisti e giornaliste almeno superficiali (tipo la Manuela Moreno di Rai 2 Post).
Non si vergogni (c’è qualche d’uno che comincia a vergognarsi, come fa Salvini, quasi, nel PD) di avere sostenuto il governo Draghi, che ha mostrato il volto buono e forte dell’Italia. Agenda o non agenda Draghi, l’Italia, con quest’uomo è stata più credibile e creduta nel mondo. Sulla lotta alla pandemia, sul tema della guerra e su quello energetico, anche Meloni, intelligentemente, e fregandosene di Salvini e dei suoi seguaci un po’ vigliacchetti (pensavo che Giorgetti avesse più attributi, mi sbagliavo), si sta collegando alle politiche del governo Draghi, con cui non vuole creare una cesura pericolosa, ma vuole proseguirne le parti più efficaci, per l’Italia.
C’è una grossa e profonda riflessione da fare sulla democrazia, sui meccanismi della rappresentanza in una società ipermediatizzata, su ciò che sia reazione e su ciò che sia conservatorismo… perché anche io sono progressista socialmente e nel contempo conservatore del bello italiano e della cultura. Reazione e conservatorismo non sono la stessa cosa, cari del PD! Troppi di voi fanno confusione, o per ideologia o per carenze culturali, di grazia!
Per la verità non ho ascoltato solo le cose più ovvie dai politici più politicanti (maschi o femmine che fossero), perché diversi interventi si sono distinti per lucidità e passione, ma, guarda caso, non tanto quelli dei “potentati” (e anche qui vi sono delle distinzioni da fare, ad esempio un Misiani non dice mai banalità), ma piuttosto gli interventi delle persone più “di confine”, come la calabrese Bossio o la italo-iraniana, di cui non ricordo il nome, che ha spiegato come il cambiamento stia avvenendo nella sua grande Nazione, non solo per la presa di posizione delle donne, ma ancora di più perché assieme con le figlie stanno scendendo in piazza i padri, con le sorelle i fratelli, con le mogli i mariti.
Analogamente, un partito che non tenga le donne nel loro giusto merito, non può cambiare, soprattutto se le donne non imparano a solidarizzare tra loro e se i maschi non la smettono con le “quote rosa”, WWF della distinzione di genere.
Infine, invece di continuare a demonizzare “la peggiore destra d’Europa” (lo ho sentito affermare anche oggi), il PD vada a vedere perché Fratelli d’Italia, con un gruppo dirigente piuttosto mediocre, a parte la leader, Crosetto e qualche altro, ha preso il 26% dei voti dati? Un 26% di imbecilli? Mi pare di no.
Io non la ho votata, ma non ho neanche votato PD, io che dovrei trovarmi lì di casa… Qualcuno se lo vuol chiedere? Gli interessa?
Storicamente il concetto di prudenza, phrònesis in greco, prudentia in latino, è sempre stato un elemento di saggezza popolare e di riflessione filosofica.
Il “grande Ayatollah Ruollah Khomeini”
Dal popolo minuto ai più grandi pensatori ha avuto un’attenzione somma, sia per la gestione della vita quotidiana, sia per l’esercizio del pensiero sui comportamenti umani.
Molto semplificando, posso citare Aristotele, che la studiò nel suo grande testo Etica Nicomachea, per poi passare ai Padri della Chiesa, sia i meno conosciuti come Giovanni Climaco ed Evagrio Pontico, sia i maggiori come sant’Agostino e papa Gregorio Magno, per finire con Tommaso d’Aquino che sulla prudenza trattò diffusamente nella Summa Theologiae, parte Seconda, distinguendo tra le sue varie “parti” costitutive e modalità di utilizzo nella vita di tutti i giorni.
In seguito fu oggetto di studio da parte di altri sommi pensatori come Baruch Spinoza e Immanuel Kant, che ne parlarono, rispettivamente nell’Ethica more geometrico demonstrata e nella Critica della Ragione pratica. Non aggiungo altri autori, che pure non mancano in anni contemporanei.
Siccome in questo pezzo non devo sviluppare né le dimensioni né la profondità analitica di un trattato, passo al pratico, facendo tre esempi molto attuali.
Primo esempio. E’ nota a tutti la tragica vicenda del mio giovane conterraneo Giulio Regeni, che fu ucciso in Egitto oramai sei anni e mezzo fa al Cairo in circostanze non mai chiarite. Non sto qui a recriminare e a condannare le autorità egiziane, perché lo ho già fatto più volte. Vi è però stato un aspetto che di tutta la vicenda non mi ha mai convinto: quello del ruolo della Università di Cambridge dove il bravo Giulio stava conseguendo un bel Dottorato di Ricerca in scienze sociali, e soprattutto circa il ruolo della sua tutor. Più avanti aggiungerò il commento che desidero formulare in comune sui tre casi.
Il secondo caso: da una settimana circa la signorina Alessia Piperno di Roma, mentre si trovava a Teheran in Iran, dove stava viaggiando come era solita fare spesso (i suoi spiegano che viaggiava molto, abitudine che si apprende anche dalla sua cospicua attività sui social) è stata arrestata dalla polizia speciale dei bajiji (bagigi, curioso, no?), e ora si trova da qualche parte, ospite delle patrie galere islamiche sciite.
Il terzo caso: quattro ragazzi italiani, con età dai ventuno a i ventinove anni, sono stati arrestati nella città indiana di Ahmedabad, perché trovati a dipingere le pareti del metrò a mo’ di graffitari nostrani.
Domanda, mio caro lettore: c’è un pensiero, concetto, sentimento comune tra questi tre casi? Dimanda rettorica… ebben sì, una certe dose di diversificata imprudenza, cioè di non-prudenza. Mi spiego bene.
Se mia figlia, che è più o meno coetanea del povero Giulio, alla data della sua morte, dovesse predisporre la parte sperimentale di un PhD, aggirandosi per i vicoli e i mercati di una metropoli tipo Il Cairo, intervistando ambulanti e precari, sapendo quali dinamiche si nascondono dietro questi ambienti, condite di mafiosità delatoria, anche se lei maggiorenne, mi opporrei con tutte le mie forze. Dico cose scandalose?
Sulla ragazza romana: se, sempre mia figlia volesse fare la giramondo indefessa, impegnata soprattutto nel registrare ciò che incontra e vede in giro per ogni genere e specie di nazioni e paesi, non mi compiacerei come ho sentito fare dai genitori della ragazza. Ma non lavora mai questa benedetta giovine donna o vive dei like di ciò che posta?
Come si fa ad andare alle manifestazioni, non solo legittime, ma di più, doverose, che donne e uomini persiani stanno facendo da settimane per cercare di smantellare l’insopportabile teocrazia islamica che impedisce l’esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini? Stattene da parte, non metterti in evidenza. E’ chiaro che, se ti beccano, ti arrestano, anche a fini di ricatto verso l’Italia, notoriamente amica di USA e Israele, nazioni ritenute e definite demoniache dagli ayatollah iraniani.
Da ultimo, se un mio carissimo figliuolo si mettesse a imbrattare un bene pubblico della grande nazione indiana, oltre a farlo tornare al più presto, gli somministrerei due sonori ceffoni, uno per guancia.
Io la penso in questo modo, caro lettore, su prudenza e imprudenza.
Rivendico lo spazio mentale politico e culturale di una sinistra, di un socialismo democratico che possa fare a meno dell’elenco di persone che ho citato nella seconda parte del titolo, recuperando le figure elencate nelle prima parte.
Tristan Tzara
Da anni mi annoio ascoltando e leggendo parole e testi di persone che si collocano “a sinistra” nello schieramento cultural-politico italiano, ma in realtà sono esempi di mero snobismo chiccoso.
Non ho nulla da condividere con l’elenco delle persone collocate “a sinistra” nel titolo.
Ho tutto da condividere con i lavoratori, gli imprenditori, gli studenti, i colleghi che conosco e con i quali collaboro e con-vivo nel lavoro e nella cultura.
…e con gli artisti e gli studiosi del primo elenco, che forse piacciono individualmente a quelli/ e del secondo elenco, ma ciò non basta, non vi è la proprietà transitiva. Un esempio: se a Cirinnà piace Breton, non è detto che siccome a me interessa Breton, mi piaccia Cirinnà. Chiaro?
Mi fermo qui, perché l’articolo è tutto o quasi nel titolone, la cui struttura mi convince sempre più.
L’amico Franco che non è esente da peccati, come peraltro ciascuno di noi, io in primis, mi ha offerto una interessante metafora, quella dell’asino che, anche se travestito da cavallo, non potrà mai confondere il suo padrone o il compratore, circa la sua natura di equino.
In altre parole, pure se agghindato come un destriero, un asino sarà sempre tale, perché prima o poi gli scapperà un potente raglio.
Il raglio non è un nitrito… E questo vale in ogni ambiente e in ogni situazione. Quante persone che sono asini cercano in tutti i modi di assomigliare a cavalli!
Attenzione, non sto denigrando l’asino, che è un animale intelligente, splendido, ma sto ragionando sul bisogno che molti hanno di apparire ciò che non sono. La politica è uno degli ambienti più ricchi di cavalli che ragliano.
L’attuale capo dei 5 Stelle è uno di questi. Parlo di Giuseppe Conte da Foggia, avvocato. Ma è solo un esempio, perché questo signore è in buona compagnia tra i suoi sodali e al di fuori, negli altri partiti. Devo dire che, dopo queste elezioni politiche, il meno “asino” di tutti, nonostante abbia compiuto molti errori di conduzione del suo partito, si è rivelato Enrico Letta, che ha capito di avere concluso il suo percorso e di aver esaurito la sua “spinta propulsiva” (efficace espressione berlingueriana) in un partito più confuso di lui. Per passione politica, mi auguro che il nuovo segretario rinnovi anche lo staff del segretario uscente, perché di livello politico penoso, impresentabile, con ciò augurandomi/ loro che vi siano persone migliori di queste ultime. Anzi, ci credo.
L’asino (Equus africanus asinus – Linnaeus, 1758), detto anche somaro, è un mammifero perissodattilo della famiglia Equidae. Deriva dall’asino selvatico africano (Equus africanus) attraverso una selezione della sottospecie nubiana.
Non occorre qui descriva l’asino, animale energico e nevrile, addomesticato dall’uomo da millenni, forse dal 3000 a.C. in Egitto, diffuso in diverse razze nelle varie regioni del mondo, le cui forme e abitudini sono note a tutti o quasi. Forse non ai ragazzi delle ultime generazioni, come mostra il racconto con il quale chiudo questo articolo.
L’animale è adatto al trasporto di some e al traino di carretti anche su terreni difficili, utilizzato anche dalla truppe alpine, anche se meno del suo fratello maggiore, il mulo, che nasce da un asino e da una cavalla.
Ai primi del ‘900 fu anche pubblicata dai socialisti una rivista di critica e satira contro gli scandali di quegli anni e le repressioni poliziesche, chiamata L’Asino, sotto la guida di Guido Podrecca, universitario cividalese e pupazzettista straordinario. I cattolici editarono Il Mulo, per far contro ai socialisti. Tanto per raccontare a chi non lo sa cose di un secolo fa e oltre.
L’asino di Buridano (o “Paradosso dell’asino”) è un apologo tradizionalmente attribuito al filosofo della prima metà del XIV sec. Giovanni Buridano (1295-1300 circa – 1361), ma che probabilmente non è dovuto a lui, poiché non si trova negli scritti di Buridano, né corrisponde alle sue idee relativamente alla libertà, dato che piuttosto egli oscilla tra il volontarismo e l’identificazione (aristotelico-averroistica) di intelletto e volontà. È probabile che la storia, derivata da un problema del De caelo (Aristotele, De caelo, II, 295 b 31-34), sia nata nelle discussioni di scuola, ove è documentata.
L’apologo narra come un asino posto tra due cumuli di fieno perfettamente uguali e alla stessa distanza non sappia quale scegliere, morendo di fame e sete nell’incertezza.
Secondo Buridano l’intelletto è sempre in grado di indicare all’uomo quale sia la scelta giusta tra le varie diverse alternative tanto che se, per assurdo, la scelta fosse costituita da due elementi identici la volontà si paralizzerebbe a meno che non si scegliesse di non scegliere. Esamina il paradosso nel II libro dell’Etica:
Per commentare il racconto riporto due riflessioni, la prima di Baruch Spinoza:
«In quarto luogo si può obiettare: se l’uomo non opera per libertà del volere, che cosa accade quando si trovi in uno stato di equilibrio come l’asino di Buridano? Morirà di fame e di sete? Se lo concedo, sembra che io concepisca un’asina o una statua di uomo, non un uomo; se invece lo nego, ne consegue che egli può determinare sé stesso e quindi ha la facoltà di andare [verso il cibo] e di fare quel che vuole. (…) Per quanto riguarda la quarta obiezione, concedo che l’uomo, posto in un tale equilibrio (cioè di chi non percepisce altro che la sete e la fame, tale cibo e tale bevanda, che distano ugualmente da lui), perirà di fame e di sete. Se mi domando: un tale uomo non è da considerare piuttosto un asino che un uomo? rispondo di non saperlo, come non so in qual modo sia da considerare chi si impicca e come siano da considerare i bambini, gli stolti, i pazzi etc.»
…la seconda di Johann Gottfried Leibniz:
«(…)È vero che bisognerebbe affermare, se il caso fosse possibile, che l’asino finirebbe per morire di fame…Infatti l’universo non potrebbe essere bipartito…in modo che tutto fosse uguale e simile da una parte e dall’altra, come una ellissi o un’altra figura in un piano, del numero di quelle che io chiamo ambidestre, che siano bipartite da qualche linea retta passante per il centro…. Vi saranno perciò molte cose, dentro e fuori l’asino, anche se non ci appaiono, che lo determineranno a dirigersi piuttosto da una parte che dall’altra. E benché l’uomo sia libero, mentre l’asino non lo è, non cessa perciò d’essere vero, e per la stessa ragione, che anche nell’uomo il caso di un equilibrio perfetto tra due parti è impossibile e che un angelo, o Dio almeno, potrebbe sempre trovare la ragione del partito preso dall’uomo, indicando la causa o la ragione inclinante che l’ha realmente indotto a prenderlo, anche se questa ragione molto spesso è composta ed inconcepibile a noi stessi, perché la connessione delle cause le une con le altre va molto lontano.»
Ora la risposta della ragione per cui ho scomodato Buridano e il “suo” asino. Trovo anche gli asini siano numerosi non solo nella politica, ma anche nella ordinaria vita civile e familiare. Un esempio di asineria clamorosa.
A Wollogong in Australia si è svolto in questi giorni di inizio autunno il campionato mondiale di ciclismo. La notte prima delle gara su strada dei professionisti, poi vinta dal meraviglioso Remco Evenepoel, alcune ragazzine scapestrati hanno impedito di dormire a Mathieu Van der Poel, grande generoso campione olandese, figlio di Adrie e nipote di Raymond Poulidor. Probabilmente Mathieu è uscito sul corridoio e può avere forse rimproverato e anche spinto qualcuna delle piccole teppistelle, figlie di genitori imbecilli. La mattina la polizia gli ha sequestrato il passaporto e comunicato che dovrà rimanere per sei settimane a disposizione delle autorità locali per un processo. Poi, si è saputo che tutto si è risolto con una multa di 1500 dollari a Van der Poel. Becco e bastonato.
Resta un fatto: dove erano i genitori dei ragazzini che all’una di notte imperversavano nei corridoi dell’albergo? Dove era il personale dell’albergo? Dove lo staff della squadra olandese? Come si tratteranno le piccole teppiste, con un bonario rabbuffo?
Se la cosa fosse successa qualche decina di anni fa, le ragazzine avrebbero temuto l’arrivo dei genitori, mentre ora al contrario i genitori difendono i propri piccoli idioti a prescindere dai loro comportamenti, come raccontano numerosi fatti di cronaca italiana che registrano aggressioni a insegnanti, insulti e denunce. I giovanissimi maleducati, invece, rimangono largamente impuniti e soprattutto, ciò che è peggio, in-educati.
E’ un insulto all’asino paragonare queste generazioni di genitori al nobile equino, ma lui capirà che si tratta di una metafora legata a una certa immagine popolare, e la sopporterà.
Il praesens, il tempo presente, secondo Agostino è l’unico concetto di tempo che abbia senso, poiché il passato deve essere affidato alla memoria e il futuro non si può conoscere né prevedere. Lo scrive splendidamente nel celeberrimo testo che troviamo nel LIbro XI delle Confessiones.
il generale tedesco Erwin Rommel (che per me merita rispetto)
Fino alla scoperta einsteiniana della relatività generale, che è una dottrina della scienza fisica, e anche dopo, l’intuizione del grande filosofo e Padre della chiesa africano è rimasta la più sinteticamente icastica ed efficace della cultura occidentale.
Per quale ragione nel titolo ho collegato tempo epotere? Quale è la relazione plausibile e necessaria fra i due concetti? E’ intuitiva: perché il potere si esercita concretamente nel presente, anche se certamente trae origine nel passato e può durare nel futuro, e vive nello spirito-che-attraversa-la-Storia e, secondo Hegel, la dirige, la orienta, dottrina, cui aggiungo – cristianamente – l’itinerario salvifico dell’anima umana: l’Itinerarium mentis in Deum, come spiega il padre francescano san Bonaventura da Bagnoregio. Lo Spirito è l’Oriente della Storia e, potremmo aggiungere, è anche il luogo originario delle grandi dottrine religiose. Specifico, però, che in senso metastorico e filosofico lo Spirito nulla c’entra con la semantica della spiritualità religiosa.
Il tempo è correlato allo spazio, secondo Einstein, e ha a che fare con la vita dell’universo e di ciascuna delle nostre vite. Vi sono teorie, senza conferme esperienziali, di un diverso modo di dipanarsi del tempo e dello spazio che pongono l’ipotesi di universi paralleli, oppure di poter viaggiare nel tempo, come nel film di Zemeckis e in Terminator. Vi è di tutto sul tema del tempo, laddove il presente si smantella continuamente in un fluire senza ordine logico.
Sappiamo di vivere nel tempo perché nasciamo, viviamo e moriamo, e perché le prime due dimensioni le constatiamo insieme con gli altri, mentre la terza possiamo solo osservare dall’esterno, come insegnava Epicuro.
Il potere, il kràtos (in greco antico Κράτος), è un personaggio mitologico, e rappresenta il potere di dominio, il potere che soggioga e si impone sugli altri e/ sugli avversari, e infine il potere politico democratico ed economico-gestionale. E’ correlato all’autorità, che si colloca laddove il potere stesso viene esercitato e, peraltro, il potere viene esercitato da chi ha autorità su qualcuno o molti, e sulle cose. Si pensi al potere che eserciteranno i rappresentanti delle forze politiche che vinceranno le elezioni di domenica 25 settembre 2022 in Italia. Democraticamente, e quindi con una minoranza che potrà discutere, contestare, proporre altro rispetto alle decisioni di chi ha vinto ed avrà un ruolo di esercizio del potere, e l’autorità giuridico-formale per attuarlo.
Aristotele, Alessandro il Macedone, Seneca, Cicerone, Cesare, Annibale, Scipione, Agostino, Carlo Magno, Alessio Comneno, Tommaso d’Aquino, Federico II di Svevia, Gengis Khan, Timur Lenk, Salah el Din, Solimano il Magnifico, Carlo V d’Asburgo, Wallenstein, Luigi XIV, Pietro il Grande, Montesquieu, Rousseau, Napoleone Bonaparte, Kutuzov, Hegel, Pio IX, Vittoria d’Inghilterra, Caterina II di Russia, Giolitti, Kemal Atatürk, Mussolini, Stalin, Hitler, Zukhov, Patton, von Kleist, Rommel, Churchill, Eisenhower, Tojo, Ciang Kai Sheck, Mao Tze Dong, Deng Hsiao Ping, Gandhi, Nehru, De Gaulle, Kennedy, Nasser, Gheddafi, Breznev, Walesa, Komeini, Woytjla, Saddam, Kelsen, Craxi, Andreotti, Agnelli, Putin e molti altri che potrei ricordare, cui il lettore può aggiungere altre decine, nella politica, nel mondo militare, nel mondo religioso e in quello economico, se ne sono interessati, filosofando alcuni e praticandolo i più, negli ultimi duemila e quattrocento anni.
Esiste il potere dell’autorità legittima, diversamente sviluppatasi nel tempo, dalle monarchie alle dittature, fino alle democrazie, che hanno avuto prodromi fino dalla Grecia classica, ma vi è anche un potere di natura diversa, più psicologica e spirituale, il potere della ratio operandi e della moral suasion.
Giova qui ricordare anche il violentissimo potere patriarcale, così come ha confessato telefonicamente di avere esercitato il padre di Saman, diciottenne pakistana, uccisa nel 2021 in Italia dal padre, che si è sentito offeso nella dignità, perché lei “ha osato” contravvenire agli ordini paterni di accettare solamente nozze ordinate dal genitore. Giova anche ricordare che anche in Italia, fino quasi agli anni ’80 del secolo scorso, vigeva la legislazione e la prassi giuridica del delitto d’onore, cui era riconosciuta una specie di dignità morale che meritava una punizione penale molto blanda: se qualcuno, per motivi d’onore ammazzava una donna della propria casa (figlia, sorella, moglie, etc.) veniva punito, non con i 21 anni che sono previsti dall’ordinamento penale italiano per un omicidio non premeditato e senza aggravanti, ma con 5 o 7 anni al massimo, di carcere. Si pensi, il cosiddetto “omicidio d’onore” non veniva considerato premeditato, come invece era senza dubbio alcuno, per la sua stessa struttura ontologica di crimine radicale.
Mi limito qui a citare solo l’esempio della povera Saman, senza citare le legislazioni che, nel tempo, hanno collocato la donna, salvo rare eccezioni, al di fuori del potere e del suo esercizio. Possiamo citare in questo senso il Codice di Hammurapi, i libri biblici del Deuteronomio e del Levitico, la legislazione romana delle XII Tavole, il Corpus Iuris Civilis giustinianeo, le Leggi longobarde, quasi tutta la Legislazione islamica fino ai giorni nostri, e infine anche quella italiana che “concesse” il voto alle donne solamente nel 1946, superando lo Statuto Albertino che datava 1848.
Proviamo qui ora ad esaminare in breve le differenze tra potere reale, giuridicamente dato e poter derivante dalla moral suasion. Il potere esercitato dall’autorità riconosciuta per legge, che si colloca nella posizione prevista, come nel caso di ruoli e posizioni acquisite per elezione, come in generale nella politica e nell’associazionismo, oppure per nomina, modalità più diffusa nel privato economico: un deputato viene eletto dal popolo, mentre un Amministratore delegato o un Presidente viene nominato dal Consiglio di Amministrazione di un’azienda. Una differenza formale radicale, che si sostanzia anche nell’agire di un “eletto” rispetto a un “nominato”. Infatti, l’AD nominato deve rispondere solo al Consiglio di Amministrazione e alla Proprietà dei risultati del suo agire direttivo, per cui se è manchevole nei suoi compiti di direzione può venire anche immediatamente sostituito; il deputato eletto, invece, deve rispondere, prima di tutto ai suoi elettori, ma anche a tutto il corpo elettorale e alla propria parte politica. La durata dell’incarico del deputato è prefissata in cinque anni, salvo che, come in questo caso, non siano convocate le elezioni anticipate.
Ciò detto, torniamo alla ratio operandi e alla moral suasion, che è un altro tipo di “potere”. La ragione dell’operare viene compresa da chi dirige un ente, anche se viene da qualcuno che non fa parte del gruppo dirigente (CdA, Board, Presidente, Amministratore unico o delegato, Direzione generale…). Esperienza personale di cui di seguito parlo.
Presiedo una dozzina di organismi di vigilanza nei modelli dei Codici etici aziendali. Non devo, non voglio, non mi piace interferire nei flussi gerarchici aziendali, ma sto in una posizione tale che mi permette di dialogare con i vertici aziendali e le proprietà senza interposizioni e di fatto in qualche modo influisco sulle decisioni, mediante una ratio cogitandi et operandi riconosciuta dai miei interlocutori, e una certa moral suasion, che può essere efficace. E’ un modo non usuale di esercitare una forma di potere indiretta, ufficiosa, pacata, con l’equilibrio di chi non è direttamente coinvolto nei processi gerarchici, ma può osservarli dall’esterno con un interesse essenzialmente morale, nel quale sono assenti i tipici processi psicologici dell’autoaffermazione del proprio ego, di quella che chiamo libido potestatis (Lat.: piacere di esercitare il potere).
In altre parole, si può anche esercitare un potere utile ed eticamente fondato, influenzando positivamente chi lo detiene per ruolo, posizione e legittima autorità giuridicamente data.
Il caro amico Alberto Felice De Toni, con il collega Bastianon, ha scritto un volume fondamentale sul tema, Isomorfismo del potere, edito da Marsilio, nel quale analizza la dimensione del potere secondo la sua amata scienza della complessità, che afferisce non solo all’esercizio tradizionale del potere che attiene alla politica, all’economia e all’ambito militare, per tacere della chiesa, ma si declina all’interno di ogni ambiente in maniera sistemica. Cito un passo della prefazione: “Così come nella cristallografia, sistemi tra loro diversi, ma con proprietà analoghe, in quanto strutture sociali, presentano similitudini circa il fenomeno del potere. Queste similitudini sono i cosiddetti isomorfismi.“
Infine un accenno alla politica di queste ore: pur avendo del potere solo una vaga nozione filosofico-psicologica, il solito ineffabile Conte mette in guardia il mondo dalla moral suasion sui nuovi governanti che Mario Draghi potrebbe operare, in ragione del suo prestigio e della sua credibilità nazionale e internazionale (che a Conte mancano, e lui lo sa anche se non lo ammette), con ciò riconoscendogli quel valore che il grillino ha disprezzato, con le sue spregevoli azioni atte a far cadere il Governo di unità nazionale, riuscendoci con la collaborazione di altri avventurieri come Salvini.
E dunque, il potere non è, di per sé, buono o malo, come ritengono le dottrine anti-autoritarie di ogni tempo, che confondono autoritarismo e autorevolezza, ma trae valore morale positivo solamente dal modo in cui viene esercitato per fini buoni, vale a dire fini che diano risposte di tutela, vita e sviluppo equilibrato per tutti i soggetti interessati dall’esercizio del potere stesso.
Mi rivolgo a te in modo confidenziale, caro lettore, con il “tu”, come mi pare peraltro faccio sempre. Ma stavolta più convinto, di questo “tu”.
Il primo Presidente della Repubblica Italiana avv. Enrico De Nicola firma la carta Costituzionale
L’articolo 48 della Costituzione della Repubblica Italiana parla del diritto-dovere di partecipare a tutte le consultazioni elettorali, che siano politiche o amministrative, ovvero referendarie, in base al suffragio universale che in Italia esiste SOLO dal 1946, quando furono ammesse al voto anche le… donne!!! Evviva. Eccolo:
“Sono elettori tutti i cittadini, uomini e donne, che hanno raggiunto la maggiore età. Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico. La legge stabilisce requisiti e modalità per l’esercizio del diritto di voto dei cittadini residenti all’estero e ne assicura l’effettività.”
Una bella novità in tema, questa volta, è che possono votare per il Senato della Repubblica anche i diciottenni, mentre fino al 2018, alle precedenti consultazioni politiche, il limite era di 21 anni.
Forse, però, la più grande novità, prevista da una Legge dello Stato, è il cambiamento radicale dei numeri di deputati e senatori, che passano, per la Camera dei deputati, da 630 a 400, e per il Senato della repubblica da 315 a 200.
La normativa di merito è la seguente: detta legge costituzionale prevede la riduzione del numero dei parlamentari, da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi. La proposta di legge costituzionale A.C. 1585-B è stata approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati, nella seduta dell’8 ottobre 2019, in seconda deliberazione.
Anche qui, dico evviva, perché non mi convincono i critici di questa riforma, che sostengono sia avvenuta una riduzione effettiva della rappresentanza democratica. Io penso che non sia vero per la semplice ragione che basta che questa rappresentanza sia equamente distribuita fra i territori e le popolazioni, anche se, in questa tornata, il modello soffre di una legge elettorale, il cosiddetto “rosatellum” che costituisce l’ennesima fallacia (si pensi che un modello precedente era chiamato “porcellum” dallo stesso suo estensore, l’on. Roberto Calderoli della Lega che, dopo averlo scritto, si accorse “che faceva schifo”, parole sue, più o meno come l’attuale “rosatellum“); per la cronaca tra i due sistemi qualcuno ebbe anche cuore di proporre il cosiddetto “italicum“, anch’esso fortemente deficitario sotto il profilo della rappresentanza in materia di sistema elettorale.
Il sistema elettorale è comunque ancora una volta da cambiare per trovare una sintesi tra le esigenze della rappresentanza degli elettori e le esigenze della governabilità, come proponeva Craxi quarant’anni fa, morto in esilio, non più colpevole di corruzione degli altri politici del tempo.
E vengo alla campagna elettorale che è giunta agli ultimi giorni utili. Qualcuno dei partecipanti a questa campagna ha osservato come questa sia la più stupida a memoria di elettore italiano. Condivido. Stupida, sgangherata, insensata. Parto dall’ultimo aggettivo: insensata, perché avrebbe potuto svolgersi regolarmente tra cinque mesi, come previsto dal quinquennio costituzionale; sgangherata per il livello del dibattito politico; insensata perché il Governo Draghi è caduto su una impuntatura de minimis (il termovalorizzatore di Roma) attuata dall’ineffabile, per me insopportabile, mediocrissimo, dandy foggiano, cioè Conte, supportato dal ghignante ignorante improvvisato scappato di casa segretario della Lega, e dalla tiepidezza di Berlusconi.
Non cito Meloni, perché – coerente nel tempo – questa donna, che spero non diventi Capo del Governo, ma se lo diventerà sarà una scelta perfettamente democratica, cari voi che contestate questa verità, ha ottenuto ciò che chiedeva da anni. Non salvo nemmeno il PD, che da quasi un quindicennio, dai tempi di Veltroni, ha guide deboli e incapaci, salvo forse il miglior periodo del primo Bersani che fece delle riforme dignitose come ministro, e della prima fase di Renzi. Zingaretti stia nel Lazio e Letta torni mestamente a Parigi. Quest’ultimo mi deprime, addirittura. Degli altri non mi curo, salvo il dire, più avanti, qualcosa del cosiddetto Terzo Polo, che è sorto in vista di queste elezioni anticipate.
Resto sulla politica. Che idee propongono i vari contendenti per la nostra (parzialmente) disgraziata Italia? Provo a sintetizzare: a destra il trio Berlusca, Meloni, Salvini propone tre idee, non molto conciliabili, perché vanno dal populismo sgarrupato della Lega, con il discorotto dei 30 miliardi cui si è affezionato il ragazzo stagionato e stazzonato di Padania, al nazionalismo arcaicizzante e ancora fascistoide di Fratelli d’Italia, fino al conservatorismo paraecumenico assai passé di Forza Italia, coalizione che probabilmente vincerà, ma… chissà dopo: voleranno stracci, probabilmente.
A sinistra abbiamo un PD ancora massiccio, ma disastrato da un’assenza imbarazzante di direzione politica: Letta ha fatto tutta la campagna elettorale teso solo a rintuzzare le posizioni della destra meloniana, incapace di promuovere una proposta di sinistra riformista degna di una appartenenza al filone socialista democratico: occuparsi più o meno solamente di LGBT e di tassare i patrimoni non mi sembrano grandi pensate. Anche il suo viaggio a Berlino è stato come un capitolo fuori tempo e luogo de LaRecherche di Marcel Proust, non una iniziativa politica accorta.
I 5Stelle, oramai ex grillini e paracontiani (finché dura), sono una sinistra senza arte né parte, come la maggior parte di quelli che ivi militano. Militano? Prenderanno voti dalla parte centrale della “gaussiana” dei mediocri. Le cose che racconta il cosiddetto “avvucato del popolo” stanno tra la pura invenzione semantica e semiotica e la più pacchiana disonestà politica. Costui mente sapendo di mentire. Una vergogna tra le più grandi della storia repubblicana.
I due gruppettari della sinistra ecologista non meritano nemmeno il paragone con altri sconfittori della sinistra sinistra, paragonabili al Bertinotti che si vantava di non firmare mai accordi sindacali o d’altro genere. Bella roba, come se firmare accordi fosse un disonore, invece di costituire l’essenza della negoziazione democratica.
Devo dire qualcosa di Di Maio, transfuga dalla breve storia, forse arrivato al capolinea? Anche no. Oppure di figuri come Paragone, aggressivo come una donnola incazzata e affamata, come il “compagno” Marco Rizzo tifoso di Josip Dgiugasvili fuori tempo massimo, oppure del bel magistrato eroicamente prestato alla politica come De Magistris?
Resta, quasi infine, donna Emma da Bra del Piemonte, che conserva una sua dignità.
E per finire il Terzo Polo, guidato da due campioni di antipatia come Renzi e Calenda, due benestanti che riescono anche a pensarla giusta su tanti temi. Li voterò, ma non uscirei con loro neanche per una pizza.
La citazione leopardiana che assume il meraviglioso verso del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, mi permette di riflettere sul senso. Senso in termini generali, senso in termini esistenziali.
Palazzo Leopardi a Recanati
(…) Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?
Il poeta si pone la domanda filosofica, tipica del conte Giacomo, circa l’indirizzo, o il senso della sua propria vita. Che è breve. Che è un “andare”.
E’ la domanda che ogni anima pensosa si fa, non pretendendo di trovare risposte facili. “(…) ove tende/ questo vagar mio breve (…)?”, e accettando la fatica della diuturna ricerca del senso.
E dunque la vita è un vagare breve verso… Leopardi l’agnostico, non parla di “vita eterna”, di aldilà, ma fa rimanere il suo poetar filosofico al di qua. Lui interpella, anche in questa poesia, la luna che occhieggia dal cielo notturno ed è testimone degli eventi che accadono, come quello del pastore errante nelle immense steppe dell’Asia, ma anche come quello del giovane figlio di Monaldo e Adelaide, fratello di Francesco e Paolina, inquietamente speranzoso di trovare una strada per il suo “vagare”. Milano, Firenze, Napoli. I premi, i riconoscimenti, lo studio “matto e disperatissimo”, l’attività letteraria, gli amori infelici. A un certo punto, il senso della sua vita è l’amore senza speranza per Fanny Targioni Tozzetti. Ecco, il tema dell’eros anche in Leopardi si pone. Un eros non solo carnale, ma completo, totale, capace di dare, appunto, un senso al “vagar (suo) breve”.
Noi lettori e successori di Leopardi sotto il profilo storico, sappiamo come è stato il suo “vagar”. Conosciamo e ammiriamo i suoi scritti e la sua capacità di preveggenza sotto il profilo filosofico morale e anche storico.
Leopardi ha scritto in altri idilli di un “affanno (suo) che dura” e di “magnifiche sorti e progressive (del mondo e dell’umanità)”, con amara ironia. Abbiamo constatato come le sorti del mondo, degli esseri umani e del loro “vagare”, è stato ondivago, contraddittorio, perfino “apocalittico”, dopo Leopardi, e fino a noi. Nevvero, Vladimir Vladimirovic Putin?
Nonostante il progresso scientifico e tecnologico, vi sono state le peggiori guerre della storia, e proprio – in qualche significativa misura – in ragione di quel progresso! Lo sappiamo, dobbiamo ammetterlo.
Noi tutti siamo chiamati a tentare una risposta alla domanda del poeta, per riuscire – almeno in parte – a comporre un’idea di percorso buono per le nostre vite.
Interpello un altro autore, diversissimo dal Nostro grande poeta, il filosofo e drammaturgo francese contemporaneo Gabriel Marcel, di solito sussunto dalla critica alle scuole esistenzialistiche, anche se disorganicamente, perché di quelle scuole fanno parte pensatori come Jean-Paul Sartre, ma anche, in un certo senso, come Martin Heidegger, come Emmanuel Mounier e Jacques Maritain.
Riporto alcuni passi del citato autore dal testo L’Io e l’Altro, che non tanto stranamente echeggia (perché non ricordarlo?) il mio L’Uomo e l’Altro.
«Se si astrae dalle teorie e dalle definizioni proposte dai filosofi, per rivolgere la propria attenzione all’esperienza diretta, si è portati a riconoscere che l’atto il quale pone l’io, o, più esattamente, mediante il quale l’io si pone, è sempre identico a se stesso. È quest’atto che dobbiamo cercare di cogliere senza lasciarci fuorviare dalle f